31/08/15

Contro i CIE: una donna egiziana blocca la strada con i suoi 4 figli, massima solidarietà dal MFPR

Pieno appoggio alla giusta protesta. Basta con i CIE! Basta con le violenze contro immigrati e le donne immigrate!
MFPR

 
Da Infoaut
Torino: donna migrante blocca la strada dopo il trasferimento al Cie del marito

Mentre in questi giorni le lotte dei migranti ai confini dell'Europa e le reazioni dei governi europei occupano le cronache dei media, da Torino arriva notizia di una piccola storia di resistenza e opposizione alle forme di oppressione che compongono il cosiddetto sistema dell'"accoglienza" di cui si fa un gran parlare in queste ore.
Dal tardo pomeriggio, infatti, una donna egiziana, assieme ai suoi quattro figli, sta bloccando una delle grosse arterie torinesi, corso Massimo d'Azeglio, dopo che il marito, trovato senza documenti in regola, è stato trasferito al Cie di corso Brunelleschi. La donna si è seduta in mezzo alla carreggiata assieme ai figli e si rifiuta di allontanarsi o spostarsi, nonostante l'arrivo sul posto delle forze dell'ordine, chiedendo il rilascio immediato dell'uomo.
Ma la vicenda che ha portato al fermo del marito e al suo trasferimento al Cie è in questo caso anche emblematica delle quotidiane difficoltà e privazioni dei più basilari diritti e tutele che discendono dall'essere nella condizione di migrante. La donna egiziana, stando a quanto riportato dalle cronache locali, si era infatti rivolta ieri a una stazione dei carabinieri per denunciare un tentativo di stupro nei confronti della figlia maggiore. Di qui i controlli dei militari che hanno portato all'identificazione del marito.
Insomma, alla difficoltà di dover denunciare un fatto di violenza in questo caso si aggiunge anche la paura di ritorsioni e privazioni della libertà nei confronti della propria famiglia, come nel caso dell'uomo ora trasferito nell'incubo del sistema dei Cie. Una vicenda che fa rabbia e che svela i risvolti di un sistema che attribuisce più valore a un pezzo di carta che alla tutela della dignità e della vita umana, che ricaccia nel silenzio soprusi e violenza col ricatto della libertà. Non è d'altronde difficile immaginare che situazioni di questo tipo si creino quotidianamente, non solo in casi come questi ma anche nell'accesso a servizi essenziali come per esempio quelli di assistenza medica.
In attesa di aggiornamenti sulla situazione, esprimiamo piena solidarietà per il coraggioso gesto della donna e per la sua determinazione, che hanno avuto la forza di svelare un pezzo di questo sistema e dei suoi soprusi.

29/08/15

Solidarietà a Vincenzina Ingrassia!

Donna di 64 anni uccide a bastonate il marito dopo avere subito per 40 anni, violenza e percosse

BRAVA, NON E’ MAI TROPPO TARDI!

Grande solidarietà a Vincenzina Ingrassia, di Catania, arrestata perché  tre giorni fa ha ucciso il marito colpendolo nel sonno, con lo stesso bastone con cui poco prima lui l’aveva picchiata per l’ennesima volta, durante una lite.

Quarant’anni di violenze e percosse subite con “cristiana rassegnazione”, quella che questo sistema patriarcale, maschilista e barbaro insegna/impone alle donne fin da bambine.

Ma Vincenzina, seppur in tarda età, ha finalmente deciso di dire BASTA, e  DEVE ESSERE ASSOLTA  per legittima difesa e per avere sopportato con una pazienza inaudita, 40 anni di torture psico-fisiche da parte del porco marito.

Facciamo appello a tutte a non lasciare da sola questa donna e tutte quelle  che come lei hanno il coraggio di ribellarsi e liberarsi, concretamente della BESTIA… costi quel che costi.

PER OGNI DONNA UCCISA,STUPRATA, PICCHIATA
ED OFFESA, SIAMO TUTTE PARTE LESA!

Prepariamo un “autunno caldo” contro il governo moderno fascista di Renzi, che con la politica della macelleria sociale colpisce doppiamente le donne, togliendo loro anche e soprattutto la possibilità di un lavoro, dell’autonomia economica per potersi liberare da mariti e compagni violenti e/o assassini.

Uniamoci, organizziamoci e lottiamo scatenando la furia delle donne:  forza poderosa per la rivoluzione, per trasformare da cima a fondo questa società di merda che genera ed alimenta il maschilismo, la violenza e la crudeltà sull’altra metà del cielo…, considerata l’ultimo chiodo della carrozza e zerbino degli uomini.

MODERNO MEDIOEVO/DOPPIA OPPRESSIONE,
DONNE IN LOTTA PER LA RIVOLUZIONE!

Pa, 29.08.2015
Lavoratrici ed ex puliziere Policlinico Palermo, aderenti  SLAI Cobas s.c. ed MFPR –

27/08/15

Vittima di violenza in ospedale a Lecce, commento shock del medico: "Eh, ma voi donne..."

Il Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce denuncia un episodio accaduto qualche giorno fa. Il Direttore Asl Gorgoni: "Andremo fino in fondo".
La vittima della violenza maschile diventa "responsabile" dell'aggressione subita. Questo è quanto avrebbe insinuato un medico del Vito Fazzi nei confronti di una donna che nei giorni scorsi si è recata in ospedale dopo aver subito un'aggressione.
Commenti shock che hanno lasciato incredula e sdegnata Maria Luisa Toto, responsabile del Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce, che ieri ha denunciato pubblicamente su Facebook l'episodio.
“Eh, ma voi donne, pure... e poi, signora, siamo ad agosto. Sa...” avrebbe detto il medico alla donna vittima di violenza: mezze frasi dal contenuto, però, assai chiaro.
“Cosa vorrebbe insinuare, che le donne provocano?” Si chiede indignata la direttrice del Centro Antiviolenza “che le donne meritano i timpani perforati, i setti nasali rotti, le ossa e le costole spezzate? Il suo comportamento è raccapricciante! Ha svilito, offeso quella donna, l'ha sminuita come persona, ha attentato alla sua libertà. Lei è da denuncia”.

