31/05/20

Le lavoratrici delle mense, delle pulizie senza lavoro, salari, cig

E' necessario unire le varie situazioni da nord al sud, per organizzare una lotta unitaria - Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe

Una dipendente della mensa: "Senza stipendio da febbraio, non so come pagare l'affitto"

Il caso ad Alessandria: "Non ci pagheranno l'estate come fanno sempre e non sappiamo nulla del rientro a settembre
Laura ha 40 anni, una figlia di 12 e non ha lo stipendio da febbraio. È una delle tante dipendenti, circa cento, del centro cottura che fino a gennaio serviva le mense scolastiche della città.

Quante ore lavora a settimana? «Prima di questo appalto fino a due anni fa, avevo un orario pieno, 40 ore a settimana, e già così comunque facevo fatica a tirare avanti. Poi mi hanno dimezzato le ore, e quindi lo stipendio, devo pagare l'affitto e sono due mesi indietro. Pensi che nei mesi estivi non ci pagano, cioè quando le scuole sono chiuse. E c'è mia figlia..».
Quindi lo stipendio adesso a che cifra arriva? «Adesso è zero. Ho preso l'ultima busta paga a marzo ma era il pagamento del mese di febbraio, sono circa ottocento euro al mese e con quello devo pagare tutto: non so come fare. Non lavoro dal 21 febbraio e non so come non capiscano in che situazione siamo. Sono tre anni che faccio grande fatica a pagare anche la spesa. Ma piuttosto non mangio io per far mangiare mia figlia. Si fa tutto per i figli».
Tra le sue colleghe ne parlate del futuro? Di cosa vi aspetta a settembre? «Siamo tutte preoccupate proprio e soprattutto per settembre, i nostri stipendi non sono alti per nessuna di noi e tutte non lavoreremo in estate. Abbiamo sentito tutte dell'ipotesi del pranzo al sacco e questo ci terrorizza».
Avete cercato di trovare un altro lavoro? Che vi paghi anche nei mesi estivi «Io sono tre anni che lo cerco, perché i tre mesi d'estate senza lavorare sono pesanti, ma non ho trovato nulla e certo non lascio questo lavoro senza una sicurezza».
Che cosa pensa e cosa ha pensato in queste settimane? «La disperazione c'è. Penso a mia figlia che cresce e la scuola, e più cresce e più costa. E non riesco a pagare l'affitto».
La cassa integrazione? «Non l'ho mai vista»
I buoni spesa del Comune? «Neanche quelli. Ma io vorrei solo lavorare. È un diritto dovere lavorare no? Lo dice anche la Costituzione. Potremmo farlo noi quel pranzo al sacco di cui parlano al governo. Però prima devo trovare un lavoro per l'estate»
I sindacati chiederanno per voi un'occupazione nei centri estivi «Se ci saranno. Non si vive senza lavoro. Qualcuno deve pensare alla nostra situazione».

28/05/20

La sanzione della CGS x il 9 marzo ha anticipato l'attacco generale al diritto di sciopero



Che la Commissione Garanzia Sciopero con il divieto dello sciopero delle donne del 9 marzo, a cui è seguita nei primi di maggio la sanzione allo Slai cobas sc che lo aveva proclamato e non revocato, e con l'estensione di tale divieto, col pretesto del coronavirus, a tutte le attività lavorative, indipendentemente se essenziali o non essenziali - fatto avvenuto per la prima volta nella storia della Repubblica -, volesse anticipare e dare un segnale di via libera all'azione del padronato di repressione, si sta ben vedendo in questo periodo di ripresa generale dell'attività lavorativa con il nuovo/aggiornato attacco agli scioperi, assemblee, diritti sindacali che sta avvenendo in varie fabbriche e posti di lavoro. Tra i tanti, il caso emblematico e grave precedente della BRT di Sedriano (MI) dove l'esercito è entrato in fabbrica per interrompere l'assemblea dei lavoratori in sciopero. Come avevamo, insieme ad altre realtà, denunciato fin dal primo momento, l'uso dell'esercito per "l'emergenza coronavirus", oltre che grave, illegittimo per controllare-reprimere nelle strade, non sarebbe rimasto limitato al periodo di pieno lockdown, ma avrebbe costituito un passo avanti definitivo, oltre l'emergenza, dell'azione interna militare dello Stato. E questo si sta puntualmente verificando - per es. è di oggi la notizia che da giugno sarà anche l'esercito a vigilare sulla racolta della frutta a Saluzzo nel Cuneense.
Il diritto di sciopero che arresta la produzione, nella cosiddetta "Fase 2" - che vuol dire per il capitale "fase della ripresa intensificata dell'attività produttiva" per riprendere i profitti, dopo il periodo di emergenza che ha peggiorato la loro crisi - non deve essere tollerato. Lo Stato si toglie i veli della parvenza di universalità e appare esplicitamente come Stato del capitale.

Questo è stato già chiaro nell'illegittimo attacco allo sciopero della CSG, che ha mostrato che l'unico interesse dello Stato: difendere il profitto dei padroni, imporre per questo la "pace sociale" perchè tutto continui come prima e peggio di prima. D'altra parte ricordiamo che lo aveva detto esplicitamente il Presidente della CGS Giuseppe Passarelli, nella sua lettera pubblica del 27 marzo, in cui scriveva: "Il conflitto al tempo del coronavirus ci porta davanti ad uno scontro terribile e inedito..."; le astensioni dal lavoro "produrrebbero un incalcolabile danno alla collettività e aumenterebbero il senso di insicurezza dei cittadini"; "Sin da ora pensare anche al 'dopo' quando superata l'emergenza sanitaria... cambierà il contenuto delle rivendicazioni di imprese e lavoratori... ma cambierà anche la percezione che abbiamo dell'essenzialità di alcuni servizi...".

Chi continua anche nei sindacati di base a sottovalutare l'azione della CGS, o a guardare la sua repressione e non la tendenza generale che tocca tutti, è cieco o opportunista. 
Lo Slai cobas sc chiamerà in Tribunale la CGS contro il provvedimento sanzionatorio ricevuto, ma questo è un aspetto, l'altro più importante è l'azione unitaria contro la repressione dei lavoratori e l'attacco al diritto di sciopero.  

Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe

27/05/20

19 giugno mobilitazione nazionale contro l'uso dell'emergenza coronavirus per intensificare la repressione antiproletaria e antipopolare - l'attacco al diritto di sciopero e alla libertà di manifestazione - contro il carcere assassino e il carcere tortura - a sostegno delle lotte nelle carceri e in solidarietà con i prigionieri politici nel mondo

A fronte della crisi economico/pandemica, frutto del modo di produzione capitalista nella fase imperialista, il governo sfrutta le lezioni dell'emergenza per imporre le leggi e gli interessi dei padroni ed affinare le armi della repressione a tutti i livelli.

La Fase 2 per padroni e stato è all'insegna delle leggi e i provvedimenti liberticidi. Ai vari decreti e pacchetti sicurezza si aggiungono misure emergenziali, sanzioni e controllo sociale sempre più capillare, per usare il distanziamento sociale e le leggi anti-assembramento per impedire le lotte sociali e i movimenti di opposizione politica anticapitalista, antirazzista e antimperialista

Il cuore è l’attacco preventivo al diritto di sciopero - già esercitato in occasione della giornata internazionale delle donne - al diritto di manifestazione sindacale e politica in un quadro in cui si vuole cancellare ogni forma di libertà di espressione, militarizzando ogni aspetto della vita sociale.
Ogni manifestazione di dissenso viene immediatamente punita, sia attraverso multe comminate a proletari sia utilizzando l’arresto ed il carcere per punire la solidarietà proletaria.

Il diritto alla salute viene usato dal governo per un lockdown a favore di padroni che deve essere solo “lavorare per produrre profitto”.

Così diventano numerose le sanzioni, i licenziamenti punitivi su lavoratrici e lavoratori che si sono rifiutati di lavorare in condizioni di insicurezza, o che hanno osato solo denunciare la mancanza di dpi sul luogo di lavoro; le cariche, il controllo militare, la repressione poliziesca delle lotte operaie e sindacali, sulle manifestazioni e scioperi di lavoratori, disoccupati, migranti, pur se effettuate rispettando le regole sul distanziamento sociale e l’uso delle mascherine; i divieti e le misure “cautelari” imposte a lavoratrici e lavoratori precari, denunciati per aver difeso lavoratrici e lavoratori sfruttati, come successo a Bologna con accuse gravissime, come tentata estorsione, diffamazione ecc.

