30/04/20

PER LE DONNE NESSUNA FASE 2 - ANCORA E SEMPRE CHIUSE IN CASA...

Certo, non ci aspettavamo qualche improvviso provvedimento di "rallentamento" (come si dice) della condizione di casa/carcere delle donne, ma ora l'ideologia familista con questo decreto si fa più esplicita.


Le donne possono uscire solo per accompagnare i bambini o per passare dalla propria famiglia ad un'altra famiglia. Non puoi scegliere neanche chi andare a trovare, indipendentemente dei rapporti buoni o cattivi con la famiglia, è solo da genitori, o da un parente prossimo che si potrà andare, vale a dire, passare dal marito al padre... che non è proprio il massimo di libertà per le donne.

L'intermezzo per alcune è solo lo smart working, in cui le donne contemporaneamente mentre lavorano, senza neanche il limite di orario del posto di lavoro, si devono occupare dei bambini, li devono seguire nella didattica a distanza, devono fare le pulizie, devono cucinare... - come è scritto nell'articolo sulla condizione delle donne dello speciale coronavirus del giornale proletari comunisti: "Padroni e governo hanno realizzato la perfetta “conciliazione di lavoro e famiglia”, non separandoli, ma intrecciandoli minuto per minuto, rendendo così palese il doppio sfruttamento e oppressione".


Per chi deve riprendere dal 4 maggio a lavorare fuori, la "libertà" di movimento diventa casa-lavoro-casa. Se si voleva sintetizzare in una parola il doppio lavoro/sfruttamento delle donne, questo governo l'ha trovata...


Ancora una volta si da per scontato che per le donne “restiamoacasa” è normale. Il governo approfitta anche di questa situazione, per tenerci più incatenate al ruolo che questa società vuole per noi, principalmente: moglie, madre, “supplenti dello stato”.


E appare quasi scontato anche che con l'apertura delle fabbriche, cantieri, in generale settori produttivi, se si deve scegliere chi resta in casa per i bambini, usufruendo di permessi (per figli, 104, ecc...) al 90% saranno le donne che non andranno a lavorare.


Nonostante anche in questi giorni è dimostrato che lo stare in casa per le donne può significa anche morte, nulla di nulla viene deciso per rendere meno penosa e/o tragica questa gabbia.

Anzi... I numeri che si abbassano dei ricoveri, che non corrispondono certo a un calo delle morti o dei contagi, non vuole affatto dire che sono diminuite le persone che vengono curate in casa. E chi se non le donne se ne occupa?


Tutto questo non può essere accettato.

USCIAMO DALLA GABBIA ORGANIZZIAMO LA NOSTRA RABBIA!


MFPR

27/04/20

Solidarietà alle compagne e ai compagni repressi il 25 aprile a Milano

In tante/i da Nord a sud, nella città Medaglia d’oro alla Resistenza, non ci siamo fatti rinchiudere in casa, ma nel rispetto delle necessarie precauzioni sanitarie per la pandemia in corso, ci siamo recate/i a portare il nostro omaggio ai martiri della Resistenza partigiana nel 75° della Liberazione.
Come compagne che da sempre abbiamo nel cuore l’esempio delle partigiane che hanno dato un contributo grandioso alla Resistenza partigiana, esprimiamo la massima solidarietà alle compagne e ai compagni oggetto della repressione poliziesca a Milano, repressione che nulla ha a che fare con "la prevenzione", ma molto con il tacitare la giusta ribellione ad un sistema che ci vuole oppresse/i .
Ieri contro guerra e fascismo
Oggi contro i responsabili di pandemia e stato d'emergenza!
Siamo tutte partigiane!
Giù le mani dalle antifasciste/i

Le compagne del movimento femminista proletario rivoluzionario - Milano

Bergamo, un'altra donna uccisa tra le mura delle pareti domestiche. Lei era una compagna anarchica e il suo assassino, il marito, un criminale nazista

Non l'ha uccisa il covid, Viviana Caglioni, ma le botte di suo marito e l'omertà  della madre di lei. Mentre la picchiava le urlava "Io sono un nazista e i nazisti odiano gli anarchici".
Motivo in più per dire MORTE ALLA SACRA FAMIGLIA! MORTE AGLI UOMINI CHE ODIANO LE DONNE! MORTE AI NAZISTI/ FASCISTI/RAZZISTI!

MFPR


Bergamo, uccide a calci e pugni la compagna. "Ho sentito le urla e il rumore delle botte"


La morte di Viviana Caglioni: il fidanzato arrestato grazie alla testimonianza di uno zio che ha saputo superare il timore di ritorsioni

Una storia di maltrattamenti proseguiti nel tempo che la vittima, Viviana Caglioni, 34 anni, pare non avesse mai denunciato.

A uccidere Viviana, o Vivianne come si faceva chiamare, per gli inquirenti è stato il compagno Cristian Michele Locatelli, 42 anni, in carcere con l’accusa di omicidio aggravato da futili e abietti motivi. I due stavano stabilmente assieme da circa sette mesi. Vivevano al primo piano della casa di via Maironi da Ponte, al quartiere Valvedere con la madre di lei, Silvana Roncoli, indagata con l’accusa di favoreggiamento (avrebbe coperto l’assassino). Al piano terra lo zio, Giampietro Roncoli. Un menage familiare che nascondeva insidie. Come ha raccontato durante tre interrogatori lo zio. Ha ammesso di aver paura di Locatelli, che in passato lo aveva più volte minacciato e picchiato. Da lui è arrivato, infine, il contributo che ha messo gli investigatori sulla strada giusta. Sconcerta, invece, l’atteggiamento della madre di Viviana che ancora ieri sosteneva che la figlia fosse morta per "un incidente".

Gli uomini della Squadra mobile, coordinati dal pm Paolo Mandurino, hanno recuperato la telefonata al 118 della notte tra il 30 e il 31 marzo, all’1.08, quando avviene la brutale aggressione che poi provocherà il decesso di Viviana dopo una settimana di coma. Nella telefonata Silvana in un primo momento dice "che una bambina si è buttata nell’acqua". Successivamente dice che è la figlia a stare male, dopo aver battuto la testa "nello spigolo del muro". Locatelli le strappa il telefono e all’operatore riferisce che la donna "respira ancora, non sta morendo. Le serve la classica ambulanza". Nessun cenno a botte. Ma la relazione del personale intervenuto aveva già attestato le violenze.