25/08/15

"Le nuove schiave del sud Italia" - ma, per favore, non ci uniamo alla stampa/TV borghese che scoprono solo ora le braccianti...

Questo articolo - che pubblichiamo sotto - di ClashCityWorkers purtroppo si adegua al "clamore" di questi giorni, in cui (per poco ancora) tutti, molti ipocritamente, sembrano scoprire improvvisamente, sulle morti di braccianti, che esistono condizioni di supersfruttamento, di vita disumane; e "scoprono" che nei campi lavorano molti italiani e italiane. 
Non è certo una grande "scoperta"...!
Le donne sono da sempre state la forza-lavoro maggioritaria, soprattutto in alcuni lavori come per esempio nelle varie fasi lavorative dei vigneti, nella raccolta e incassettamento di alcune frutte, ecc..
Quindi non è neanche vero che le donne ora verrebbero scelte in sostituzione degli immigrati che si ribellano; nè è vero che gli immigrati si ribellano mentre le donne sono passive e terrorizzabili (tra i morti di quest'estate vi sono stati anche due immigrati); così si rischia di andare per "mitologie" e non per un'analisi concreta della situazione concreta. Gli immigrati si sono ribellati - nelle campagne di Rosarno, nelle campagne di Nardò - quando vi è stato chi si è messo alla testa, li ha organizzati (ora a Rosarno, purtroppo la situazione è tornata come prima della rivolta); così le donne, ma anche i braccianti uomini italiani non fanno, ancora, le lotte che servirebbero perchè non solo c'è il ricatto, la minaccia dei padroni delle aziende agricole, dei caporali, ma perchè o sono fantasmi per i sindacati o, per esempio per la Cgil, sono lavoratori e lavoratrici su cui fare anche buone denunce, ma mai, mai organizzare per uno sciopero, una protesta. 
Le donne braccianti non sono affatto "dolci e mansuete", basta sentire la loro rabbia appena possono parlare; sono ricattate, perchè nel sud, nei paesi soprattutto, spesso è l'unica possibilità di lavoro; sanno bene di essere sfruttate, di avere meno salario, di dover assoggettarsi all'odioso "rito" mattiniero del caporale e a volte alle sue molestie e violenze sessuali... Ma questo è tutt'altro dall'essere definite con questo bruttissimo termine (in genere usato per gli animali): "dolci e mansuete". 
Poi, per piacere, non le chiamate: "le nostre mamme, sorelle e figlie italiane"... che sa tanto di fascismo... 
 
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(da ClashCityWorkers)
Le nuove schiave del sud Italia
Leggete questa inchiesta di Repubblica. Non scopre nulla di nuovo, e però segnala, a proposito dei casi degli ultimi giorni, molte cose interessanti. Innanzitutto che nei campi lavorano molti italiani, anzi italiane, meridionali. Come in altri settori del lavoro, le donne vengono identificate come soggetti più passivi, perché più prese in reti familiari, più terrorizzabili...
Ma non solo: che le donne vengono scelte in molti casi perché gli immigrati si ribellavano, chiedevano migliori condizioni di lavoro, e facevano rimettere soldi ai padroni. Cosa che ci dimostra come gli immigrati non siano soggetto debole e da tutelare, ma compagni di lotta che spesso stanno anche più avanti di noi.

Certo, non stiamo qui a stupirci o inorridirci perché lo sfruttamento più spietato e odioso ha preso a selezionare altri tipi di vittime. Perché ora sono italiane, donne italiane a finire nel tritacarne, e non solo immigrate e immigrati. Questa differenza non ha alcun senso per noi che rifiutiamo in blocco ogni forma di sfruttamento di qualsiasi uomo e donna su qualsiasi uomo e donna.

E tuttavia tutto questo di senso sembra averne molto per chi su queste differenze continua a fare soldi, tanti soldi. I padroni dei campi, come altri datori di lavoro in altri settori, ricorrono spesso a queste strategie: ci dividono in base a demarcatori sociali, se così possiamo chiamarli, usano le nostre differenze di sesso, età, provenienza e religione a loro vantaggio, selezionando le categorie di volta in volta più vulnerabili, che determinate circostanze storiche hanno reso tali, per metterci gli uni contro gli altri e avere una manodopera sempre più docile, flessibile, ricattabile e fare soldi...

Se oggi molte nostre mamme, sorelle e figlie italiane sono le nuove schiave dei campi evidentemente le loro condizioni sono precipitate a tal punto da renderle estremamente docili e mansuete. Donne doppiamente schiacciate, da una parte da reti familiari, che la crisi ha iniziato a sfilacciare ma che si basano ancora prevalentemente sul loro lavoro di cura non pagato e dall'altra dal carico di un lavoro disumano a cui sono costrette a ricorrere proprio per compensare questo sistema di welfare nostrano in frantumi, tanto che è sufficiente la minaccia 'domani resti a casa' per renderle ancor più controllabili.

Le circostanze possono cambiare repentinamente, possiamo trovarci da un giorno all'altro a negoziare condizioni di vita assurde che pensavamo lontane anni luce, che credevamo potessero appartenere a 'qualcun altro' ma non a noi. Evidentemente 'qualcun altro' e noi siamo più vicini di quanto pensiamo.

Allora forse quando sentiamo storie atroci di sfruttamento sugli immigrati non possiamo più pensare che tutto questo non ci riguardi... le loro storie sono le nostre storie. E allo stesso modo il loro coraggio deve diventare il nostro coraggio. Molti nostri amici immigrati hanno iniziato a dire 'basta!', hanno iniziato a rifiutare queste condizioni di vita e di lavoro inumane. Per questo i padroni si sono messi alla ricerca di nuovi schiavi e schiave che possano facilmente rimpiazzare chi ha iniziato a ribellarsi a questo stato di cose.