La repressione padronale delle lotte proletarie è andata ben oltre i limiti della cosiddetta “legalità”, innescando vere e proprie aggressioni criminali sui posti di lavoro ai danni di lavoratori ribelli e delegati dei sindacati di base e di classe (ultimi esempi, l’episodio del bracciante di Terracina, picchiato e licenziato perché chiedeva una mascherina, oppure quello che ha colpito il delegato Slai Cobas s.c. a Taranto, vigliaccamente aggredito perché pretende il rispetto dei diritti dei lavoratori al Cimitero di Taranto.

Intanto la procura di Bologna avvalora l’arresto di 12 compagne e compagni, accusati di associazione sovversiva, costruendo una montatura con la «strategica valenza preventiva, volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturiti dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica, in quanto gli indagati avrebbero partecipato negli ultimi mesi di lockdown a sit-in e proteste in favore delle rivolte nelle carceri per il rischio coronavirus».

A Milano viene imbastita una campagna contro la scritta 'fontana assassino' rivendicata dai CARC per criminalizzare tutti coloro che giustamente accusano la giunta regionale lombarda di aver contribuito a trasformare la pandemia in strage.

Intanto nelle carceri, dove dall’8 marzo è esploso il conflitto, si è abbattuta con virulenza la repressione, causando il massacro di almeno 14 persone, torture, pestaggi, riduzione alla fame, umiliazioni, trasferimenti punitivi e ulteriore aggravamento delle già tragiche condizioni sanitarie e di sovraffollamento, che hanno favorito il diffondersi dell’epidemia nel silenzio più totale.
Dobbiamo sostenere la legittima lotta dei detenuti per il diritto alla cura e all’affettività, per una vita dignitosa, la richiesta di amnistia/indulto.
Essa va sostenuta con la controinformazione e le iniziative dentro e fuori le carceri.

Per questo proponiamo una mobilitazione specifica, unitaria e organizzata contro la repressione sociale e politica, contro il carcere assassino e il carcere tortura, per la solidarietà di classe e militante nei confronti di tutti i prigionieri politici e dei proletari ribelli detenuti nelle carceri dell’imperialismo.

Un appuntamento da costruire insieme per il 19 giugno, giornata storica di solidarietà internazionale con i prigionieri rivoluzionari.

Soccorso rosso proletario
27 maggio 2020

"Cagna", così viene apostrofata una donna in visita a suo marito nel carcere di Rebibbia

Riceviamo e pubblichiamo le considerazioni di una parente di una persona detenuta a #Rebibbia riguardo la ripresa dei colloqui in #carcere 


Arrestate in Turchia 18 donne del movimento femminile kurdo

Arrestate le attiviste del movimento “Rosa Women’s Association” attivo nella Turchia del sud, in quegli insediamenti kurdi dove da cinque anni la repressione di Erdogan contro la cittadinanza e le istituzioni locali è feroce, al punto di far parlare di “genocidio politico”.
 
 
Bologna, 27 maggio 2020 – E’ successo venerdì scorso. Una denuncia per terrorismo a 18 attiviste del movimento Rosa Women’s Association, alcune di esse esponenti del partito di sinistra kurdo HDP. Tutto è stato avviato in seguito ad una indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Diyarbakir.

Dichiarazioni segrete portate come prove

 
Il 22 maggio è stato emesso un mandato di cattura per 12 di loro, che sono state prelevate ed arrestate. Cinque rilasciate su cauzione e una messa agli arresti domiciliari. Come ormai nella prassi del dominio autoritario turco, le accuse non sono suffragate da prove documentali ma da dichiarazioni di persone anonime, tenute segrete. C’è da dire che da dopo l’assedio del 2016 tutte le organizzazioni femminili sono state chiuse, l’unica rimasta a supportare la violenza contro le donne era l’Associazione Rosa.

Le accuse surreali

Le accuse esplicitate durante gli interrogatori hanno lasciato sbigottiti gli avvocati difensori. Il repertorio è stato molto vario: dal motivo per cui veniva organizzata una manifestazione per l’8 marzo, al sostegno dato dal “Consiglio delle madri della pace” per uno sciopero della fame contro la carcerazione di Abdullah Öcalan; ancora la vicinanza al movimento delle donne libere, e persino la stigmatizzazione dei femminicidi, che dimostrerebbero la natura terrorista dei comportamenti insiti nel movimento femminile kurdo.

Il “crimine” della doppia leadership

 
Ma le accuse più stringenti hanno riguardato la gestione del sistema territoriale da parte dell’HDP, i cui leader nazionali come Selahattin Demirtaş, sono in carcere da tre anni. Ad essere messo sotto accusa è il sistema paritario di genere in relazione alla doppia leadership sia dentro il partito che fuori nelle istituzioni locali. Cioè a dire che, in qualsiasi contesto, se c’è un presidente uomo ci sara una co-presidente donna e viceversa.

Infine, ma non ultimo in ordine d’importanza, sono stati contestati alle donne inquisite degli slogan cari al movimento, il primo dei quali è “Donne, vita, libertà”, oppure “Non ostacolare il nostro libero arbitrio”…

Il crimine è protestare contro il patriarcato

Il Movimento delle donne libere (TJA), ha emesso un comunicato dove chiarisce in modo inequivocabile cosa stia succedendo in Turchia:

“Il diritto e la libertà delle donne all’organizzazione indipendente vengono considerati una questione incriminante. Tutti gli usi del diritto alla libertà di espressione a favore della libertà delle donne sono trattati come prove incriminanti. Questi attacchi mostrano che il governo dell’AKP-MHP sia intenzionato a continuare le sue politiche misogine, militariste, razziste, sessiste e moniste, usando la religione. Essere una donna, essere kurdo, vivere nella geografia kurda provoca un triplice aumento dell’oppressione.”
 
 

26/05/20

Senza lavoro, senza salario e ammortizzatori sociali! A casa non ci staremo più! Da Palermo in lotta

PRECARIE E PRECARI ASSISTENTI IGIENICO PERSONALE PALERMO
Slai Cobas per il sindacato di classe


la forte denuncia di una precaria




Contro il mancato rinnovo del nostro contratto di lavoro!
Contro la illegittima e vergognosa disapplicazione da parte della Regione Siciliana Musumeci/Scavone della legge nazionale (DL 18/2020 art. 48) e regionale (art. 5 comma 7 Legge di stabilità 2020 recentemente approvata) per la riconversione del nostro servizio!

Siamo senza lavoro, senza stipendio e senza ammortizzatore sociale!

I palazzi del potere scaricano su di noi e tanti altri lavoratori l'emergenza Covid-19!

A casa non ci stiamo più! Non vogliamo morire di Covid ma neanche di non lavoro e di non salario!


SERVIZIO DI TELE ONE

24/05/20

25 maggio - Senza lavoro, salario e ammortizzatori sociali! A casa non ci staremo più! Protesta delle Assistenti igienico personale PA

 Sit in di protesta Lunedi 25 maggio ore 10 all'Assessorato Famiglia politiche sociali lavoro!
Contro il mancato rinnovo del nostro contratto di lavoro! Contro la illegittima e vergognosa disapplicazione da parte della Regione Siciliana Musumeci/Scavone della legge nazionale (DL 18/2020 art.48) e regionale (art.5 comma 7 Legge di stabilità 2020 recentemente approvata) per la riconversione del nostro servizio! Siamo senza lavoro, senza stipendio e senza ammortizzatore  sociale!I palazzi del potere scaricano su di noi e tanti altri lavoratori l'emergenza Covid-19! A casa non ci stiamo più! Non vogliamo morire di Covid ma neanche di non lavoro e di non salario!Assistenti igienico personale degli studenti disabili Slai cobas s.c. in delegazione e a nome di tutti gli assistenti siciliani tutti nella stessa grave condizione.

ps ... e settembre non è così poi lontano, non ci cancellerete dal mondo del lavoro