Dopo il decesso l’autopsia ha confermato il pestaggio, rilevando traumi da calci all’addome e all’inguine. Alla base del massacro ci sarebbe stata la gelosia di Locatelli, per via di una vecchia frequentazione di Viviana, risalente a sette anni prima e ormai archiviata. Decisiva, dopo che il presunto killer il 9 aprile aveva telefonato al 112 dicendo di "aver ucciso una persona", senza fare nomi e finendo denunciato con l’accusa di procurato allarme, è stata la testimonianza dello zio della vittima. Giampietro Roncoli, alla fine, si apre. E racconta quella che per gli inquirenti è la verità. Dice che quella sera Locatelli aveva iniziato a picchiare la nipote al piano di sopra. Le aveva urlato "Io sono un nazista e i nazisti odiano gli anarchici", tornando sulla gelosia nei confronti di un ex fidanzato di Viviana che frequentava certi ambienti politici. Roncoli ha ricordato il rumore forte, l’ultimo colpo alla nuca, la caduta a terra della nipote. E la sua paura a chiamare il 118.


25/04/20

Oltre 55mila donne combatterono nella Resistenza.

Ne L’Agnese va a morire di Renata Viganò, l’unico romanzo della Resistenza scritto da una donna, l’Agnese del titolo diventa partigiana quasi senza rendersene conto. Dopo la firma dell’Armistizio l’8 settembre 1943, i tedeschi irrompono in casa della lavandaia Agnese per catturare il marito Palita, un militante comunista quasi del tutto infermo. Un giorno dei compagni la vanno a trovare per chiederle di trasportare la “roba da scoppiare” nei cesti del bucato: l’Agnese diventa una staffetta, trasporta le armi e fa le calze per i partigiani. Ma non si limita a questo. Una sera, presa da un impeto di rabbia contro il soldato che uccide la sua gatta per divertimento, fa “quella cosa”: mentre dorme, ruba il suo mitra e glielo scaglia in testa, uccidendolo. Da quel momento, l’Agnese entra a far parte a tutti gli effetti di una brigata, dandosi alla macchia e partecipando alle azioni.


Quella de L’Agnese va a morire e della sua autrice Renata Viganò, che prese parte alla Liberazione come staffetta e infermiera, è la storia di tantissime donne non politicizzate che, toccate in prima persona dagli eventi che seguirono l’Armistizio, decisero di compiere questa scelta estremamente difficile e radicale. Tuttavia, il sacrificio di queste donne è rimasto per lungo tempo ai margini della corposa storiografia dedicata alla Resistenza, che spesso si è concentrata solo sull’eroica e archetipica figura del partigiano giovane e maschio. Viganò ci racconta invece di una donna matura, goffa, molto pragmatica, lontana da ogni romanticismo ideologico, e lo fa nel 1949, pochissimi anni dopo la Liberazione. Eppure, nonostante la nostra memoria letteraria disponga di questo incredibile personaggio che va oltre ogni aspettativa, se parliamo di Resistenza pensiamo subito al partigiano Johnny o a Pin de Il sentiero dei nidi di ragno, e non a un’Agnese.


Le partigiane erano e sono considerate come delle aiutanti degli uomini, principalmente perché il loro lavoro nella Resistenza, come racconta bene il romanzo, fu soprattutto quello che la teoria femminista chiama lavoro riproduttivo e di cura: cucinare, lavare, curare le ferite, dispensare affetto e compagnia, organizzare la parte “burocratica” delle missioni. Questo contributo è considerato minore rispetto a quello di chi invece imbracciava il fucile. Tuttavia, si tratta di un duplice pregiudizio: da un lato, si ignora completamente che molte di queste donne a un certo punto presero effettivamente parte ad attentati e agguati; dall’altro si considera il lavoro riproduttivo come qualcosa di accessorio e non di essenziale come invece è avere vestiti puliti e rammendati, mangiare bene, dormire, trasportare di nascosto armi e munizioni e riceve cure mediche in una situazione di clandestinità. Le donne erano l’unico ponte tra la macchia e la vita civile, anche grazie al ruolo che ricoprivano nella società di allora: insospettabili, considerate incapaci di commettere violenza e deputate alla cura della casa. Questo significava poter eludere facilmente i controlli e disporre della tessera annonaria, una fonte di cibo imprescindibile in tempo di guerra.

Renata Viganò
Come scrive Pino Casamassima in Bandite! Brigantesse e partigiane – Il ruolo delle donne col fucile in spalla, “Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla ‘naturale’ divisione degli spazi”. C’era quindi anche un problema interno alla Resistenza e connesso al maschilismo della società italiana di allora, non estraneo ai partiti di sinistra. Comunisti e socialisti non volevano estendere il suffragio alle donne per paura che, per natura, avrebbero votato quello che diceva loro il prete: non ci deve quindi stupire se, nella maggior parte dei casi, vennero escluse da qualsiasi processo decisionale all’interno delle brigate e degli organismi di autogoverno.

 
Le donne diventarono così le maggiori esponenti di quella che lo storico francese Jacques Sémelin ha chiamato “Resistenza civile”, cioè tutte quelle pratiche di lotta messe in atto dai civili che non prevedevano l’uso della violenza, ma del coraggio, dell’astuzia e della capacità di influenzare gli altri. Una “guerra senz’armi”, come l’hanno chiamata Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone in un saggio sulla storia della Resistenza femminile in Piemonte. Questo non fu il destino di tutte le partigiane, ovviamente. L’Anpi riconosce 35mila “partigiane combattenti” (a fronte di 150mila uomini), che hanno ottenuto il ruolo di tenenti, sottotenenti o al massimo maggiori, e 20mila “patriote”, con compiti di supporto, assistenza e organizzazione. Le donne decorate con la Medaglia d’oro al valor militare sono 19, di cui 15 alla memoria e 4 in vita; gli uomini con questa onorificenza sono 572. Ma secondo la storica Simona Lunadei, questo si spiegherebbe anche col fatto che molte donne si rifiutarono di chiedere un riconoscimento a guerra terminata: molte, come il personaggio di Renata Viganò, sentivano solo di aver fatto quello che andava fatto.