Yoox licenzia 8 lavoratrici, colpevoli di aver denuncato abusi, turni di lavoro massacranti e molestie sessuali.

 
Yoox, Mr. Job licenzia otto lavoratrici. Cobas: “Il motivo? Rifiuto cambio di mansione o sede”
La cooperativa che lavora per il colosso dello shopping online ha lasciato a casa le dipendenti, impiegate ai magazzini dell'Interporto di Bologna. Il sindacato: "Ci opporremo. E a settembre partirà una denuncia verso qualcuno dei piani alti dell'azienda committente”
Licenziate per aver rifiutato un cambio di mansione o di sede lavorativa. Si riaccende la protesta alla Mr Job di Bologna, la cooperativa della logistica che lavora in appalto per il colosso dello shopping online Yoox. A dare il via a una nuova stagione di mobilitazioni capitanate dal Si Cobas è la decisione, presa dall’azienda, di lasciare a casa otto lavoratrici dei magazzini dell’Interporto emiliano romagnolo, responsabili di aver rifiutato, secondo il sindacato, di cambiare mansione oppure sede di lavoro. “Otto licenziamenti, che però sono destinati a salire di numero – precisa il Cobas – Noi ci opporremo, siamo pronti a mettere in campo forme di lotta adeguate. E a settembre partirà una denuncia verso qualcuno dei piani alti della Yoox, l’azienda committente”.

Una vertenza, quella della Mr Job di Bologna, circa 300 operai, iniziata più di un anno fa, quando per la prima volta i lavoratori della cooperativa che confeziona gli abiti per conto di Yoox, soprattutto donne, bloccarono i cancelli del magazzino per protestare contro abusi in fabbrica, turni di lavoro troppo pesanti, ma anche intimidazioni, rimproveri, offese e avance sessuali ai danni delle dipendenti. Il caso, dopo una denuncia presentata da 11 lavoratrici, finì sul tavolo della Procura di Bologna, che sulle condizioni di lavoro alla Mr Job aprì un’inchiesta, al centro della quale finì l’ex responsabile del magazzino dell’Interporto, Federico Gatti, poi rinviato a giudizio dal gup Bruno Perla con l’accusa, tra le altre, di aver vessato per anni le dipendenti di origini nordafricane. Costituitesi parte civile, assieme al Cobas, al processo penale che inizierà in autunno presso il Tribunale di Bologna.

Quando però, la scorsa primavera, l’azienda aveva comunicato la volontà di operare un cambio di attività all’interno del magazzino, modificando le mansioni ad alcuni operai e decidendo di trasferirne altri, le proteste erano ricominciate. “E Mr Job ha deciso di punire i lavoratori ribelli con una valanga di contestazioni disciplinari e di sospensioni cautelari per i motivi più futili e disparati – spiega il sindacato – dalla cattiva postura utilizzata dalle lavoratrici sul piano di lavoro, all’avere masticato un chewing gum”. Il Cobas, quindi, chiese un incontro con la Prefettura di Bologna, e le misure vennero temporaneamente ritirate. “Finché un ulteriore episodio, in cui si accusa le lavoratrici di avere avuto un diverbio con gli addetti alla vigilanza dell’impianto, e il successivo incontro negativo avuto in Prefettura, ha dato il là ai licenziamenti”, riassume il sindacato.

Che ora è pronto a tornare a bloccare i cancelli dell’Interporto di Bologna. “Il premier Matteo Renzi ha definito Yoox un fiore all’occhiello italiano, evidentemente considera irrilevante ciò che è avvenuto alla Mr Job – attaccano i Cobas – noi siamo pronti a opporci a questi licenziamenti, che ovviamente puntano a mantenere lo status quo in un magazzino dove le paghe sono da fame e i lavoratori vengono sfruttati. E ci rivolgiamo a tutte le strutture sindacali che hanno a cuore gli interessi operai, affinché si uniscano alla mobilitazione: i licenziamenti non devono passare”.

Ramona è morta in carcere, la famiglia denuncia: «Non è un suicidio»

«Ramona era dislessica, non sapeva neanche allacciarsi le scarpe da sola. Figuriamoci se era in grado di annodare un lenzuolo per farne un cappio. E poi lei non aveva mai manifestato l’intenzione di togliersi la vita: Ramona era una ragazza orgogliosa. Non ci torna come ha fatto a fare tutto questo».

