31/10/18

Come lo Stato ha ucciso Diana Blefari Melazzi, 9 anni fà



Fine pena mai, 41 bis. E poco a poco chiude le porte al mondo...

Indifferenza alla vita e alle condizioni del carcere duro come difesa. Talvolta rinuncia all'unico colloquio mensile concesso dal 41 bis. All'ora d'aria... Alterna periodi di tranquillità a momenti di rifiuto della vita. 

Passa intere giornate a letto rintanata sotto le coperte tirate fin sopra il viso. Sguardo nel vuoto, mimica spenta. Dormiveglia esistenziale. Voglia di farla finita...

La sua mente scivola in un'altra realtà. Il fragile equilibrio psicologico è legato a un filo sottile. Basta poco per romperlo. Il sequestro di un elaborato lavoro a maglia che ordiva da mesi, l'annullamento di un colloquio con i familiari per un'ispezione ministeriale. Li vive come tradimento di affetti.

Ancora il 26 settembre 2007 il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, le rinnova il regime di carcere duro. Ci sono state varie iniziative a sostegno dei prigionieri politici. "Afronte di tale ondata di consensi un'eventuale mancata proroga dell'art. 41 bis nei confronti della Blefari potrebbe essere interpretato dal variegato movimento antagonista come un attestato dell'efficacia della campagna di solidarietà condotta, e dai terroristi in carcere come un segnale della ripresa della capacità rivoluzionaria della classe". Il guardiasigilli specifica. Non vi è stato "alcun attestato di dissociazione o di rifiuto della lotta armata" da parte della brigatista.

Due mesi dopo viene accolto il ricorso della difesa. Non vi sono elementi per valutare la persistenza della sua pericolosità...

"Soffro molto di questo regime, tanto da non riuscire a scrivere e da non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte e la mano destra da quella sinistra. Ormai è chiaro che ne uscirò malissimo".

La declassificazione dal regime di carcere duro arriva nel 2008. Troppo tardi. Diana inizialmente non vuole uscire dalla sezione speciale poi accetta passivamente la situazione, ma continua a rifiutare qualsiasi forma di socialità. Una mattina di primavera in preda a una crisi di ira aggredisce una vigilatrice. Viene denunciata.

All'inizio del 2009 a Sollicciano, dove è detenuta in una sezione comune dopo l'ennesimo periodo nel reparto psichiatrico, le vengono autorizzati i colloqui con un suo ex compagno. Un affetto forte, un legame profondo. Lui le è stato vicino per tutto il periodo della detenzione. Il permesso è probabilmente concesso su sollecitazione della Digos a scopi investigativi... L'Amico verrà arrestato con l'accusa di banda armata un mese prima della morte di Diana e assolto dopo 18 mesi di carcere. Reato di solidarietà verso una persona "colpevole".

Con il passare dei mesi Diana appare sempre più prostrata. Dopo anni trascorsi senza scrivere affida alla penna i momenti di disperazione. Le senzazioni ispiegabili. L'impossibilità di gestirle. Vomito, crampi, vampate di calore, giramenti di testa, dolore, paresi alle mani, voci interne, allucinazioni visive. Lo sente, lo scrive... Ripete di voler morire...

Il 21 ottobre viene riportata a Rebibbia... Gli inquirenti spingono su di lei. Puntano a un colloquio investigativo. Un tentativo subdolo e martellante di usare i cedimenti per ottenere una collaborazione. Diana è debole, schiacciata dalla malattia ma continua a dire no...
Nel pomeriggio del 31 ottobre le arriva la notifica scritta della sentenza di ergastolo.

Rimane sola con il peso della condanna a vita e i fantasmi della mente.


Il volto in fiamme. Il freddo dentro. Vibrazioni interiori. Scintille nel cervello. Voci silenziose che tuonano nella testa. Senza tregua, senza pietà. Intrusioni invisibili, impalpabili. Rimbalzano tra le pareti della cella. Pensieri estranei e appuntiti. Sentimenti laceranti. Immagini martellanti. Crescono, si moltiplicano, invadono ogni angolo del corpo. Si accumulano in un magma che tutto travolge, miscela, confonde. Capogiro, sensazione di svenimento. Corpo bloccato, paralizzato. Solo le mani si muovono. La testa, un poco. Solitudine. Debolezza. Colpa. Nausea. Un vortice cupo. Stretto. Un tunnel chiuso. Senza possibilità di luce. Il foglio, il disegno. Disperazione. Le celle sono chiuse, la notte è insopportabile. Spegnere il cervello. Chiuderlo a interventi esterni. Tagliare il lenzuolo. La finestra, le sbarre. Il buio fuori, il buio dentro. Annodare il lenzuolo. Un ultimo salto. Verso la fine. Verso la quiete.

"Quello che ti succede fa parte della guerra, che non è solo con e contro le Br-Pcc e i militanti a essa associati come me, ma è anche contro tutto il campo proletario e rivoluzionario, ogni istanza rivoluzionaria, comunista e di classe.... Si dice, ed è reale, mai come ora, che i prigionieri rivoluzionari sono ostaggi che vengono utilizzati dal nemico contro tutto il proletariato per intimorirlo e tenerlo a bada".

Da "Sebben che siamo donne, storie di rivoluzionarie" di Paola Staccioli

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