Oltre a quelle che si trovarono a combattere per caso”, per senso del dovere o per seguire mariti, fidanzati e talvolta figli, ci furono anche donne già impegnate in politica o nelle associazioni comuniste e cattoliche che pretesero un ruolo più attivo all’interno dei nuclei partigiani. Da queste esperienze nacquero i Gruppi di difesa della donna (Gdd), un’associazione comunista e femminista fondata da Lina Fibbi, Pina Palumbo e Ada Gobetti, che partecipò a molte azioni di sabotaggio e lotta armata, e l’Unione donne italiane di sinistra (Udi). Anche molte donne cattoliche parteciparono alla Resistenza, mettendo a frutto le esperienze maturate nella Gioventù femminile di Azione Cattolica (come ad esempio la futura ministra della Sanità Tina Anselmi). Se questi gruppi nacquero con l’esplicito obiettivo di aiutare gli uomini impegnati nella Liberazione, già dal 1944 si organizzarono in maniera più autonoma e, oltre a partecipare attivamente alle azioni, fornirono supporto alle vedove, alle contadine o alle madri lavoratrici. Nel 1944 l’Udi fondò anche il proprio giornale clandestino, Noi donne, in cui si discuteva di politica e del ruolo della donna, si commemoravano le cadute e si riportavano le notizie sulle lotte femminili. I Gdd organizzarono anche numerosi scioperi e manifestazioni, su esempio della “rivolta del pane” del 16 ottobre 1941, quando un gruppo di donne parmensi assaltò un furgone della Barilla per ridistribuire il pane alla popolazione.


Di alcune figure straordinarie si ricordano ancora gli atti coraggiosi: Mimma Bandiera, la partigiana bolognese che, una volta catturata, resistette per sette giorni alle torture senza mai tradire i propri compagni. O Carla Capponi, dei Gruppi di azione patriottica (Gap) romani, che prese parte all’attentato di via Rasella. Quest’ultima ci ha lasciato un’autobiografia molto importante per capire il ruolo delle donne nella Resistenza, Con cuore di donna. Capponi racconta la difficoltà nello stabilire un rapporto paritario con i compagni del Gap, la loro riluttanza a consegnarle un’arma (che infatti dovrà rubare a un soldato fascista su un autobus affollato), ma anche il vantaggio di essere una bella ragazza in grado di distrarre fascisti e tedeschi, unito alla costante minaccia della violenza sessuale.

Mimma Bandiera
Che fossero staffette o dinamitarde, lavandaie o tiratrici scelte, senza le donne non si sarebbe compiuta la Liberazione. “Non consideratemi diversamente da un soldato che va su un campo di battaglia”, dice una delle tante testimonianze che compongono La donna nella Resistenza, documentario del 1965 di Liliana Cavani. Il loro contributo, al pari delle altre “Resistenze dimenticate”, come quella degli Internati militari italiani o quella creola e jugoslava, non può e non deve essere archiviato come qualcosa di marginale. In un momento in cui la memoria della Liberazione è sempre più osteggiata, in cui il 25 aprile viene considerata una festa “divisiva”, non possiamo permetterci il lusso di una memoria parziale.

Da Jennifer su The Vision

Anche in tempo di Coronavirus armiamoci con la lettura sulla Resistenza e la determinante partecipazione delle donne in essa

Richiedi l'opuscolo a cura delle compagne Mfpr

SIAMO TUTTE PARTIGIANE! PER UNA NUOVA DOPPIA RESISTENZA!


25 Aprile...la storia della brigata composta da sole donne



25 aprile, la storia dell’unica brigata composta da sole donne: “Coscienza di genere e prime lotte per parità salariale”

La più anziana aveva settant’anni e usava il nome di battaglia “Nonnina”. La più giovane ne aveva quindici ed entrambi i suoi genitori erano stati deportati. Sui monti liguri, negli anni dell’occupazione nazifascista, ha combattuto l’unica brigata partigiana composta da sole donne, anche nei gradi di comando. Nell’autunno 1944 prese il nome di “brigata Alice Noli”, in omaggio a una giovane staffetta di Campomorone, nell’entroterra di Genova, seviziata e uccisa dalle milizie nere per aver dato sepoltura ad alcuni tra i 147 partigiani morti nell’eccidio della Benedicta, nell’aprile dello stesso anno.
Alice era una ragazza piena di passioni: amava il canto e la pittura, “e spesso scendeva da Campomorone fino al centro di Genova per ottenere un autografo dai suoi artisti preferiti”, racconta Massimo Bisca, presidente provinciale dell’Anpi. A 16 anni aveva cominciato a lavorare alla Brambilla, una ditta di pelletteria nel quartiere genovese di Pontedecimo. Fece assidua propaganda partigiana, procurò aiuti e rifornimenti e collaborò con i Gruppi di difesa della donna, la più importante organizzazione femminile di sostegno alla Resistenza. Nel gennaio del 1944 era entrata a far parte della 3° brigata “Liguria”. Scoperta e catturata insieme ad altri sei compagni, venne portata in caserma: poiché si rifiutava di fornire informazioni, fu caricata su un camion e infine fucilata.
Nei mesi successivi, la brigata femminile che già operava sui monti di Genova – svolgendo una funzione di raccordo tra gli stabilimenti industriali della Val Polcevera e i nuclei partigiani – adotta il nome di Alice. Con l’inizio della guerra le donne avevano sostituito gli uomini in molti luoghi di lavoro, sviluppando coscienza di genere e iniziando le prime lotte per la parità salariale. L’8 marzo ’45 le donne della ‘Alice Noli’ distribuirono clandestinamente a Genova 20mila volantini e realizzarono oltre 500 scritte sul selciato, per testimoniare il proprio ruolo nella Resistenza.
Dopo la Liberazione, nel grande corteo del 1° maggio in cui sfilarono tutte le formazioni partigiane, qualcuno non vedeva di buon occhio la presenza della brigata femminile. Un dirigente delle Sap – Squadre d’azione patriottica – disse a una partigiana di stare attente a sfilare in pantaloni, perché avrebbero rischiato di sembrare delle poco di buono. “Lei gli rispose in malo modo – racconta Massimo Bisca – e assicurò che avrebbero cucito delle gonne per il corteo, ma lo mise in guardia dal toccare le armi dei fascisti che loro stesse avevano conquistato in battaglia”.

22/04/20

150° nascita di Lenin: la centralità del ruolo delle donne nel processo rivoluzionario e nella costruzione di una nuova società socialista

"Il risultato principale, fondamentale conseguito dal bolscevismo e dalla Rivoluzione d'ottobre è di aver trascinato nella politica proprio coloro che erano più oppressi sotto il capitalismo. Erano strati che i capitalisti schiacciavano, ingannavano, derubavano sia in regime monarchico sia nelle repubbliche democratiche borghesi. Questo giogo, questo inganno, questa rapina del lavoro del popolo da parte dei capitalisti era inevitabile finché esisteva la proprietà privata della terra, delle fabbriche, delle officine.