Dolore e rabbia, sospetto e voglia di verità: i Cortese da due giorni non si danno pace. La loro figlia, Ramona Cortese, è morta nella sezione femminile del carcere Don Bosco di Pisa, nel pomeriggio di venerdì 14 agosto.
Aveva compiuto 27 anni appena una settimana prima, il 7 agosto, da sola nella sua cella. Suicidio per impiccagione con un lenzuolo alla finestra, hanno comunicato alla famiglia. Ma la madre Manola, il padre Mario e i fratelli, un maschio e una femmina, non ci credono: «Ramona non si sarebbe mai uccisa».
La giovane era tornata in cella due settimane prima, il 31 luglio, a seguito della sospensione dei domiciliari, scattati dopo un periodo di detenzione iniziato il 16 aprile. Quel giorno Ramona era stata arrestata e portata in carcere a seguito della denuncia per stalking e violenza sessuale presentata dalla sua ex fidanzata.
I domiciliari li stava scontando a casa dei genitori, a Scarlino, in località Biagioni, quando, in un momento d’ira, aveva aggredito la madre, che aveva chiamato i carabinieri. Per lei, già nei guai con la giustizia anche per possesso di droga, si erano di nuovo aperte le porte del Don Bosco.
«Ma non era particolarmente preoccupata di tornare in cella – spiega l’avvocato Sabrina Pollini – C’ho parlato il 3 agosto ed era tranquilla: era arrabbiata ma non disperata. Il processo per droga era imminente e c’era la possibilità di poter andare in una comunità. No, era tutto tranne che depressa: ha sempre avuto, anche in passato, problemi con le guardie carcerarie e le altre detenute. Era un tipo difficile da trattare».
Secondo l’avvocato, oltre allo stato d’animo, anche il fisico di Ramona non le avrebbe mai permesso di mettere in atto un suicidio. «Aveva problemi alle braccia, non era molto forte» spiega Pollini.
Ramona condivideva la cella con altre compagne. Ne stava fuori per le otto ore di socialità previste e poi rientrava con le altre detenute. Secondo la ricostruzione fatta dalle autorità carcerarie, la donna avrebbe realizzato il cappio con il lenzuolo, lo avrebbe attaccato alla finestra e si sarebbe uccisa in un momento in cui era rimasta sola. «Ma è possibile – si chiede la famiglia – che nessuno abbia visto nulla? Che nessuno si sia accorto di niente?».
A insospettire i Cortese sono state anche le modalità con cui è stata comunicata la morte della ragazza. «Non si sono nemmeno degnati di mandare una pattuglia a casa per dircelo a voce – spiega la famiglia – ma ce lo hanno detto al telefono i carabinieri di Scarlino». Una telefonata arrivata, tra l’altro, sul cellulare della madre, cardiopatica.
La famiglia denuncia anche di avere avuto difficoltà a farsi dire le modalità della morte dalle autorità carcerarie. «Un muro di gomma», spiega l’avvocato. E non solo. Allo strazio di aver ricevuto la notizia della morte della loro figlia e sorella, i Cortese hanno dovuto sopportare anche il supplizio di dover andare alla ricerca del corpo di Ramona in tutta Pisa.
«Quando siamo arrivati al carcere Don Bosco – prosegue infatti la famiglia – non hanno saputo dirci dove era la salma. Siamo dovuti andare noi a cercarla. E ancora non l’abbiamo potuta vedere».
Ramona si trovava all’obitorio dell’ospedale Santa Chiara; la salma è stata messa sotto sequestro e il procuratore reggente della Procura della Repubblica di Pisa, Antonio Giaconi, ha disposto l’autopsia. «L’avremmo chiesta noi – spiega l’avvocato Pollini – ma il pubblico ministero l’ha disposta di sua iniziativa. Anche la polizia penitenziaria ha aperto un’indagine interna e la polizia scientifica dei carabinieri ha fatto i rilievi».
L’autopsia si terrà domani mattina alle 10 all’ospedale Santa Chiara e sarà eseguita dal dottor Davide Forni, medico legale della Procura. L’avvocato Pollini ha nominato il dottor Stefano Pierotti, medico legale esterno alla struttura del Santa Chiara, come medico legale di parte.
«Ramona aveva solo voglia di uscire dal carcere per avere giustizia – spiega la famiglia – Voleva che la verità venisse fuori, soprattutto riguardo alle accuse di stalking e violenza sessuale, che erano del tutto infondate».
Un’altra verità, ancora più importante, è però quella che adesso chiede la famiglia: la verità sulla morte della loro ragazza.

23/08/15

Sull'esecuzione di Ekin Van: l'appello delle donne curde in Europa e il sostegno del mfpr. CONTRO LO STATO FASCISTA TURCO E L'IMPERIALISMO, GUERRA DI POPOLO!

 Appello delle donne curde
La mentalità patriarcale e la complicità fra AKP e daesh è il segno più atroce del femminicidio.

Il movimento delle donne curde in Europa TJKE e la rappresentanza internazionale del movimento delle donne curde, l’ ufficio delle donne curde per la pace CENI, la fondazione internazionale delle donne libere, la casa delle donne Utamara, la fondazione Roj women, la fondazione Helin, e tutte le assemblee popolari delle donne curde in Europa condanniamo fermamente l’esecuzione di Kevser Elturk (Ekin Van), combattente delle YJA STAR torturata e uccisa dai militari turchi ed esposta nuda in modo disumano nel centro della città di Varto nel Kurdistan turco. L’onta e il disonore di questo gesto resterà scritto nella storia.
Nel nome del regno del sultanato la mentalità dell’AKP rigetta l’umanità sulla via della morte, continuando a percorrere la via della guerra, con il solo scopo di demoralizzare la resistenza delle donne curde.  Keveser Elturkè il simbolo della resistenza delle donne curde. Come donne curde e del mondo chiediamo giustizia per questo gesto orribile. In tutte le guerre conosciute nella storia del mondo, le donne sono state utilizzate come bottino di guerra. Oggi in Irak le donne continuano ad essere vendute nei mercati della schiavitù sessuale. L’ immagine delle donne curde trainate a terra dai carri armati turchi e i loro corpi esposti nudi nei media sono ancora attuali.
La mentalità conservatrice e patriarcale non sopporta l’ ideologia della liberazione delle donne, che appartiene ai valori dell’ umanità. Le atrocità inflitte a Keveser Elturk sono la rappresentazione della mentalità maschile degli anni ’90 che si ripropone oggi. L’ etica del disonore si concretizza con la complicità fra AKP e daesh. La  cultura dello stupro che ha messo in atto il femminicidio  di Ekin Van è la conseguenza  della continua guerra nei confronti del diritto alla legittima difesa delle donne curde,  oggi simbolo della resistenza delle donne di tutto il mondo. Come movimento delle donne curde e associazioni di donne curde ci uniamo e sosteniamo questo appello del KJA,  e denunciamo questa politica incosciente e disumana portata avanti dalla polizia dell’ AKP contro le donne. Di conseguenza resistiamo contro la mentalità dell’'AKP, come i combattenti YPG hanno sconfitto il califfato di daesh.
Lanciamo un appello all’ opinione pubblica, alle organizzazioni dei diritti umani, alle femministe a tutte le associazioni sensibili a questa situazione ad essere solidali alla nostra causa e ad unirsi nella lotta contro questa guerra e femminicidio messo in atto dall’ AKP.
Riscriviamo la storia, costruiamo insieme il  confederalismo democratico, rafforziamo la nostra autodifesa contro la mentalità patriarcale.