Il 16 maggio 2020 a Palermo ci è scaduto il contratto di lavoro stipulato con le Cooperative Sociali, a seguito procedura di accreditamento della Città Metropolitana, delegata per l’erogazione di un servizio che la legge definisce “essenziale e obbligatorio” dalla Regione Siciliana – Assessorato famiglia, politiche sociali, lavoro. Ma la stessa situazione investe in tutta la Sicilia tantissimi Assistenti perchè la Regione Siciliana di Musumeci/Assessore Scavone hanno deciso che possiamo espletare il nostro servizio verso gli studenti disabili solo “in presenza” nelle scuole...  dal 5 marzo  pertanto non lavoriamo e oggi siamo completamente fuori.
Tutto questo è illegittimo! Il DL 18/2020 del governo nazionale contempla all’art.48 la riconversione per i servizi come il nostro da parte delle pubbliche amministrazioni  e proprio il nostro servizio può e deve essere legittimamente riconvertito in questa fase con l'organizzazione di  progetti estivi, esperienza che noi che abbiamo già fatto anni addietro con ottima riuscita per gli studenti in primis e con soddisfazione delle famiglie in apposite strutture pubbliche e dal mese di  settembre, che non è poi così tanto lontano, si deve già preventivare ora come organizzare il servizio per gli studenti sul cui diritto allo studio con la DAD, come anche denunciato da diversi genitori, è stato leso per vari aspetti.
Ma la Regione Siciliana, a differenza di altre regioni come il Lazio, l’Umbria, l’Abruzzo per esempio e molteplici Comuni, non ha voluto dare applicazione all’art.48 ma ciò che è assurdo e inaccettabile è che non ha dato applicazione alla stessa sua legge approvata molto di recente, l’art 5 comma 7 della Legge di stabilità 2020 in cui è contemplata anche la nostra specifica categoria..
Siamo oggi senza contratto, non abbiamo più diritto a nessun sostegno economico, le Istituzioni ci fanno pagare l’ emergenza covid-19 come se fosse colpa nostra, non abbiamo ricevuto ad oggi nemmeno un euro ne' di stipendio ne' di FIS che non si sa quando riceveremo visti i vergognosi ritardi sui pagamenti degli ammortizzatori sociali per migliaia di lavoratori in Sicilia che ancora aspettano versando in situazioni gravissime di sopravvivenza, ma  che dal 17 maggio non ci spetterà più a causa della mancata proroga del contratto. E oltre il danno la beffa! Visto che non abbiamo lavorato per tanto tempo infatti abbiamo maturato pochissimi giorni per la NASPI, quindi ci ritroviamo senza alcun reddito per vivere!!!
Essere esclusi anche dalla possibilità di chiedere la prosecuzione dell’erogazione dell’ammortizzatore sociale a causa della mancata proroga del contratto fino al termine delle lezioni è il segnale chiaro e netto di come dai palazzi del potere  a parole si dice di volere sopperire alle difficoltà dei lavoratori precari e più a rischio occupazionale ma nei fatti si lasciano togliendo loro l’unica fonte di reddito.
Non potete pensare che ci staremo ancora a casa a disperarci mentre se non moriamo di coronavirus moriremo di non lavoro e di non reddito, non abbiamo niente da perdere!!  La riconversione del nostro servizio è un nostro diritto fino a quando ci sarà l'emergenza Covid!
Il Coronavirus non è e non deve essere il “nuovo” pretesto per cancellarci dal mondo del lavoro, non ve lo permetteremo! 


Assistenti igienico-personale Palermo

Coronavirus, viaggio nel mondo delle sex worker: "Il lavoro della escort nei giorni della pandemia"




(LA STAMPA)
"Il covid è democratico, ha colpito tutti indistintamente" spiega Sofia Mehiel, membra del direttivo Mit (Movimento identità trans) – "e i meno ricchi, le persone invisibili, patiscono sempre più la fame, come ad esempio le escort, in particolar modo le trans". "Il covid ci ha rovinato, non possiamo lavorare: io sono in difficoltà economiche e ho pensato persino di rivolgermi alla Caritas" dice Baby Moana, escort napoletana ma da anni a Bologna- "per noi trans questa professione è una necessità, non è una libera scelta: ho provato più volte a cercare lavoro ma c’è ancora tanta discriminazione". In Italia la prostituzione non è illegale ma la prostituta non è un lavoro riconosciuto e così tante sex worker non hanno avuto diritto a incentivi economici e sussidi in una situazione di emergenza: "Se la prostituzione fosse riconosciuta, noi pagheremmo le tasse e avremmo diritto a una pensione e a dei controlli periodici" spiega Baby Moana. Secondo Mike Morra ceo e fondatore del sito Escort Advisor l'80% delle escort ha deciso di non lavorare in questo periodo:  "Dopo il 4 maggio invece abbiamo notato un forte incremento di traffico da parte degli utenti che erano alla ricerca delle escort nelle varie città, anche se in questo momento per via delle limitazioni di mobilità legate all’emergenza, i clienti non potrebbero recarsi dalle escort". Jessica, che riceve nella sua casa di Bologna, guadagnava fino a 15.000 euro al mese prima del coronavirus, e ha da poco ripreso a lavorare: "la paura c’è ma io non posso stare ferma fino a quando non trovano un vaccino, ho adottato delle precauzioni e ho avuto anche clienti che hanno tenuto la mascherina addosso durante il rapporto sessuale".  
Video di Valerio Lo Muzio

Venerdì 29 maggio ore 17: incontro formazione on line. Un invito a tutte le lavoratrici

Con il Prof. Di Marco  Formazione on line da parte di compagni, compagne, operai, lavoratori, e riguardanti l'analisi del sistema del capitale responsabile anche delle crisi pandemiche.



Il 29 maggio ore 17 appuntamento telematico aperto
a cui chiunque potrà partecipare e intervenire. 

Per collegarsi: 
 
Link della riunione pubblica
info 347-5301704

Ancora un licenziamento punitivo di una lavoratrice, per aver denunciato la mancanza di sicurezza sul luogo di lavoro. Massima solidarietà dal MFPR

Da La Stampa

Coronavirus, la Oss si sfoga sul web: “Qui non ci sono mascherine, siamo carne da macello”. Licenziata

Lavorava nell’assistenza, ha denunciato le carenze via mail e Facebook.

TORINO. Ha protestato perché sarebbe stata «costretta a lavorare senza le protezioni necessarie per evitare il coronavirus». Ed è stata licenziata perché le sue parole – rimbalzate su mail, Whatsapp e Facebook – per l’azienda sarebbero «lesive».
E’ quanto è successo a un’operatrice socio sanitaria di 52 anni che lavorava per la cooperativa Frassati nel campo dell’assistenza domiciliare. Ieri la donna ha ricevuto la lettera di licenziamento «per giusta causa». Il suo sindacato - Cisl funzione pubblica - impugnerà il provvedimento davanti al giudice del lavoro.

I timori
La oss girava di casa in casa assistendo malati terminali e anziani. Da quando è scoppiata la pandemia ha convissuto per giorni con la paura di infettarsi. L’ha manifestata con ogni mezzo. Ha parlato con i responsabili. Ha scritto una mail al Ciss, Consorzio intercomunale servizi sociali di Chivasso, che appalta il servizio di assistenza domiciliare alla Frassati. Ha postato sui social la sua paura. «Ancora oggi le mascherine non sono arrivate». «Dicono che dobbiamo evitare il contagio, ma lavoriamo senza protezioni». «A noi oss, chi ci tutela?». «Siamo carne da macello». Frasi che il datore di lavoro considera «false e denigratorie».
 
Le indicazioni
«All’inizio della pandemia ci hanno dato mascherine di carta assorbente -racconta la oss - dopo il 16 marzo cinque chirurgiche. Non me la sono sentita di andare avanti così, con persone terminali o fragili, prima di tutto per loro. Avevo paura di infettarli. Ecco perché mi sono battuta». In un contesto complesso, non hanno aiutato le «direttive» che una referente impartiva attraverso Whatsapp. «La mascherina la potete usare e mettere nel congelatore appena arrivate a casa - diceva - lasciarla lì tutta la notte e utilizzarla il giorno dopo. La mettete dentro al Domopak o a un sacchetto che volete voi».
Le oss si aspettavano kit sterili con Fpp2, da indossare ad ogni visita. «Anche perché come si fa a sapere se l’utente è positivo o no?», era la domanda che si ponevano.