La sostanza del bolscevismo, del potere sovietico, è che essi smascherano la menzogna e l'ipocrisia della democrazia borghese, aboliscono la proprietà privata della terra, delle fabbriche, delle officine e concentrano tutto il potere dello Stato nelle mani delle masse lavoratrici e sfruttate. Queste masse prendono nelle loro mani la politica, cioè l'edificazione di una nuova società. È un compito difficile: le masse sono state abbrutite, soffocate dal capitalismo, ma non esiste e non può esistere altra via per uscire dalla schiavitù salariata, dalla schiavitù capitalistica.

Non è possibile però far partecipare le masse alla politica se non vi si
attirano le donne. In regime capitalistico, infatti, la metà del genere umano, formata dalle donne, subisce una duplice oppressione. L'operaia e la contadina sono oppresse dal capitale e, per di più, - persino nelle repubbliche borghesi più democratiche, permane, in primo luogo, l'ineguaglianza giuridica, cioè la legge non concede alle donne l'eguaglianza con gli uomini; in secondo luogo, - e questa è la questione capitale, - esse subiscono la "schiavitù domestica", sono "schiave della casa", soffocate dal lavoro più meschino, più umiliante, più duro, più degradante, il lavoro della cucina e della casa che le relega nell'ambito ristretto della casa e della famiglia.

La rivoluzione bolscevica, sovietica distrugge le radici dell'oppressione e dell'ineguaglianza delle donne assai più profondamente di quanto, fino ad oggi, abbiano osato nessun partito e nessuna rivoluzione. Da noi, nella Russia sovietica, non è rimasta nessuna traccia dell'ineguaglianza giuridica tra uomini e donne. Il potere sovietico ha abolito del tutto l'ineguaglianza particolarmente ignobile, abietta e ipocrita che improntava il diritto matrimoniale e familiare, la ineguaglianza nei riguardi dei figli.
Tutto ciò è appena il primo passo verso l'emancipazione della donna. Eppure questo primo passo non ha osato farlo nessuna delle repubbliche borghesi, sia pure la più democratica. Non ha osato, arrestandosi pavida di fronte alla "sacra proprietà privata".

Alle operaie

Nel 150° della nascita di Lenin, pubblichiamo un suo articolo, uscito il 1920:

«Compagne, le elezioni al Soviet di Mosca dimostrano che il partito comunista si afferma sempre di più in seno alla classe operaia.
Le operaie devono partecipare in maggior numero alle elezioni. Primo e unico al mondo, il potere dei Soviet ha abolito completamente tutte le vecchie leggi borghesi, le leggi vergognose che ponevano la donna in uno stato d'inferiorità rispetto all'uomo, che all'uomo, tanto per citare un esempio, riconoscevano una posizione di privilegio nella sfera del diritto matrimoniale o dei rapporti con i figli. Primo e unico al mondo, il potere dei Soviet, in quanto potere dei lavoratori, ha abolito tutti quei vantaggi che, originati dalla proprietà, tuttora vengono attribuiti all'uomo dal diritto familiare anche nelle repubbliche borghesi più democratiche.
Dove esistono grandi proprietari fondiari, capitalisti e commercianti, non può esistere l'uguaglianza tra uomo e donna, nemmeno di fronte alla legge. Dove non esistono grandi proprietari fondiari, capitalisti e commercianti, dove il potere dei lavoratori edifica una nuova vita senza questi sfruttatori, esiste l'eguaglianza di fronte alla legge tra uomo e donna.
Ma non basta. L'eguaglianza di fronte alla legge non è ancora l'eguaglianza nella vita. Ci occorre che l'operaia conquisti l'eguaglianza con l'operaio non soltanto di fronte alla legge, ma anche nella vita.
Per questo le operaie debbono partecipare in misura sempre maggiore alla gestione delle imprese pubbliche e all'Amministrazione dello Stato. Le donne faranno presto il loro tirocinio nell'amministrazione e saranno all'altezza degli uomini. Eleggete dunque al Soviet un maggior numero di operaie, sia comuniste sia senza partito. Purché un'operaia sia onesta, coscienziosa nel suo lavoro, che importa se non appartiene al partito? Eleggetela al Soviet di Mosca!
Più operaie al Soviet di Mosca! Dimostri il proletariato moscovita che è disposto a tutto e fa di tutto per lottare fino alla vittoria contro la vecchia ineguaglianza, contro il vecchio, borghese, avvilimento della donna.
Il proletariato non raggiungerà una completa emancipazione se non sarà prima conquistata una completa libertà per le donne».

20/04/20

La casa e la famiglia luoghi di femmicidi e violenza verso le donne - Non possiamo stare chiuse in casa! MFPR

Milano Cassano d’Adda, uccide la moglie sparandole alla testa. Coppia in isolamento per Covid, lui: «Mi voleva lasciare»
 Da circa due settimane i due vivevano a casa di lei, nel comune dell’hinterland milanese. Lei voleva interrompere la relazione, ma aveva deciso comunque di ospitarlo a casa sua. Per la donna, di 47 anni, non c’è stato nulla da fare.

Le ha sparato in testa mentre dormiva, il 47enne che si è poi costituito ai carabinieri per l’omicidio della sua compagna, intorno alle 2 di notte ad Albignano, un paesino alle porte Truccazzano, nel Milanese. Da circa due settimane i due vivevano a casa di lei, nel comune dell’hinterland milanese. Lei voleva interrompere la relazione, ma aveva deciso comunque di ospitarlo a casa sua (lui era di base a Bressanone, in provincia di Bolzano) per via dell’isolamento imposto dell’emergenza coronavirus. La vittima si chiamava Alessandra Cità e aveva 47 anni. Il suo compagno, invece, è Antonio Vena, coetaneo di origini siciliane e un impiego in una ditta di serramenti nella provincia in Alto Adige. Nella notte tra sabato e domenica, l’uomo si è presentato alla Caserma dei Carabinieri di Cassano d’Adda per confessare quanto aveva fatto «per gelosia».