Parigi 19/08/2015
ORGANIZZAZIONE FIRMATARIE TJK-E- Europa; Le Assemblee Popolari delle Donne Curde in Europa; IRKWM-Europa; CENI- Germania; IFWF-Olanda; UTAMARA-Germania; Fondazione Roj Women- UK; Fondazione Helin; ....

L'MFPR sostiene la condanna dell'esecuzione di Ekin Van. Denunciamo con forza lo Stato fascista turco vero responsabile di questa orrenda tortura e uccisione, con il criminale Erdogan che punta ad una soluzione finale contro il popolo curdo per imporre la sua dittatura. Denunciamo l'appoggio al regime turco dell'imperialismo Usa e della Nato.
Questo massacro verso le donne combattenti si carica dell'atroce peso della violenza sessista. Con l'uccisione e lo scempio del corpo di Ekin Van si è voluto infierire sulla grande forza delle donne curde che "osano" portare avanti una sfida alla terra e  al cielo, combattendo insieme la politica fascista e la più dura mentalità patriarcale. Ma questo brutalità mostra nello stesso tempo la grande paura dello Stato, della polizia. Le combattenti curde hanno assunto un ruolo chiave nella lotta contro l'Isis e oggi sono in prima fila nella resistenza e nel combattere l'esercito turco.
Noi siamo al fianco delle combattenti che dicono: "oggi vogliamo prepararci alla vittoria con la forza e il morale che abbiamo ottenuto da queste donne. La gente ha bisogno di vedere la propria forza e di portare la guerra popolare rivoluzionaria alla vittoria".




Il 25 novembre 2014 alcune compagne del Movimento femminista proletario rivoluzionario fecero un sit in di protesta all'ambasciata e uffici della Turchia a Roma. 

Noi pensiamo che oggi onorare Ekin Van, sostenere la lotta delle combattenti curde e turche significa anche dall'Italia lottare contro l'imperialismo Usa (avanguardia di tutte le barbarie), il regime fascista turco e il nostro imperialismo complice.

Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario - Italia

Solidarietà alle operaie Mr Job licenziate per avere denunciato i pesanti carichi di lavoro e le odiose molestie a cui dovevano essere sottoposte al lavoro

Alla fine ci sono riusciti. Questa settimana, dopo un anno di tentativi, la cooperativa Mr. Job è riuscita a licenziare ben otto operaie dell'appalto Yoox –Interporto di Bologna (e il conto è destinato a salire in attesa dell'esito delle ultime audizioni per contestazioni disciplinari).

Da giugno dell'anno scorso siamo impegnati in questa difficile vertenza in cui, in sintesi, alle solite difformità economico-contrattuali sono presenti problematiche legate ai carichi di lavoro e molestie di vario genere (a ottobre è prevista la prima udienza penale in cui il Sicobas e le lavoratrici interessate sono parte civile e a settembre partira' una denuncia verso qualcuno dei piani alti della yoox, l'azienda committente). I tentativi di licenziamento, in realtà, partono da molto lontano e a onor di cronaca bisogna dire che prima dell'arrivo del Sicobas nel magazzino Yoox per Mr. Job era molto più semplice: bastava ordinare ai lavoratori di svolgere lavori degradanti a ritmi forsennati o molto distanti dal proprio domicilio per costringerli a dare le dimissioni. In questo caso il primo approccio è stato quello di proporre, a settembre del 2014, una lauta buon uscita alle lavoratrici iscritte al Sicobas in cambio delle rinunce a tutte le azioni legali. Proposta sottoposta e rigettata dalle lavoratrici intenzionate ad andare fino in fondo sia per migliorare le loro condizioni di lavoro sia per ottenere "giustizia" a fronte di tutti gli abusi denunciati. A seguito di ciò sono seguiti alcuni mesi di relativa quiete, se non altro, in termini di clima lavorativo e tempi di lavoro, viste le difficoltà dal punto di vista delle relazioni sindacali, fino al mese di maggio periodo in cui sono partite valanghe di contestazioni disciplinari e di sospensioni cautelari per i motivi più futili e disparati (dalla cattiva postura utilizzata dalle lavoratrici sul piano di lavoro, all'avere masticato un chewing gum e potremmo ancora andare avanti). Quest'ultima circostanza, stante l'impossibilità di ottenere un incontro sindacale, ci ha portati a richiedere un incontro presso la Prefettura di Bologna dove, a seguito del primo incontro, le sospensioni cautelari furono inizialmente ritirate. Un ulteriore episodio, in cui si accusa le lavoratrici di avere avuto un diverbio con gli addetti alla vigilanza dell'impianto e il successivo incontro negativo avuto in Prefettura, ha dato il là ai licenziamenti. A questi licenziamenti ci opporremo mettendo in campo forme di lotta adeguate e proseguiremo in questa difficile vertenza contro il colosso Yoox. Azienda definita "un fiore all'occhiello italiano" dal Premier Renzi durante la sua ultima visita all'azienda. Dal suo punto di vista è irrilevante, oppure per questo motivo che il successo di Yoox e i suoi lauti margini di profitto dipendono ndal livello di sfruttamento, dal grado di flessibilità e dalle paghe da fame che l'uso delle cooperativa nei suoi appalti comporta. I licenziamenti comminati puntano proprio a mantenere lo status-quo e a impedire avanzamenti sul fronte della difesa economica, normativa e della lotta nei magazzini Yoox. 