La segnalazione
Per Roberto Galassi, presidente della Frassati, la causa principale del licenziamento sarebbe la segnalazione con cui la oss ha denunciato la questione “dpi” al Ciss. «La lavoratrice ha denigrato la cooperativa - spiega - nel periodo del Covid ha lavorato cinque giorni, per il resto era assente per malattia. Le abbiamo fornito i dpi previsti dalla normativa, che prevedeva, nella prima fase del Covid, mascherine chirurgiche solo per l’utente. Parliamo di utenti asintomatici. Valeva anche la regola del distanziamento. E se l’ospite non aveva la mascherina, l’oss non doveva fare l’intervento». —

Il Movimento delle donne libere TJA lancia una campagna per i prigionieri politici

Da Rete Kurdistan


Il Movimento delle donne libere (TJA) ha lanciato una campagna a favore dei prigionieri politici con altre organizzazioni internazionali delle donne denominata “La solidarietà ci tiene in vita”.
Una conferenza stampa per spiegare la campagna è stata organizzata dal Partito democratico delle regioni (DBP) nella sede di Amed (Diyarbakır). La portavoce del TJA Ayşe Gökkan è intervenuta in curdo e ha affermato che la pandemia del Coronavirus è “il risultato dell’attacco alla natura e alla società condotto dal sistema della modernità capitalista interessato solo a ottenere i massimi profitti”.
Ayse Gökkan ha aggiunto: “Molti stati vedono il Coronavirus come un’opportunità e lo usano per attaccare le persone più vulnerabili della società, cioè le persone che hanno ignorato finora, specialmente i prigionieri e gli anziani. In particolare, l’opposizione e prigionieri politici sono lasciati morire, esclusi come sono dalle leggi sul rilascio emanate per impedire la diffusione del virus nelle carceri. “
Ayse Gökkan ha proseguito: “Noi “all’esterno” dovremmo difendere le nostre sorelle ribelli ‘dentro’, insieme all’opposizione, ai prigionieri politici e in questo processo proteggere le loro vite. Chiediamo a tutti di unirsi alla campagna per liberare i prigionieri politici”.
Ha elencato gli obiettivi della campagna come segue:
1. Consentire il contatto tra i detenuti, in particolare le donne, i loro parenti e sostenitori e rendere la situazione e il pensiero dei prigionieri visibile al pubblico;
2. Sostenere i detenuti in tutti i paesi e avviare petizioni contro le politiche carcerarie dei governi
3. La richiesta alle Nazioni Unite, al Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) e ad organizzazioni simili di esercitare pressioni politiche e diplomatiche su questi paesi, chiedendo il rilascio immediato di tutti i prigionieri politici.

Gli eventi della campagna saranno condivisi su questo sito Web:
www.solidaritykeepsusalive.wordpress.com

Organizzano la campagna:

Movimento delle donne libere (TJA)
Movimento delle donne curde – Europa (TJK-E)
Ronak
CENÎ – Ufficio delle donne curde per la pace
Alleanza internazionale delle donne (IWA)
Fronte pachistano delle donne democratiche (WDF)
Ruba odeh Palestina
Femministe di Abya Yala
Fronte nazionale delle donne egiziane
Associazione marocchina delle donne progressiste
Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan RAWA
Collettiva di sostegno per le donne prigioniere in Aragona (C.A.M.P.A.)

DUE FATTACCI DALLA STESSA FOGNA: L'ESERCITO

I MILITARI SONO UNA RAZZA BASTARDA: FASCISTI E SESSISTI DENTRO COMUNQUE... COLTIVATI DENTRO L'ESERCITO




PAROLISI L'ASSASSINO DI MELANIA IN LIBERTA' - E NESSUNA INCHIESTA 
SULLA FOGNA NERA DELL'ESERCITO
 
 
 
Dalla denuncia del Mfpr all'epoca: "...il buco nero dell’esercito, improntato e pregno comunque di una logica e prassi fascista, maschilista, di relazioni improntate a uno spirito di oppressione/sopraffazione gerarchica che diventa a volte uso/abuso sessuale soprattutto quando vi sono donne (che o si adeguano a questo spirito e ne sono complici, o ne vengono schiacciate dal rambismo machista), ma anche di difesa/omertà di corpo all’interno?
Vergognosi tentativi di deviare l’attenzione dagli orrendi particolari che invece stanno iniziando a
venire fuori in merito al mondo militare maschilista e sessista che Melania forse aveva scoperto
diventando una reale minaccia alla salvaguardia “dell’onore” dell’arma.
All'epoca Carlo Bonini su Repubblica raccontò che la caserma di Parolisi era un posto dove le
soldatesse venivano più o meno costrette a riti di iniziazione alla vita militare e dovevano anche prestarsi a favori sessuali in cambio di licenze:
I racconti sono negli interrogatori dei carabinieri ai graduati: la sproporzione tra il numero delle reclute (tutte donne) e il quadro ufficiali e sottufficiali (per lo più uomini), dove il gallismo dei maschi si esalta nella sudditanza normalmente imposta alle reclute. Uno dei caporali addestratori del 235esimo aveva raccontato che, alla “Clementi”, c’è chi vanta “strisce importanti”, “Fino a trenta reclute in un anno”. Perchè ogni notte con una “volontaria” diversa diventa una tacca nel bastone del comando. Parolisi era della partita".
 

GENOVA, VENERDI' 22 MAGGIO: SOLIDARIETA' ALLE LAVORATRICI DELLA ZENITH

Dopo praticamente tre mesi in cui siamo stat* costrett* – per mancanza di inziative, assemblee, presidi, e quant’altro, dovuta alle norme per il contrasto della pandemia – a sospendere le nostre attività “sul campo”, torniamo alla normalità.
Per la verità, si tratta di una ben strana normalità: mascherine, distanza di sicurezza, divieto di assembramento, non consentono al momento di rimettere in movimento la consueta attività del periodo precedente alla “clausura”.
Qualcosa però comincia a muoversi, con l’avvio della fase due: così, venerdì ventidue maggio partecipiamo ad un presidio a Genova, sotto l’albergo Bristol di via XX Settembre, organizzato dal S.I.Cobas.

Si tratta di portare la propria solidarietà alle lavoratrici della ditta Zenith, addette alla pulizia delle camere della lussuosa struttura ricettiva, che da tre mesi non ricevono il dovuto fondo di integrazione salariale.
I solidali, tra cui non mancano i militanti locali dello Slai cobas per il sindacato di classe, sono qualche decina, “armati” di bandiere e cartelli con su vergato: «Sosteniamo le lavoratrici del Bristol Hotel».
Come scrivono nel volantino che viene distribuito ai passanti, e ribadiscono nei comizi volanti effettuati al microfono, «la situazione è drammatica e insostenibile, e con le buste paga a zero euro è un’impresa la sopravvivenza».
Continuano poi denunciando che questo avviene «nonostante i proclami rassicuranti e le promesse del governo che attraverso i media alimenta una visione distorta di una realtà sociale fatta sempre più di miseria».
Essendo, purtroppo, una situazione «comune a molti altri lavoratori e lavoratrici ancora in attesa di casse integrazioni che non vengono pagate, o addirittura esclusi da ogni forma di sostegno», concludono facendo appello all’unità «per far sentire la nostra voce e reclamare salario, diritti e dignità».
Bosio (Al), 23 maggio 2020
 
Stefano Ghio - Slai Cobas per il sindacato di classe Alessandria/Genova

23/05/20

NELL' ANNIVERSARIO DELLA 194 RITORNO IN PIAZZA A DIFESA DELLA LEGGE

Da Non Una Di Meno - Milano
IN DIRETTA - NEL GIORNO DELL'ANNIVERSARIO DELLA 194 SIAMO TORNATE IN PIAZZA! OBIEZIONE RESPINTA
A 42 anni dall'approvazione della 194 la distanza dal pieno diritto all'aborto  è ancora enorme.
La mancanza di una seria prevenzione con una educazione sessuale orientata al piacere e alle differenze nelle scuole, l'obiezione di coscienza, la "settimana di riflessione obbligatoria, la disinformazione sulla RU486, il taglio dei fondi ai consultori ne sono le cause principali.
A 42 anni dall'approvazione della 194 la distanza dalla medicina territoriale è diventata enorme, grazie all'applicazione del "modello lombardo" privato.
Frasi come "i medici di base non servono più a nulla" e le sistematiche chiusure dei consultori pubblici di zona, come previsto per quello di via Ricordi, hanno allontanato letteralmente la salute dalle nostre case e dai nostri corpi. 
A 42 anni dall'approvazione della 194, dopo decenni di tagli al welfare statale e regionale, la distanza da una sanità libera, laica, gratuita e di qualità per tutt* non è mai stata così grande: la pandemia da Covid-19 ne ha solo messo in luce le dimensioni. 
Abbattiamo le distanze tra il 1978 e oggi. Tra l'approvazione di una legge e la piena applicazione di un diritto. Tra la sanità che abbiamo e la salute che dovremmo avere.
 