Maltrattamenti in casa: con la quarantena aumentano gli Sos al centro anti-violenze

I casi di violenza domestica a Biella non sono cresciuti quanto riportano le drammatiche percentuali nazionali, in cui si fa riferimento a un aumento vicino al 75%, ma anche in provincia sono riprese le chiamate al centro antiviolenza, in particolare da quando l'orario è stato ampliato. Ora gli operatori sono attivi dal lunedì al sabato, compreso, dalle 9 alle 17. «In più abbiamo attivato un numero di cellulare (il 3280468929) – spiega l'avvocato Ilaria Sala dell'associazione “Non sei Sola” -, un messaggio è più veloce da mandare e altrettanto efficace. Grazie a queste due aggiunte siamo tornati al livello delle segnalazioni del periodo precedente l'emergenza. Soltanto questa settimana abbiamo seguito tre casi, oltre al contatto di una collega di Milano che si stava occupando di una donna residente nel Biellese. Può trattarsi anche soltanto di una richiesta di informazioni, una signora l'abbiamo indirizzata al pronto soccorso. E' comunque importante che trovino qualcuno con cui parlare». A rallentare l'attività del centro era stata all'inizio l'impossibilità di frequentare fisicamente lo sportello di via Caraccio. «Le donne devono però sapere che possono uscire di casa e andare a denunciare i maltrattamenti. Per questo è importante che sia attivo un contatto da cui possano ricevere informazioni».
Nell'ultimo mese non sono poi mancati i casi di maltrattamento o stalking approdati in tribunale, dove sono stati firmati una decina di ordini di allontanamento. Si va dal vicino di casa molesto anche se sposato alle violenze nei confronti della compagna, che proprio a causa dell'isolamento sociale richiesto dalla pandemia trova ancora più difficile sfuggire al proprio persecutore. Non si tratta di numeri fuori dall'ordinario, ma che comunque richiedono attenzione. Anche in questo periodo valgono le norme relative al Codice Rosso, che prevedono l'avvio delle indagini entro le 48 ore e poi, dopo l'eventuale riscontro, l'allontanamento immediato del coniuge e compagno violento.    

19/04/20

NO! Anche in tempo di Coronavirus, nella fornace Bergamo, la morte di Yaye, giovane operaia senegalese incinta, non è "normale"!


Yaye Mai Diouf: giovedì 16 aprile avrebbe compiuto 32 anni.

Pontida piange Yaye: era incinta

Mamma senegalese di un bimbo di due anni, operaia alla Brembo. È la vittima più giovane dell’epidemia. Una settimana di tosse e febbre, poi la situazione è precipitata. Deceduta al Pronto soccorso.
«Abbiamo perso nostra figlia Yaye, un grande dolore per tutti noi». Poche parole dette da una madre affranta, che in questi giorni si trova nella casa della figlia Yaye Mai che con il marito Douda Timera e il piccolo di 2 anni e mezzo abitava a Pontida, in via Baradello.
La famiglia Diouf è arrivata dal Senegal nel 2002 ha abitato per tanti anni a Pontida, prima di trasferirsi a Presezzo. Yaye Mai invece è rimasta a Pontida, si è sposata con Douda Timera, anche lui senegalese, e ha avuto un figlio. La ragazza che avrebbe compiuto 32 anni giovedì 16 aprile, è deceduta all’Ospedale Papa Giovanni XXIII nella notte del 21 marzo.

L'MFPR si stringe intorno alla famiglia di Yaye. E' una morte profondamente ingiusta! 
Non si deve morire così a 32 anni! Perchè non è stata curata/salvata? La sua morte al pronto soccorso forse spiega come Yaye, come tante persone, lavoratori, anziani, morti a Bergamo potevano essere salvati ma sono stati lasciati morire. E inevitabilmente la rabbia si unisce al nostro dolore.  
Noi conosciamo, attraverso i compagni dello Slai cobas sc di Bergamo, le operaie della Brembo.
Sempre le prime in questi anni nello sciopero delle donne. Anche quest'anno avevano detto che era giusto scioperare nonostante i divieti, le minacce, gli attacchi.
E anche la morte di Yaye spiega perchè quest'anno vi era e vi è una ragione in più: difendere la nostra vita!
Un forte saluto solidale alle compagne di lavoro di Yaye, con il nostro impegno a continuare, elevare ancora di più la nostra lotta, anche in suo nome.

18/04/20

DALL'INDIA CI SCRIVONO: COM'E' LA CONDIZIONE DELLE DONNE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS?


Dopo la pubblicazione del video del MFPR - che riproponiamo - e del documento: LA CONDIZIONE E LA NECESSARIA LOTTA DELLE DONNE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Ci scrive una giornalista dall'India: Gentile MFPR, Voglio scrivere un articolo in base al tuo rapporto. Ecco le mie domande 1. Le donne italiane formeranno un partito politico guidato dalle donne per rappresentare e dare voce alle questioni relative ai diritti delle donne, soprattutto nel contesto della situazione di Covid19? 2. Covid19 ha colpito le donne più degli uomini? In tal caso, in che modo? 3. Esistono dati che possono essere citati per mostrare come le condizioni delle donne sono peggiorate durante la crisi di Covid19 4. Le donne italiane mobiliteranno anche le donne europee per garantire che il mondo post-Covid19 sia veramente uguale per genere e anche generazionale?
RISPOSTE