IL S.I. COBAS INVITA TUTTA LA STRUTTURE SINDACALI CHE HANNO A CUORE GLI INTERESSI OPERAI E LE REALTA' SOLIDALI ALLA MOBILITAZIONE AFFINCHE' I LICENZIAMENTI NON PASSINO!


SI COBAS NAZIONALE

21/08/15

Cadono giù come acinini - un'altra bracciante morta in Puglia


A luglio era morta Paola di San Giorgio Jonico (TA) andata a lavorare nelle campagne baresi, per 12 ore al giorno e per 27 euro, sepolta in tutta fretta per nascondere le vere cause della morte

Ai primi di agosto nelle  campagne di Massafra sono venute alla luce le condizioni di lavoro e di vita in un'azienda agricola di lavoratori immigrati che vivevano nella stessa azienda in condizioni disumane, con una parte alloggiata in un vecchio rudere in disuso, privo di bagni, acqua e corrente elettrica, altri accampati all’esterno su materassi sudici o sotto rudimentali coperture sintetiche, in condizioni igieniche vergognose.

Oggi viene fuori la morte, nelle campagne di Ginosa, di un'altra bracciante.

E I SINDACI E GLI ORGANI DI CONTROLLO CONTINUANO A FARE COME LE "TRE SCIMMIETTE".

QUESTO DEVE FINIRE!!

MFPR Taranto


Un altro caso a Massafra nel Tarantino: «Mia moglie, stroncata da un malore nei campi

MASSAFRA. Si è spenta nel silenzio, Maria Lemma, 39 anni, bracciante agricola di Massafra regolarmente assunta dal suo datore di lavoro, anche lei - come l’altra collega pugliese deceduta - l’ultimo abbraccio ai suoi cari l’ha dato prima che il sole sorgesse, in un venerdì di luglio. Maria non avrebbe mai immaginato che quella tra i vigneti di Ginosa sarebbe stata l’ultima partenza verso la campagna, verso il lavoro nei campi. Un improvviso malore, sotto la calura estiva, implacabile in un luglio da decenni mai così rovente, mentre tagliava l’uva da tavola, destinata ad essere venduta nei mercati del Nord Italia. Poi la corsa disperata in ospedale, al «Giuseppe Moscati» di Taranto dove ogni tentativo dei sanitari di salvarle la vita si è rivelato vano perché, a distanza di dieci giorni (poco prima di ferragosto), il suo cuore si è fermato.

Il marito Nicola Maggio - invalido civile con una piccola pensione - e i cinque figli, adesso, sono rimasti privi dell’unica fonte di reddito certa. I 40 euro che Maria guadagnava giornalmente sui campi della provincia di Taranto servivano per soddisfare l’esigenze domestiche, contribuendo perfino al pagamento delle rate di un mutuo contratto per l’acquisto della casa. Una vita dedicata alla campagna, tra le difficoltà di una quotidianità sempre più dura e le preoccupazioni di assicurare tranquillità ai figli. A volte anche sottacendo qualche patologia, perché lo stato di malattia può ostacolare il rapporto di lavoro, fino a renderlo impossibile.

Nicola Maggio ha deciso di raccontare il suo dramma, a distanza di giorni e a mente più serena, perché attraverso il dolore della sua famiglia si possa pensare a nuove e idonee misure di legge, tali da tutelare in maniera più adeguata quanti prestano la propria mano d’opera in ag ricoltura. Molto spesso i nostri braccianti sono costretti ad accettare condizioni di lavoro massacranti altrimenti non lavorano, e, purtroppo, per la fame di lavoro si rendono spesso «invisibili».

Tanti i quesiti che accompagnano la vita lavorativa nei campi: la durata di un turno di lavoro nei campi, d’estate, quando finisce di essere regolare e diventa, invece, un rischio? In merito alle patologie professionali che possono colpire il lavoratore agricolo, esiste una classificazione che prevede malattie legate all’ambiente di lavoro, nonché a materiali e a strumenti di lavoro.

I malori avvertiti durante l’estate da braccianti impegnati nelle lavorazioni nei campi hanno d’altronde fatto sorgere il sospetto che possano essere stati causati dall’uso massiccio e incontrollato da fitofarmaci e antiparassitari.

20/08/15

Contro il regime fascista di Erdogan, contro Isis e imperialismo, sostegno alla lotta armata delle masse turche e kurde

August marked with effective actions by guerrillas

comrade the spirit of the Kurdish freedom struggle

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770x500cc-dyb-19-08-15-Fatma-olmez-manset Police intervened in a protest demonstration in Esenler district of İstanbul
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The KJK has issued a statement calling for support for the Kurdish people’s legitimate demand for self-government. “It is necessary that there be support for our youth, our women and our people, who are trying to realize the principle of local government in spite of the illegitimate, dictatorial, gangster state,” wrote the KJK.

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 YJA STAR commander Kevser Eltürk (nom de guerre Ekin Wan)

The group New Democratic Woman (YDK) has issued a statement about the incident. “We’re not scared,” began the statement. “Because we know that this state is a murderer, from the villages it has evacuated and the women it has killed under arrest. Because we know that this state is a rapist, from the women whose breasts they have cut up in torture, from the women whose will they tried to break with rape, from the women who were abandoned to sexual torture under arrest and in prison,” said YDK.
“We know this from your unjust dirty wars, which may not have made us ashamed of our bodies, but have made us ashamed of our humanity. We know this from Shengal, from Kobanê. “We see very well that this misogyny of yours comes from the women fighting concessions on the barricades, in the prisons and on the mountains,” the group said. “And so we are not scared of you, and we are not ashamed of our bodies.”
 