21/05/20

Muore cadendo dal quarto piano della ASL lavoratrice delle pulizie. Ecco la sicurezza che questo stato borghese garantisce e contro cui bisognava e bisogna lottare!

Non una di meno non solo a chiacchiere, ma con la solidarietà attiva con le lavoratrici che hanno difeso e difendono il diritto di sciopero contro le sanzioni dello stato dei padroni!

Un’addetta delle pulizie è morta dopo essere caduta dal quarto piano del palazzo della Asl in via Finocchieto. La donna sarebbe precipitata per diversi metri e trovata ai piedi di una scala antincendio mentre stava lavorando. Sul posto per i rilievi scientifici i carabinieri, che indagano sul caso.

di Alessia Rabbai

Tragedia a Poggio Mirteto (Rieti), dove un'addetta delle pulizie è morta dopo essere precipitata dal quarto piano del palazzo della Asl in via Finocchieto. L'incidente sul lavoro, che ha avuto esiti drammatici, è accaduto nel pomeriggio di oggi, martedì 19 maggio. Come riporta IlMessaggero, la vittima è R.L., una cinquantenne del posto. Secondo le informazioni apprese erano circa le ore 14, poco dopo pranzo, quando un collega della donna ha udito un rumore improvviso, come un tonfo e si è allarmato. Affacciandosi dalla scala antincendio ha visto la donna a terra. Pensando subito al peggio viste le sue condizioni parse gravissime, ha dato l'allarme, chiedendo l'intervento urgente di un'ambulanza. Ricevuta la telefonata al Numero Unico delle Emergenze 112, sul posto è arrivato il personale sanitario del 118.

I paramedici una volta arrivati in via Finocchieto purtroppo non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. A risultarle fatali le ferite e i traumi riportati a seguito del violento impatto con il suolo, dopo un volo di diversi metri che non le ha lasciato scampo. Inutile la corsa a sirene spiegate. Presenti per gli accertamenti necessari al caso i carabinieri della Compagnia di Poggio Mirteto, che indagano sull'accaduto e che dovranno ricostruire l'esatta dinamica dei fatti. Appresa la tragica notizia la comunità si è stretta intorno alla famiglia della donna, per la drammatica scomparsa. Presente sul posto anche il sindaco Giancarlo Micarelli, che sta seguendo il caso. Terminati gli accertamenti, la salma è stata trasferita in obitorio, dove resta a disposizione dell'Autorità Giudiziaria e che sarà sottoposta ad ulteriori esami.

Fonte: fanpage.it

Rinnovo del blog femminismorivoluzionario

Stiamo rinnovando il blog femminismorivoluzionario, per renderlo più in sintonia con le battaglie odierne su tutti i fronti e più agile.
Chiediamo anche vostri suggerimenti, proposte, cosa va e cosa non va...
Un forte saluto rosso a tutte!
Scriveteci

MFPR
mfpr.naz@gmail.com

18/05/20

Vogliono processare chi manifestò contro il G7 - nel corteo in prima fila tante donne

Il 14 ottobre si apre un processo, dopo 3 anni, contro 41 compagne e compagni che manifestarono al Giardini Naxos/Taormina contro il vertice G7 che si teneva proprio a maggio.
Tra gli imputati varie compagne, tra cui compagne del Mfpr di Taranto.
L'MFPR fu l'ala più combattiva delle donne nel corteo.
 
Questo che riportiamo fu il volantino che demmo alla manifestazione.

Facciamo appello alla massima solidarietà verso tutti i processati
 
MFPR

A TAORMINA CONTRO I NEMICI DELLA LIBERAZIONE DELLE DONNE - Da Mfpr

Andiamo a Taormina a manifestare contro il G7, per opporre al loro doppio sfruttamento, alla doppia (e spesso, soprattutto per le donne dei paesi oppressi, per le immigrate, tripla, quadrupla) oppressione, alle loro doppie catene, la nostra doppia determinazione a ribellarci e lottare contro questo sistema imperialista, i suoi Stati, i suoi governi, a Taormina rappresentati dai capi dei paesi partecipanti al G7, tra i più nemici della liberazione delle donne, in testa il fascista, razzista, schifoso maschilista, Trump.
Noi donne l'8 marzo, in Italia e in 50 paesi del mondo abbiamo fatto uno storico sciopero delle donne. Uno sciopero che è una sfida verso i padroni, verso i governi, gli Stati, gli uomini che odiano le donne, in cui soprattutto le donne proletarie hanno gridato: tutta la vita deve cambiare! E quando le donne si muovono, hanno sempre una marcia in più, quando le donne prendono coscienza che la propria condizione non è inevitabile, ma frutto di questo sistema capitalista, non tornano indietro e comprendono che la lotta non può essere parziale, ma rivoluzionaria!
Allora, prendetevi paura!
Non andiamo a Taormina per “chiedere”, ai responsabili del moderno medioevo in cui ci costringono a vivere, una realtà fatta di subordinazioni, discriminazioni, negazione del lavoro, dei diritti, di stupri e femminicidi, a chi fa morire di fame milioni di bambini nel mondo, a chi fa strage con le sue bombe di donne e bambini, a chi fa annegare tante vite di migranti nei nostri mari, aggiustamenti in senso “umanitario” di un sistema che di umano non ha nulla. Noi andiamo a dire che alla loro violenza reazionaria è giusto organizzare e opporre la nostra violenza rivoluzionaria!
Non sono certo le donne, che subiscono tutto di questa marcia società imperialista, a poter/dover essere “pacifiste”; per rompere le nostre catene è necessaria una lotta senza tregua, noi donne dobbiamo imporre i nostri diritti con la forza; perchè noi abbiamo mille ragioni e loro sono mille volte fuori dalla storia futura dell'umanità; perchè loro vogliono imporre la “morte” e noi vogliamo la vita; perchè loro “affogano” nelle ricchezze strappate ai popoli e ai proletari che le producono e noi vogliamo un mondo senza guerre, miseria, oppressione, uccisioni delle donne.
Per questo, a Taormina ci sentiamo parte del grande “esercito” delle donne che resistono e combattono in tutto il mondo, con le donne della Palestina, con le rivoluzionarie comuniste turche/curde, del Brasile, Filippine, Perù, ecc., con le tantissime ed eroiche combattenti maoiste in prima fila nella guerra popolare in India.
La ribellione, la lotta delle donne è una forza poderosa della rivoluzione proletaria, per rovesciare questo putrido mondo e per cambiarlo dalla terra al cielo!

Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario

16/05/20

La testimonianza di una compagna. Per costruzione di una piattaforma unica per la Sanità Allegata sotto la piattaforma dello Slai cobas per il sindacato di classe Sanità Milano

 
Covid19 – No, non è andato tutto bene
Mia mamma ha i primi sintomi il 20 marzo. Lavora come operatrice socio-sanitaria in una RSD, quel giorno è di riposo, si prova la febbre a casa e ha 37,5. Il 21 marzo chiama la guardia medica per richiedere il certificato e la visita domiciliare, in quanto la comunicazione della Regione Lombardia e del Governo è quella di rimanere a casa se si ha la febbre uguale o superiore a 37,5. La risposta ricevuta è di recarsi direttamente alla loro sede ambulatoriale, incuranti di qualsiasi regola istituita per contenere il contagio. Le danno solo due giorni di malattia, consigliandole di sentire in seguito il suo medico di famiglia per eventuali giorni in più. Tra il 22 e il 26 marzo mia madre continua ad avere la febbre fino a 38,6 con assenza di gusto e olfatto. Dal 27 marzo fortunatamente la febbre comincia a calare fino a 37,2. La sintomatologia viene curata con Tachipirina su prescrizione esclusivamente telefonica del medico curante.