1) NO. Le donne non formano un proprio partito politico, ma sono parte essenziale e centrale della costruzione e azione del partito proletario, che per noi è il partito comunista marxista-leninista-maoista. Questo partito comunista di tipo nuovo deve avere come principio costitutivo la centralità della questione femminile, creando le condizioni organizzative e ideologiche per il pieno sviluppo della lotta delle donne come arma indispensabile della rivoluzione, di una rivoluzione che continua per trasformare la terra e il cielo, perchè come dicono le donne "tutta la vita deve cambiare". Questo partito, nella sua direzione, e nel lavoro rivoluzionario, è formato e guidato da un numero alto di donne che spesso ne costituiscono la maggioranza dei compagni e sono la forza costantemente combattente per criticare e lottare anche contro ogni forma di maschilismo presente nel partito come negli organismi di massa. Questo già avviene, come proprio il Partito maoista in India, il PCI (Maoista) dimostra. L'idea e la linea di un "proprio partito politico" è una concezione interclassista, che se concretizzata vedrebbe alla sua guida non le donne proletarie che sono la maggioranza, ma le donne medio e piccolo borghesi che vogliono solo eliminare le brutture, il manto patriarcale del sistema del capitale e non rovesciare questo sistema di doppio sfruttamento e oppressione delle donne.
Mentre sicuramente è necessario - e noi lo facciamo - costruire organizzazioni, comitati, rete di donne per portare avanti la lotta sui nostri diritti e oggi a maggior ragione in questa drammatica vicenda del coronavirus per sviluppare denuncia, lotta specifica, solidarietà.
2) L'emergenza del Covid-19 ha colpito in maniera particolare le donne, peggiorando in generale la loro situazione, sia sul piano pratico delle condizioni di vita, di lavoro, nei territori, e soprattutto nello stare "chiuseincasa", sia sul piano ideologico, di maggiori catene/ oppressione. Ma su questo ti rimando al documento: "THE CONDITION AND THE NECESSARY STRUGGLE OF WOMEN AT THE TIMES OF CoViD-19", dove è dettagliato il modo e perchè le donne sono più colpite.  Circa i dati che tu chiedi, li stiamo anche noi raccogliendo.
3) Le donne italiane con le loro lotte spesso sono state un esempio per le donne di altri paesi europei. Il nostro messaggio/documento, le denunce/informazioni sulla situazione delle donne abbiamo cercato di farli arrivare ad altri paesi, in Spagna, Francia, Gran Bretagna, perchè effettivamente serve un movimento grande e unitario delle donne.  Noi non pensiamo che il "mondo post Covid-19" possa essere "uguale per genere e anche generazionale" senza una lotta rivoluzionaria che veda le donne in prima fila per una effettiva liberazione (e non solo uguaglianza), per rovesciare i responsabili di "pandemie" (che non si fermeranno certo al coronavirus): il sistema capitalista/imperialista, i suoi Stati, i suoi governi, i suoi uomini.
Un forte e caldo saluto MFPR

La CGS ribadisce la linea di divieto di sciopero e sanzioni - NON DEVE PASSARE, SERVONO INIZIATIVE UNITARIE

La Commissione Garanzia Sciopero con la nota che riproduciamo ha ribadito la volontà di applicare pesantissime sanzioni per lo sciopero delle donne del 9 marzo.
Questa posizione che riguarda ora tutti gli scioperi, non ha alcuna base nè legata all'emergenza coronavirus, nè giuridica; in realtà si vuole usare l'emergenza per cominciare ad attaccare in generale il diritto di sciopero.
La CGS diventa così la "voce e il braccio del padrone"; sanno bene che i loro piani di far lavorare senza sicurezza e aprire tutte le fabbriche anche "non essenziali" scatenerà inevitabilmente nuovi scioperi dei lavoratori.
Per questo, questo provvedimento della CGS non riguarda solo lo Slai cobas sc che lo ha ricevuto ma tutti, e in primis i sindacati di base.
Non possiamo lamentarci dopo della repressione e non impedire ora che vada avanti questo attacco.
Lo Slai cobas sc ha lanciato una proposta/appello a tutti i sindacati di base, agli organismi dei lavoratori, alle associazioni di lotta a rispondere unitariamente.
Dobbiamo dire che finora solo il gruppo di lavoro del 'Coordinamento lavoratrici/lavoratori autoconvocati per l'unità della classe' ha risposto condividendo la necessità di una risposta unitaria e comunicando un approfondimento sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi/settori essenziali.
Mentre l'Usb - anch'essa destinataria di un provvedimento simile della CGS per lo sciopero del 25 marzo - pensa evidentemente che ognuno fa per conto suo.
Noi pensiamo, invece, che occorre ora una battaglia larga, interna all'unica linea giusta: "toccano uno, toccano tutti"

 
RIPORTIAMO LA NOTA INVIATA ALLA CGS DA SLAI COBAS per il sindacato di classe:

Alla COMMISSIONE GARANZIA SCIOPERO
All'att.ne Presidente Giuseppe Santoro Passarelli
15.4.20

OGGETTO: Opposizione alla Delibera n. 20/56 del 16.3.20
La scrivente O.S. in riscontro alla Delibera, in oggetto indicata, osserva quanto segue:
1) E' la prima volta nella storia della Repubblica che viene bloccato uno sciopero a livello nazionale.
2) L’iniziativa del Garante va oltre le competenze di codesta CGS che riguardano, come dalla Legge 146/90 e successive modificazioni, il rispetto delle norme di autoregolamentazione dello sciopero nei
servizi pubblici essenziali, non certo il divieto di sciopero in ogni attività e in ogni settore lavorativo non previsti nell'elenco dei servizi pubblici essenziali.
La Commissione di garanzia si chiama così perché ad essa spetta garantire il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, alla cui tutela i servizi pubblici sono funzionali. “Contemperare”, quindi, e non “vietare”, dal momento che qualsiasi regolazione dello sciopero dovrebbe tener conto della sua dimensione di diritto costituzionale, cioè di valore costitutivo dell’ordine democratico.
La scrivente O.S nella proclamazione e nell'attuazione dello sciopero ha rispettato la legge 146/90, preservando i servizi pubblici essenziali.3) Vietando tutti gli scioperi, la CGS ha violato sia lo Statuto dei Lavoratori che la norma costituzionale che tutela il diritto di sciopero, art.40 Cost., così subordinando (non "contemperando") il diritto di sciopero agli altri diritti. Atteso che tale diritto (sia pur regolamentato nei servizi pubblici essenziali) è parte delle libertà fondamentali delle persone.
4) Codesta CGS motiva il divieto di sciopero in tutti i settori lavorativi (mettendo insieme "essenziali" e non "essenziali"  - e anche questo, a conoscenza della scrivente e di giuristi, avviene per la prima volta) richiamando un regolamento contenuto nelle discipline dei vari settori lavorativi che recita che gli scioperi vanno sospesi in caso di "avvenimenti eccezionali di particolare gravità o di calamità naturale". Ma la clausola in questione è però fondamentalmente invocabile solo quando uno sciopero è in grado, in qualsiasi modo, di influire sulla situazione emergenziale, e non per sospenderne l’esercizio prescindendo da qualsiasi valutazione nel merito dei suoi effetti concreti.D'altra parte nei settori che non fanno parte dei servizi pubblici essenziali, e come poi è stato stabilito dai Dpcm e dal protocolli Governo/OOSS, gli interessi delle persone, nel caso concreto della salute) andavano più tutelati nel non lavorare e stare a casa (come in effetti hanno fatto le lavoratrici in sciopero il 9 marzo - dato che non si sono tenute manifestazioni) che nel lavorare. Ed è paradossale che in tante realtà lavorative le lavoratrici potevano lavorare, con tutti i rischi di mancata distanze, mancate protezioni individuali, e invece non potevano scioperare!
La CGS pone un arbitrario rapporto tra l'emergenza coronavirus, i suoi rischi e il divieto di astenersi dal lavoro, ma a parte i servizi essenziali (in primis in questo caso la sanità) in cui si è assolutamente rispettata la legge 146/90, tutti gli altri scioperi non incidono sull’attività di “prevenzione e contenimento della diffusione del virus”.
Se si considera, come la stessa Costituzione prevede, che l’arma dello sciopero costituisce uno strumento di difesa dei lavoratori, in questo caso lo sciopero aveva una doppia valenza, sia rispetto alla condizione generale delle donne, delle lavoratrici, sia rispetto alla condizione particolare in cui agli inizi di marzo sui posti di lavoro non erano state adottate neanche quelle minime misure di tutela della salute, e le lavoratrici e i lavoratori hanno scioperato anche per rivendicarle.
Questo sciopero, pertanto, è stato pienamente legittimo e non ha assolutamente violato le disposizioni dellaLegge 146/90 e successive modifiche.
La scrivente O.S. con la presente fa opposizione alla delibera n. 20/56 e chiede a codesta Commissione di Garanzia Sciopero di non procedere oltre.