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The group Union of Patriotic Revolutionary Young Women (YDGK-H) has called on all women to join the self-defense effort in Kurdistan in revenge for what was done to Ekin Wan. “For years, we have been unashamed of our bodies. For years, this state had tried to scare us with rape, harassment and killing,” said the YDGK-H. “This is how they try to silence women, seize their homes and destroy them. In the face of all of this, we will continue digging our trenches and defending ourselves against the colonial state.” The group announced that they would be seeking revenge for the action. “There will be a settling of accounts with those who did this and with those who ventured to realize this. We know who did this,” said the women. “All YDGK-H units will get revenge on this from every police and special operations officer in Kurdistan.”
 
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Le donne curde salutano Ekin Wan la combattente kurda assassinata dal fascista Erdogan

“Ekin Wan è la nostra resistenza nuda
da infoaut.

“Ekin Wan è la nostra resistenza nuda”. Questo uno degli sologan con cui le donne d
“Ekin Wan è la nostra resistenza nuda
da infoaut.

“Ekin Wan è la nostra resistenza nuda”. Questo uno degli sologan con cui le donne di Nusaybin (provincia di Mardin) sono scese in strada per esprimere la rabbia contro l’esposizione del corpo nudo e martoriato della guerrigliera Kevser Eltürk (nome di battaglia Ekin Wan) delle YJA Star, uccisa in uno scontro dalle forze di sicurezza turche nel distretto di Varto (provincia di Muş). Dopo averla uccisa, l’hanno completamente spogliata e trascinata per strada legata ad una corda, per poi abbandonarla nella piazza del paese.
Una fotografia del suo corpo nudo e martoriato ha iniziato a circolare sui social media durante il fine settimana, in origine condivisa probabilmente dalla polizia di Varto.

Una delle donne che ha lavato per il funerale il corpo di Ekin straziato, ne ha descritti i segni di tortura, tra cui una profonda ecchimosi sul collo e le gambe e la pelle lacerate. Aveva anche lividi lasciati da una corda stretta intorno al suo collo e usata probabilmente per trascinarla.
In risposta a questa disumana vicenda, i/le guerriglieri/e hanno preso il controllo della città di Varto mentre “la gente armata di guardia in trincea ha detto che questa azione era una rappresaglia per l’uccisione di una guerrigliera, uccisa pochi giorni fa a Varto da un team operativo speciale, il cui corpo nudo è stato messo in mostra dalla stampa”.

Le Giovani donne rivoluzionarie (YDGK-H) hanno rinnovato il loro appello a tutte le donne affinché si uniscano agli sforzi di autodifesa e alla lotta rivoluzionaria in Kurdistan, per vendicare l’uccisione e la profanazione del corpo di Ekin.
“Per anni, non ci siamo vergognate dei nostri corpi. Per anni questo stato ha cercato di spaventarci con stupri, molestie e uccisioni. Questo è il modo in cui cercano di mettere a tacere le donne, prendono le loro case e le distruggono. Di fronte a tutto ciò, continueremo a scavare le nostre trincee e a difenderci contro lo stato coloniale”.

Le militanti di Nuova donna democratica (YDK) in un comunicato scrivono: “Non siamo spaventate. Perché dai villaggi che ha evacuato e dalle donne che ha ucciso in stato di arresto, sappiamo che questo stato è un assassino. Perché dalle donne a cui ha tagliato il seno sotto tortura, dalle donne a cui ha cercato di spezzare la volontà con lo stupro, dalle donne abbandonate alle torture sessuali in stato di arresto e in prigione, sappiamo che questo stato è uno stupratore. Lo sappiamo dalle vostre sporche guerre ingiuste, che se non ci hanno fatto vergognare dei nostri corpi, ci hanno fatte vergognare della nostra umanità. Lo sappiamo da Shengal, da Kobanê. Vediamo molto bene che questa vostra misoginia viene dalle donne che lottano sulle barricate, nelle carceri e sulle montagne. E così noi non abbiamo paura di voi e non ci vergogniamo dei nostri corpi”.

Intanto a Silvan – città della provincia di Diyarbakır, nel Kurdistan turco, che ha dichiarato l’autogoverno dopo Silopi, Cizre, Nusaybin, Yüksekova e Varto – le giovani donne curde sono in prima linea nella resistenza della città e hanno assunto un ruolo-chiave nel tenere la polizia fuori dai quartieri, stando di guardia in trincea e difendendo l’area.
Arîn Amed, che vive nel quartiere Tekel, ha detto:
“Silvan non è sola. Come giovani donne, difenderemo fino alla fine le zone in cui viviamo. Noi non rinunceremo a questa resistenza finché Silvan non sarà libera. In questo momento, tutti i giovani e le giovani di Silvan sono in rivolta”.
Ha poi aggiunto che fino ad ora le giovani di Silvan hanno vissuto sotto il dominio della mentalità patriarcale, ma che “Le combattenti delle YPJ a Kobanê, che hanno combattuto duramente contro la mentalità patriarcale, sono diventate un esempio per tutto il mondo. Noi vogliamo prepararci alla vittoria con la forza e il morale che queste donne ci hanno trasmesso. A questo punto la gente ha bisogno di vedere la propria forza per portare la guerra popolare rivoluzionaria alla vittoria.
Il nostro popolo ha attraversato molto dolore e ha pagato un prezzo alto, ma la vittoria contro questa crudeltà è vicina. Una volta che diventiamo un ‘NOI’, nessuna forza può fermarci”.

Non solo la Turchia soddisfa tutte le esigenze dei militanti di ISIS – come ha testimoniatoun emiro catturato dalle YPG a Kobanê lo scorso 25 giugno –  ma il binomio AKP-ISIS, con la sua mentalità maschile dominante, concretizza oggi il volto più feroce del femminicidio, come hanno dichiarato le organizzazioni di donne curde residenti in Europaa proposito della profanazione del corpo di Ekin, aggiungendo che come le YPJ stanno abbattendo il regno barbaro delle bande ISIS, le donne curde rovesceranno la mentalità selvaggia dell’AKP.