Durante questi giorni di malattia la persona che si prende cura di mia madre è mio padre, un uomo di
75 anni senza particolari patologie ma che due anni fa aveva avuto una lunga polmonite. Il medico curante, già a conoscenza dello stato di salute dei miei genitori avendoli in cura da diverso tempo, raccomanda l’isolamento domestico e la limitazione dei contatti tra di loro, difficilmente attuabile in
un appartamento di piccole dimensioni e con tutte le difficoltà date dalla mancanza di adeguati presidi sanitari, più volte propagandati dalla Regione Lombardia e invece non ancora forniti dal sistema sanitario regionale. Nonostante il medico curante abbia richiesto il tampone non arriva nessuna risposta, nessun supporto medico né una soluzione per separare temporaneamente i miei genitori. Vengono letteralmente lasciati da soli in casa con il virus. Inizialmente provano a fare i “separati in casa”: dormono in stanze diverse, cercano di stare sempre con le mascherine, tengono gli asciugami in due punti diversi del bagno e lavano tutto in lavastoviglie. Purtroppo tutto questo non basta e mio padre inizia ad avere la febbre il 28 marzo. E’ lui stesso a dirmelo al telefono mentre sono occupata a fare loro la spesa. Io scoppio in lacrime, sono spaventata. Mio padre cerca di consolarmi dicendomi che visto come è andata a mia madre, anche a lui sarebbe passato tutto in una decina di giorni…io provo a crederci e smetto di piangere.

Tra il 29 e il 31 marzo la temperatura di mio padre comincia a salire fino a 38,7. Anche in questo caso la terapia prescritta, esclusivamente al telefono, è costituita da Tachipirina e Plasil per combattere il senso di nausea. Tra i sintomi non si rileva tosse, ma un continuo abbassamento della voce che viene imputato alla stanchezza e alla spossatezza provocata dall’infezione. Continua senza sosta e senza esito la richiesta di tamponi per acclarare la natura della malattia ed eventualmente poterla gestire evitando il suo possibile aggravarsi. Il primo di aprile facciamo la prima chiamata al 112 , su suggerimento del medico, perché la temperatura continua a salire e mio padre è sempre più debole. La chiamata porta ad uno screening telefonico con l’indicazione di trattenere il respiro e contare fino a 10. Non ritengono necessario nessun intervento, né propongono indagini più approfondite. Lasciano nuovamente da soli i miei genitori ad affrontare un nemico invisibile e insidioso. Il giorno dopo la salute di mio padre si aggrava ulteriormente e la febbre arriva a 39,5: mia madre estremamente preoccupata chiama di nuovo il 112 per avere supporto medico ma la domanda che le fanno è sempre la stessa: “Il signore ha problemi respiratori?”. Così anche la seconda volta dal 112 non riusciamo ad ottenere l’attenzione e la cura per un uomo che sta ormai lottando tra la vita e la morte. Il 3 aprile la temperatura continua ad essere alta, mia madre chiama per l’ennesima volta il medico di base che le prescrive un antibiotico, senza alcuna visita medica sul paziente. In mattinata arriva tramite corriere un saturimetro che i miei parenti DA ROMA hanno comprato e spedito, in quanto estremamente preoccupati e consci del fatto che al di là dei problemi respiratori, con questo virus è assolutamente necessario tenere sotto controllo la saturazione di ossigeno nel sangue. Cosa che invece durante le chiamate con il 112 non è mai stata presa in considerazione o anche banalmente accennata. Mia madre con estrema paura prova ad utilizzare questo apparecchio. Non sapendo bene come interpretare i due numeri che vengono fuori richiama l’operatore del 112, che dopo aver ascoltato i valori rilevati invia un’ambulanza che arriva in 10 minuti e dopo una prima visita decidono di ricoverarlo d’urgenza. Mio padre viene così calato dal balcone con una difficilissima operazione da parte dei Vigili del Fuoco, perché sulle scale del palazzo sono state lasciate le impalcature per la costruzione dell’ascensore e da lì la barella non riesce a passare. Dopo ore riescono a metterlo sull’ambulanza e a portarlo al San Paolo di Milano. Prima di andare via mio padre chiede a mia mamma di mettergli le scarpe in un sacchetto perché lui ci credeva che sarebbe tornato a casa sulle sue gambe. Insieme alle scarpe si porta dietro i vari documenti e il cellulare, che mai utilizzerà per contattarci, evidentemente perché troppo debole. In ospedale gli fanno il tampone a cui risulta positivo. Viene così trasferito al reparto di malattie infettive. Dal 4 al 7 aprile mia madre viene aggiornata dai medici di turno con brevi telefonate. Ci dicono che mio padre è sotto casco di ossigeno, alternato alla maschera. Ci dicono che la febbre rimane alta ma che l’ossigenazione costante tiene la saturazione sotto controllo. Ci dicono che è stabile, che dobbiamo sperare, ma anche prepararci al peggio…la versione varia a seconda del medico che chiama. Al secondo giorno di somministrazione del medicinale sperimentale dicono che non sta reagendo, cosa che mi sembra particolarmente strana da dire dopo solo due giorni di cura. Uno dei polmoni di mio padre è compromesso dall’infezione e l’altro fa fatica a funzionare doppiamente, ma continuano a dire che è stabile, non migliora e non peggiora. L’8 aprile verso le 13.30 mia mamma viene chiamata dall’ospedale e mi aggiunge alla telefonata con la dottoressa di turno che ci comunica che mio padre è deceduto.
In soli 12 giorni di malattia, dopo 3 chiamate al 112, svariate chiamate al medico di base e al call center della Regione Lombardia, dopo appena 5 giorni di ricovero in ospedale, mio padre ci ha lasciati e non è più potuto tornare a casa sulle sue gambe e con le sue scarpe.

La telefonata con la dottoressa è stata molto breve e nella difficoltà di accettare una notizia simile abbiamo chiuso la comunicazione senza pensare di chiedere come muore esattamente una persona sotto ossigeno. L’ospedale non ci ha più chiamati per spiegarci precisamente cosa è successo. Nonostante abbia richiesto la cartella clinica il giorno dopo, ad oggi non sono ancora riuscita ad ottenerla per sapere esattamente la causa del decesso. So solo che mio padre, un uomo di 75 anni con un evidente stato di polmonite avanzata, non è MAI stato messo in terapia intensiva. In questo momento estremamente doloroso per una figlia, assalita dai sensi di colpa sapendo che mio padre è morto da solo e spaventato, trovo la forza di concentrarmi su mia madre, che deve rimanere in quarantena a casa da sola nel momento più doloroso della sua vita. Inizio a chiamare compulsivamente il 112, il 118, il numero verde della Regione e il medico di base per avere risposte e un tampone immediato per mia madre, in quanto malata e sicuramente venuta in contatto con una persona positiva. Ci dicono che dovrebbe avere un canale preferenziale, anche perché operatrice sanitaria, ma il rimbalzo delle responsabilità di chi deve materialmente farle questo tampone sembra una voce registrata che si ripete all’infinito. Il 112 dice che è il medico di base a doverlo richiedere, oppure il direttore sanitario della sua struttura. Il medico di base dice che è responsabilità di ATS o dell’ospedale e che lui non può assolutamente farlo. Il direttore sanitario continua a chiamare ATS ma nessuno risponde al telefono. Gli ospedali fanno il tampone solo ai pazienti ricoverati in situazioni già critiche (ancora oggi mi chiedo quale sia la logica, se il tampone serve proprio per individuare i malati prima che siano all’ultimo stadio). Ultima notizia dalla Regione Lombardia: mancano i reagenti, dobbiamo aspettare! Aspettare…aspettare… Dopo ben 33 giorni dal primo sintomo e 15 dalla morte di mio padre, mia mamma riesce finalmente a farsi fare il primo tampone, a cui risulta positiva, solo ed esclusivamente grazie alla battaglia del suo direttore sanitario per ottenere i tamponi per i suoi pazienti e per i suoi dipendenti. Da quel momento ATS decide di contattarla, sapendo SOLO ALLORA della sua esistenza, così come la Polizia per registrarla nel loro data base. Ormai mia mamma si trascina una lieve febbre da settimane ma non ha altri sintomi, le uniche cose che riescono a dirle al telefono sono di restare a casa e di stare tranquilla…ma come fa una donna malata, che ha appena perso il marito per lo stesso male, e che sta vivendo da sola il suo dolore (perché io non posso materialmente entrare in casa), a stare tranquilla? Come può lo Stato lasciare le persone così da sole, abbandonate a loro stesse? L’unica consolazione di mia madre, oltre alla rete familiare che continua a chiamarla cercando di farle compagnia, è una psicologa volontaria che contatta tutte le persone che hanno subito un lutto, recuperando i numeri direttamente dall’ospedale. Le telefona una volta alla settimana. Ad aggiungersi al dolore del lutto e ai sensi di colpa per non aver mentito al 112 dicendo che mio padre aveva problemi respiratori (cosa siamo costretti a fare!?) intorno a mia mamma nel suo palazzo si crea una rete di indifferenza e di isolamento per paura del contagio. Viene trattata come un’appestata, un essere che deve rimanere rinchiuso senza far pesare il suo dolore, viene addirittura aggredita verbalmente e fisicamente dalle sue stesse vicine di casa perché accusata INGIUSTAMENTE di passare l’aspirapolvere alle 2 di notte e perchè considerata “pazza”. Anche il semplice gesto di buttare la spazzatura (con guanti e mascherina ffp2) suscita polemiche e nonostante non sia contro le direttive di ATS, a mia madre viene impedito di farlo. Sono io ad occuparmene quando vado da lei a portarle la spesa. A questo punto nella mia testa si accumulano un milione di domande e di se… Io resto a casa, ma se è proprio in casa mia il virus? Lavarsi le mani, indossare mascherine, restare a non meno di 1 metro di distanza, gestire i pazienti da casa… Ma come fanno dei semplici cittadini malati e impauriti a gestire la profilassi per la protezione dei parenti sani durante l’isolamento domestico? Come fanno a trovare quel minimo di serenità necessaria a curarsi quando la maggior parte del tempo la si passa cercando di ottenere risposte che non arrivano mai? Se avessero fatto i tamponi ai miei genitori, subito dopo i primi sintomi di mia madre, mio padre sarebbe ancora vivo?? Sarebbero riusciti a curarlo al meglio? Perché la Regione Lombardia ha fatto così pochi tamponi se per contrastare una pandemia è necessario avere i dati reali dei contagiati?? Come si fa a curare la gente in questo modo??