16/04/20

IL TESTO DEL DOCUMENTO DEL MFPR SU DONNE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS


LA CONDIZIONE E LA NECESSARIA LOTTA DELLE DONNE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

L’emergenza del coronavirus sta amplificando oggettivamente quella che era una condizione di sfruttamento e di oppressione che la maggioranza delle donne proletarie già viveva nel nostro paese.
L'emergenza sta investendo tutti gli aspetti della vita delle donne, il lavoro/il non lavoro, il salario/il non salario, il carico dei servizi sociali, la questione della violenza e dei femminicidi, l’aborto, ecc..

Sulla questione del lavoro, da un lato per il coronavirus vasti settori di lavoratrici dall’oggi al domani hanno perso il lavoro per la chiusura o sospensione di alcuni settori, come le cooperative sociali, il settore turistico, il settore della ristorazione, del commercio, delle pulizie/servizi, come alcune fabbriche; tantissime lavoratrici che vivevano una situazione già di precarietà rischiano ora di non rientrare più al lavoro anche dopo l'emergenza.
Le misure di ammortizzatori sociali per chi ha dovuto andare a casa sono assolutamente insufficienti, arriveranno con forte ritardo e tagliano comunque almeno il 20% dei salari, spesso già molto bassi.
In tutto un altro settore dove le lavoratrici sono soprattutto immigrate occupate come badanti, lavoratrici domestiche, le donne si stanno ritrovando in una situazione non solo pesantissima di non lavoro (e per tante di perdita di casa), ma anche fuori dalle misure di sostegno salariale del governo.

Dall’altro lato, le lavoratrici che stanno continuando a lavorare si ritrovano in una condizione non solo di più sfruttamento ma addirittura di nessuna tutela, prevenzione per la loro salute e vita, anche a rischio di morire, come è accaduto per es. nella logistica. La prima linea è sicuramente costituita da Continua a leggere...

12 ANNI FA MORIVA ANURADHA GHANDY, DIRIGENTE DEL PARTITO COMUNISTA DELL'INDIA-MAOISTA - La sua tempra, le sue parole vivranno sempre nella lotta rivoluzionaria delle donne di tutto il mondo

Dal calendario 2020 del Collettivo politico comunista Tazebao

Dalla presentazione dell'importante libro di Anuradha Ghandy, avvenuta in varie città dal MFPR

Per richiederlo: mfpr.naz@gmail.com


Anuradha Ghandy era, come dice Arundathy Roy , “differente”. Anuradha Ghandy nasce in una famiglia progressista e già nell’università diventa una leader delle lotte; subito dopo fa l’insegnante e diventa una delle principali attiviste per i diritti umani nel paese. Dopo comincia il suo periodo di lunga clandestinità perchè sceglie di fare appunto una vita “differente”, da comunista, militante. Nel primo periodo fa un lavoro tra gli operai, in particolare tra gli edili, ne organizza molte lotte. Per tre anni sta nelle zone dove opera l’Esercito guerrigliero di liberazione popolare. E' l’unica donna che è stata, finché non è morta, nel Comitato centrale del Partito Comunista dell’India (Maoista) che dirige la guerra popolare in India.

Anuradha Ghandy già da vari anni soffriva di una sclerosi multipla ma a questa si aggiunge la malaria. Lei andò in un ospedale per accertamenti ma poiché era clandestina non diede il suo vero nome. Quando i medici si accorsero che questa malaria era molto avanzata che le distruggeva via via tutti gli organi vitali, non poterono avvisarla e morì il 12 aprile 2008.

Ma questa compagna fino all’ultimo giorno, con tutte le sofferenze, non si è mai fermata un momento; dalla mattina alla sera girava, andava nelle zone dove è in atto la guerra popolare, e per lungo tempo portò avanti un lavoro per organizzare le donne riuscendo ad organizzare il più grosso movimento delle donne adivasi (adivasi significa “popolazione originaria”), trattati dallo Stato e

governo indiano con la politica dei massacri, repressione, che per le donne riserva insieme alle uccisioni, stupri, terribili violenze sessuali. Il movimento delle donne adivasi organizzato da Anuradha Ghandy contava almeno 90mila donne nel Dandakaranya.

Arundathy Roy fa l’introduzione di questo libro, e dice ad un certo punto: io non ho mai avuto la fortuna di incontrare direttamente Anuradha Ghandy, ma andai al suo funerale. La cosa che un po' mi sorprese e sentii fu che tutte le persone che la conoscevano parlavano di lei come di "una persona che aveva fatto tanti sacrifici”, e poi aggiunge “Per me comunque con Anuradha Ghandy ci si imbatte come in qualcuno che felicemente ha barattato noia e banalità per seguire il suo sogno. Non era santa o missionaria. Ha vissuto una vita esilarante che è stata dura, ma appagante”.

Questa è una bella dedica, per dire che l'unica vita che vale la pena di vivere non è una vita fatta di cose effimere, o una vita “tranquilla”, ma una vita in cui lotti, ti senti protagonista. Questa è la vita che consegna a tutte noi compagne, Anuradha Ghandy.

Le lavoratrici Slai cobas sc non se ne stanno a casa...

A PALERMO: Protesta e catena di solidarietà per le mamme delle lavoratrici


Abbiamo avuto segnalazioni e denuncia di mamme con neonati e donne incinte prossime al parto sulla difficoltà di reperire vestitini e articoli per i corredini, visto che i negozi che vendono questi articoli sono chiusi da marzo e anche i grandi supermercati che al loro interno vendono questi articoli oltre agli alimentari hanno il divieto di farlo, secondo sia i DPCM che le ordinanze regionali.
Questa mamme, donne lavoratrici ci hanno detto "ma questi non sono beni essenziali? I bambini appena nati dovrebbero restare nudi?"
Telefonare al Comune di Palermo? Non risponde mai nessuno!"
Con le lavoratrici dello Slai Cobas per il sindacato di classe, che non se lo sono fatte ripetere due volte, abbiamo attivato una immediata catena solidale verso alcune mamme che non riuscivano a comprare tutine e vestitini per i loro bambini nati da alcuni giorni. 
Una catena che ha visto in particolare alcune lavoratrici, ma non solo, mobilitarsi uscendo di casa, formando come una sorta di "staffetta", ha detto una lavoratrice, per fare arrivare i vestitini alle mamme, sfidando divieti, rischi di multe...
I volontari che portano cibo o farmaci agli anziani,  ecc qui a Palermo vengono pure multati grazie ai proclami quotidiani di Musumeci a suon di più esercito e polizia!
Dopo una protesta anche telefonica verso i palazzi  di Roma (Presidenza del Consiglio, Dipartimento della famiglia...) abbiamo mandato nota come Lavoratrici Slai cobas sc  a Roma e Regione Siciliana. 
PS. Sarà come sarà, ma nell'ultimo decreto di ieri Conte ha inserito anche i negozi di abiti per neonati tra quelli che potranno riaprire.


A TARANTO: Sfidano i divieti per organizzarsi
- "Cercavo di affiggere la lettera ma un carabiniere me l'ha impedito. Non mi sono data per vinta e le copie della lettera le ho distribuite a mano"

Lettera aperta-appello da Talsano-Taranto: Non sono le elemosine che ci risolvono la situazione
Ci sono tantissimi di noi che ora versano in condizioni disperate, ultrasettantenni soli e senza aiuto, senza reddito, chi ha famiglie con bambini che finora vivevano di espedienti lavorando anche a nero che ora chiedono aiuto ai parenti, che si vendono l’oro o vanno a elemosinare alla Caritas.
Dobbiamo denunciare le elemosine che sta dando il governo (bonus spesa...), che non risolvono il problema per le famiglie indigenti che prima erano tante adesso sono troppe.
Ma gli stessi figli nostri che prima cercavano di mantenersi facendo camerieri, lavapiatti, manovale ecc., ora sono chiusi in casa; come dire, oltre il danno la beffa, perché non lavorando, non socializzando molto spesso cadono in depressione o addirittura con forti attacchi di panico e allora devi comprare le medicine e come si può quando non hai i soldi neanche per mangiare!?
Senza parlare dei prezzi dei prodotti di prima necessità che continuano a crescere.
Questa questione non può essere risolta tamponando il momento di crisi, sarebbe necessario un reddito generale per tutti. Ma per questo è necessario che ci uniamo, ci organizziamo.
Facciamolo, soprattutto come donne.
Contattateci, mandateci segnalazioni, perché via via faremo iniziative per confrontarci con il Comune e con la prefettura, perché non bisogna essere a rischio “salute-mangiare”, non possiamo accettare passivamente tutto quello che sta accadendo.
Concetta – abitante di Talsano-Taranto
dello Slai cobas per il sindacato di classe

La condizione e la necessaria lotta delle donne proletarie ai tempi del coronavirus - Video intervento del MFPR


15/04/20

Dalle lavoratrici Slai Cobas per il sindacato di classe Palermo/Sicilia

METTERE IN ATTO L'ART.48 DEL DL  18/2020 DEL GOVERNO

Comunicato stampa


Centinaia e centinaia di Assistenti igienico-personale, IN SICILIA SONO RIMASTI FUORI DAI SERVIZI VERSO GLI STUDENTI DISABILI, A CAUSA DELLA SOSPENSIONE DELLE LEZIONI NELLE SCUOLE per l'emergenza Covid-19, E SENZA STIPENDIO A TUTT'OGGI DAL MESE DI MARZO 2020
Si trovano nella stessa situazione gli Assistenti all'autonomia e comunicazione sia che sia stato attivato o no nello specifico per questa categoria l'espletamento del servizio a distanza.

Gli Enti Locali devono dare immediata esecuzione all'art 48 del DL 18 del 17 marzo 2020 che li autorizza al pagamento delle somme spettanti per intero per i periodi di sospensione, considerato che si tratta di risorse già stanziate in bilancio e non si crea nessuna situazione di danno all'Erario, come vorrebbero far intendere invece i palazzi del potere interessati, mentre il servizio sarà espletato in forma convertita.

Gli Enti Locali (Regione Siciliana, Città Metropolitane, Comuni) sono tenuti ad applicare il suddetto articolo del DL 18 invece di volersi tenere, solo per ingrassare le loro casse, somme che spettano a lavoratrici e lavoratori precari che non devono pagare sulla loro pelle l'emergenza Covid-19.

La sospensione delle lezioni non è imputabile per nessun motivo a questi lavoratori e lavoratrici, per i quali all'emergenza del Coronavirus si aggiunge una gravissima emergenza occupazionale che sta colpendo il loro lavoro, che nella maggioranza dei casi è l'unica fonte di reddito.

Pretendiamo che gli Enti Locali siciliani mettano subito in atto quanto previsto dall'art.48 del DL 18 del 17 marzo 2020, fermo restando che li riterremo pienamente responsabili di ogni conseguenza che possa causare danno alla condizione di lavoro e di vita del grande bacino di Assistenti precari siciliani.
Slai Cobas per il sindacato di classe Palermo/Sicilia
https://femminismoproletariorivoluzionario.files.wordpress.com/2020/04/emergenza-occupazionale-assistenti-igienico-personale-agli-studenti-disabili-scuole-superiori-palermo-e-provincia-.pdf