“Non recatevi al pronto soccorso ma chiamate il 112”…per due volte siamo stati ignorati! Se fossero arrivati prima mio padre si sarebbe salvato??? Bisogna arrivare al punto di dover mentire, dicendo di avere problemi respiratori??? Dobbiamo arrivare a comprarci da soli i saturimetri?? Perché omettere un dato tanto rilevante come la saturazione del sangue?? Perché hanno puntato solo sugli ospedali e non sui medici di base? Perchè nessuno è venuto a visitare i miei genitori??? Come si fa a curare al meglio una persona malata di COVID, che ha 75 anni e 39 di febbre per telefono??? Sono consapevole che la mia storia assomiglia purtroppo a tante altre che sono successe in questi mesi. Provo solo tanta rabbia e dolore, perché sono convinta che potevano essere evitate.

Mio padre era un uomo e un artista meraviglioso, mi manca immensamente.

Chiara Giordana

La piattaforma/proposta dello Slai Cobas per il sindacato di classe Sanità – Milano
cobasint@tiscali.it; cobasdiclasse.mi@gmail.com; cell. 338-7211377

NELLA FASE 2
NOI OPERATORI SANITARI CONOSCIAMO BENE QUAL’È LA REALTA IN CUI CI HANNO FANNO LAVORARE E NELLA QUALE CONTINUANO. CI HANNO ESPOSTI AL CONTAGIO E CONTINUANO A FARLO. A MORIRE E FARCI MORIRE!
SANTI ED EROI SUI GIORNALI, CARNE DA MACELLO IN CORSIA!

Medici e infermieri e tutti i lavoratori della sanità non si possono permettere di aspettare risorse che non arrivano; non possono permettersi di continuare a stare zitti e a farsi zittire.
ABBIAMO IL DIRITTO DI CHIEDERE E PRETENDERE QUELLO CHE SERVE PER LA NOSTRA PROTEZIONE, PER QUELLA DEI PAZIENTI E PER NON CONTAGIARE I NOSTRI CARI: QUI E ORA!

QUESTA LA PIATTAFORMA IMMEDIATA DELLO Slai COBAS Sindacato di classe
PER OPPORSI E RESISTERE ADESSO!
lavorando per UNIRE TUTTI I LAVORATORI E COSTRUIRE LA PROSPETTIVA, DI UN MODELLO DI SANITÀ AL SERVIZIO DELLA COLLETTIVITÀ E NON DEL PROFITTO!

MA IN QUESTA FASE 2 ABBIAMO, TUTTI QUANTI, IL DIRITTO-DOVERE DI CHIEDERE CONTO AI FONTANA/GALLERA/SALVINI DELLE STRAGI NELLE RSA E DI QUELLA CHE SI PROSPETTA NELLA SANITÀ PUBBLICA E NELLA SOCIETÀ, visto che dicono “che rifarebbero tutto quello che hanno fatto”, cioé distruggere un bene pubblico e ingrassare i profitti dei padroni della Sanità Privata, mettendo in conto quanti operatori sanitari-lavoratori-pazienti sono “sacrificabili”

* DOTAZIONE DI TUTTI I DPI secondo il TU 81/08 (maschere FFP2 e FFP3; facciali…), per tutti i lavoratori, adeguati al contesto in cui lavoriamo, in numero sufficienti e formazione sull’uso, vestizione e svestizione, di detti ausili, senza accettare il “disco rotto” che non ci sono e non arrivano e che il COVID-19 è entrato ovunque

* SCREENING DIAGNOSTICO, tamponi rinofarigeo, COVID19 A TUTTO IL PERSONALE, non solo per i sintomatici, per iniziare a tracciare e limitare il rischio di essere, per i lavoratori e pazienti ricoverati, veicolo di contagio e contagiarsi. Negati nella sanità pubblica e che invece si possono fare privatamente e a pagamento

* INFORMAZIONE, giornaliera, SUL NUMERO DEI LAVORATORI CONTAGIATI, che le Direzioni non forniscono con la scusa che si lede la privacy, questo è stata la “narrazione tossica” che hanno usato nelle RSA per coprire la strage di anziani e personale

* ASSUNZIONI di personale all’assistenza (medici – infermieri -oss) e dei lavoratori delle pulizie e ristorazione, che sono allo stremo e sott’organico

* SBLOCCO DELLE FERIE E DIRITTO AI RIPOSI perché i lavoratori sono super stressati e rischiano di fare errori a danno loro e dei pazienti

* RAFFORZAMENTO DELLE SANIFICAZIONI, ordinaria e covid19, con la dotazione a tutti i lavoratori dei DPI, che non son le mascherine chirugiche, di protezione monouso e attivazione della lavanderia interna, visto che i lavoratori sono costretti a portarsi le divise da lavare a casa e questo significa incentivazione alla diffusione di possibili contagi

* RICONOSCIMENTO COME INFORTUNIO SUL LAVORO DA CONTAGIO COVID19 cosa prevista dalla normativa vigente, mentre si mandano i lavoratori a casa con temperetura o che sono venuti a contatto sia con pazienti che colleghi positivi, facendo risultare “malattia generica”. Ed il tampone viene effettuato ma soltanto con l’obiettivo di farli rientrare al lavoro

* STABILIZZAZIONE DI TUTTO IL PERSONALE di ogni ruolo che in questo momento è anch’esso in prima linea e che non sa quale futuro l’attende, si veda la protesta dei medici specializzandi

* LE MASCHERINE CHIRURGICHE NON SON UN DISPOSITIVO DI PROTEZIONE ospedaliero dove il contatto coi pazienti è fisiologico e non si possono mantenere le distanze, per cui i lavoratori hanno tutto il diritto di rifiutarsi di lavorare senza le protezioni necessarie nell’emergenza covid19. Visto che sono state distribuite, e continuano a distribuirle, mascherine taroccate e sotto inchiesta, come quelle della Fippi e della Pivetti

* POTENZIAMENTO DELLA RETE TERRITORIALE riaprendo i presidi tagliati, per ridurre la pressione sugli ospedali, per contrastare il diffondersi dei contagi e poter rispondere alle altre patologie non covid. Rafforzando la medicina di base vero-basico-storico baluardo della conoscenza medica e delle soluzioni curative

* NO ALLO SPOSTAMENTO DEGLI OPERATORI DA UN REPARTO ALL’ALTRO perché questo rappresenta un’ulteriore veicolo di possibili contagi, che vanno contrastati e denunciati in quanto illegittimi. I cui autori vanno denunciati agli organi competenti

* ISOLAMENTO O QUARANTENA DEGLI OPERATORI SANITARI fuori dagli ambienti domestici a salvaguardia della salute dei conviventi, reperiti e a carico della Regione

13/05/20

La lotta delle lavoratrici di Dhaka - Bangladesh - dovunque i padroni sono una razza schifosa: il virus...

Perché protestano le lavoratrici di Dhaka: il virus... colpisce la filiera globale degli abiti

di Marina Forti, da La Bottega del Barbieri

A Gazipur, nella periferia industriale di Dhaka in Bangladesh, le lavoratrici di due fabbriche di abbigliamento protestano da due giorni consecutivi contro la decisione di pagargli solo il 60 per cento del salario di aprile. Altre operaie protestano perché i salari comunque non sono arrivati, e neppure quelli di marzo.
Da almeno un mese la periferia industriale di Dhaka è percorsa da proteste, sit-in improvvisati davanti a fabbriche dai cancelli chiusi. Migliaia di lavoratori e soprattutto lavoratrici: mascherine sul viso, cartelli scritti a mano. Molte hanno arretrati di diversi mesi. Altre si sono viste comunicare il licenziamento con un messaggio sul telefonino. Sono operaie
dell’abbigliamento, industria che fa l’83 per cento dell’export del loro paese, un fatturato di circa 40 miliardi di dollari nel 2019: ma ora non ricevono i salari.

Ecco un risvolto forse poco evidente della pandemia di coronavirus. Quando in Europa o negli Usa i negozi di abbigliamento hanno chiuso, per rispettare il “distanziamento sociale”, milioni di lavoratori sono rimasti senza salario in paesi lontani e a basso reddito: come il Bangladesh, secondo esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Però, mentre i paesi occidentali si preparano a spendere centinaia di miliardi per sostenere le imprese e i lavoratori di casa propria, non ci sono “ammortizzatori sociali” per chi ha perso il reddito in questa industria globalizzata.
“Non abbiamo i soldi e neppure diritto a un sussidio. Cosa mangeremo?”, diceva una giovane donna, Alyea, al microfono di un cronista. “Mio marito guidava un motorisciò, ma da quando c’è il lockdown non guadagna più nulla. Ora la fabbrica ha chiuso, come sfameremo i nostri figli”, si chiedeva Sheuli, una sua collega. Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh ha constatato che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito.
A collegare i negozi chiusi in Europa alle lavoratrici senza salario in Bangladesh è la global supply chain, il meccanismo della “filiera globale”. I proprietari dei marchi di abbigliamento non producono nulla: fanno cucire i propri modelli a fabbricanti sparsi dal sub-continente indiano all’Indonesia. Una decina di paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale producono oltre il 60 per cento degli abiti venduti in Europa, Giappone e Stati uniti (il resto è prodotto nell’est europeo, Turchia, Nord Africa, o in Centro America per il mercato americano). Il Workers Rights Consortium, organizzazione internazionale per il monitoraggio dei diritti del lavoro, stima che questa industria occupi almeno 50 milioni di persone in tutto il mondo.

Sit-in di operaie dell’abbigliamento a Dhaka
Si tratta di una relazione commerciale, in cui il marchio occidentale è il “compratore”, e chi produce gli abiti è il “fornitore”. Nel mezzo ci sono numerosi passaggi, spesso poco trasparenti. Il proprietario del marchio piazza la sua ordinazione per lo più attraverso intermediari; tra i fornitori si aggiudica la commessa chi offre il prezzo più basso. Se i tempi incalzano, il fornitore principale subappalta parte del lavoro a produttori più piccoli. Questo sistema garantisce ai marchi dell’abbigliamento flessibilità, costi bassi, e anche la possibilità di ignorare in che condizioni sono cuciti quegli abiti – come risultò evidente in modo drammatico sette anni fa, quando a Dhaka crollò un edificio industriale uccidendo 1.500 persone.
La crisi provocata dal Covid 19 però ha ingrippato la filiera. “Le marche internazionali che importano dal Bangladesh hanno cancellato le ordinazioni. E gli imprenditori locali dicono che poiché non sono stati pagati, non possono pagare i lavoratori”, osserva Kalpona Akter, la più nota leader sindacale del paese (operaia dell’abbigliamento da quando aveva 15 anni, oggi dirige il  Bangladesh Center for Workers Solidarity).
In altre parole: crollate le vendite di abbigliamento, le aziende occidentali hanno cercato di contenere il danno scaricandolo sui “fornitori”, i quali spesso non hanno margini. In Bangladesh l’Associazione nazionale dei produttori e esportatori di abbigliamento (Bgmea, che conta circa 4.000 imprese associate con oltre 4 milioni di dipendenti) afferma che da marzo a tutto aprile ordinazioni per 3,5 miliardi di dollari sono state cancellate causa il coronavirus. Lo stesso un po’ ovunque: la Federazione internazionale delle manifatture tessili (Itmf) a fine aprile stimava che le ordinazioni globali sono diminuite del 41 per cento.
Molti compratori hanno rifiutato di prendere (e pagare) ordinazioni già fatte, perfino già pronte alla consegna, invocando clausole di force majeure. I contratti di solito non contemplano l’emergenza sanitaria come “forza maggiore”, ma “pochi produttori possono permettersi di fare causa a clienti da cui sperano di ricevere ordinazioni in futuro”, osserva il Workers Rights Consortium (Who will bail out the workers that make our clothes?, marzo 2020 ). Dove le ordinazioni non sono cancellate, le grandi marche chiedono di rinegoziare: “In India, Bangladesh e Sri Lanka abbiamo notizia che chiedono ai fornitori sconti fino al 30 per cento”, osserva la Asia Floor Wage Alliance (Afwa), rete di organizzazioni sociali e di lavoratori fondata nel 2007 per unire le forze nei paesi produttori in una comune battaglia per salari decenti e per la libertà di associazione sindacale.
Le vittime “collaterali” sono i lavoratori. La rete Afwa segnala frequenti casi di salari non pagati, o pagati con grande ritardo; a volte invece del salario vengono offerti prestiti da restituire quando riapriranno le fabbriche, con o senza interessi. Alcuni paesi (India, Bangladesh, Sri Lanka, Cambogia) hanno annunciato aiuti per le imprese dell’abbigliamento, ma le garanzie per i lavoratori, quando ci sono, “sono solo per i dipendenti a tempo pieno, non per le lavoratrici con contratti temporanei”. In molti casi i lavoratori devono accettare sospensioni dal lavoro non pagate. Molti perdono il lavoro. In Sri Lanka il 30 per cento delle operaie dell’abbigliamento è stato licenziato; anche in Indonesia e Cambogia si segnalano licenziamenti massicci, segnala la Asia Floor Wage Alliance (“The emperor has no clothes: garment supply chain in the time of pandemic”, aprile 2020). Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh dice che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito.
Le marche dell’abbigliamento, le catene di distribuzione e i governi devono contribuire a “mitigare gli effetti della crisi provocata dal Covid 19 per i lavoratori della filiera globale”, sostiene la Clean Clothes Campaign (Campagna abiti puliti, rete internazionale di pressione per imporre alle marche dell’abbigliamento meccanismi di tutela dei lavoratori): in un appello diffuso in aprile chiede alle marche occidentali di onorare i contratti, assicurarsi che i propri fornitori paghino i salari, contribuire ai fondi di welfare, garantire che nelle fabbriche attive siano osservate misure sanitarie adeguate. In un blog, la Campagna raccoglie aggiornamenti quotidiani dai paesi produttori.
“Quando il movimento sindacale ha cominciato a citare per nome le marche che non hanno pagato le ordinazioni fatte, alcune si sono impegnate a onorare i contratti”, faceva notare Kalpona Akter. Il Workers Rights Consortium infatti ha avviato un osservatorio sulle maggiori marche di abbigliamento: risulta che nomi di peso come Adidas, H&M o Inditex (proprietario di Zara) si sono impegnate a pagare per intero ma molti altri, da Walmart a Arcadia (proprietario di molte marche note), non rispondono.
Il 29 aprile in Bangladesh alcune centinaia di fabbriche hanno riaperto, nonostante molti timori per la sicurezza. Ma centinaia di migliaia stanno ancora aspettando il salario.

Lavoratrici si lavano le mani prima di entrare in fabbrica. Dhaka, maggio 2020