La mentalità stupratoria, che si è manifestata contro tutte le donne sulla persona di Ekin Wan, ha iniziato una guerra basata sul femminicidio per abbattere la legittima difesa che le donne kurde hanno intrapreso in un modo che le rende una speranza per le donne in tutto il mondo.
Le donne hanno anche sottolineato che l’AKP e la sua mentalità maschile dominante non potevano accettare la rivoluzione in Rojava, che è in realtà la rivoluzione delle donne, e che la tortura effettuata sul corpo di Ekin non è una coincidenza ma la dimostrazione di questa mentalità.

“Ekin Wan, guerrigliera delle YJA STAR, è il simbolo di autodifesa e rappresenta la resistenza delle donne libere”. Sono in particolare i corpi delle donne ad essere attaccati e presi di mira in tutte le guerre, hanno ricordato le donne curde rammentando quando, negli anni ’90, in Kurdistan le forze di sicurezza turche violentavano, torturavano ed  esponevano nudi i corpi delle donne dopo la loro esecuzione.

Le donne curde in Europa hanno concluso la loro dichiarazione invitando tutte le donne a partecipare con forza a tutte le azioni contro la guerra sporca dell’AKP. i Nusaybin (provincia di Mardin) sono scese in strada per esprimere la rabbia contro l’esposizione del corpo nudo e martoriato della guerrigliera Kevser Eltürk (nome di battaglia Ekin Wan) delle YJA Star, uccisa in uno scontro dalle forze di sicurezza turche nel distretto di Varto (provincia di Muş). Dopo averla uccisa, l’hanno completamente spogliata e trascinata per strada legata ad una corda, per poi abbandonarla nella piazza del paese.
Una fotografia del suo corpo nudo e martoriato ha iniziato a circolare sui social media durante il fine settimana, in origine condivisa probabilmente dalla polizia di Varto.

Una delle donne che ha lavato per il funerale il corpo di Ekin straziato, ne ha descritti i segni di tortura, tra cui una profonda ecchimosi sul collo e le gambe e la pelle lacerate. Aveva anche lividi lasciati da una corda stretta intorno al suo collo e usata probabilmente per trascinarla.
In risposta a questa disumana vicenda, i/le guerriglieri/e hanno preso il controllo della città di Varto mentre “la gente armata di guardia in trincea ha detto che questa azione era una rappresaglia per l’uccisione di una guerrigliera, uccisa pochi giorni fa a Varto da un team operativo speciale, il cui corpo nudo è stato messo in mostra dalla stampa”.

Le Giovani donne rivoluzionarie (YDGK-H) hanno rinnovato il loro appello a tutte le donne affinché si uniscano agli sforzi di autodifesa e alla lotta rivoluzionaria in Kurdistan, per vendicare l’uccisione e la profanazione del corpo di Ekin.
“Per anni, non ci siamo vergognate dei nostri corpi. Per anni questo stato ha cercato di spaventarci con stupri, molestie e uccisioni. Questo è il modo in cui cercano di mettere a tacere le donne, prendono le loro case e le distruggono. Di fronte a tutto ciò, continueremo a scavare le nostre trincee e a difenderci contro lo stato coloniale”.

Le militanti di Nuova donna democratica (YDK) in un comunicato scrivono: “Non siamo spaventate. Perché dai villaggi che ha evacuato e dalle donne che ha ucciso in stato di arresto, sappiamo che questo stato è un assassino. Perché dalle donne a cui ha tagliato il seno sotto tortura, dalle donne a cui ha cercato di spezzare la volontà con lo stupro, dalle donne abbandonate alle torture sessuali in stato di arresto e in prigione, sappiamo che questo stato è uno stupratore. Lo sappiamo dalle vostre sporche guerre ingiuste, che se non ci hanno fatto vergognare dei nostri corpi, ci hanno fatte vergognare della nostra umanità. Lo sappiamo da Shengal, da Kobanê. Vediamo molto bene che questa vostra misoginia viene dalle donne che lottano sulle barricate, nelle carceri e sulle montagne. E così noi non abbiamo paura di voi e non ci vergogniamo dei nostri corpi”.

Intanto a Silvan – città della provincia di Diyarbakır, nel Kurdistan turco, che ha dichiarato l’autogoverno dopo Silopi, Cizre, Nusaybin, Yüksekova e Varto – le giovani donne curde sono in prima linea nella resistenza della città e hanno assunto un ruolo-chiave nel tenere la polizia fuori dai quartieri, stando di guardia in trincea e difendendo l’area.
Arîn Amed, che vive nel quartiere Tekel, ha detto:
“Silvan non è sola. Come giovani donne, difenderemo fino alla fine le zone in cui viviamo. Noi non rinunceremo a questa resistenza finché Silvan non sarà libera. In questo momento, tutti i giovani e le giovani di Silvan sono in rivolta”.
Ha poi aggiunto che fino ad ora le giovani di Silvan hanno vissuto sotto il dominio della mentalità patriarcale, ma che “Le combattenti delle YPJ a Kobanê, che hanno combattuto duramente contro la mentalità patriarcale, sono diventate un esempio per tutto il mondo. Noi vogliamo prepararci alla vittoria con la forza e il morale che queste donne ci hanno trasmesso. A questo punto la gente ha bisogno di vedere la propria forza per portare la guerra popolare rivoluzionaria alla vittoria.
Il nostro popolo ha attraversato molto dolore e ha pagato un prezzo alto, ma la vittoria contro questa crudeltà è vicina. Una volta che diventiamo un ‘NOI’, nessuna forza può fermarci”.

Non solo la Turchia soddisfa tutte le esigenze dei militanti di ISIS – come ha testimoniatoun emiro catturato dalle YPG a Kobanê lo scorso 25 giugno –  ma il binomio AKP-ISIS, con la sua mentalità maschile dominante, concretizza oggi il volto più feroce del femminicidio, come hanno dichiarato le organizzazioni di donne curde residenti in Europaa proposito della profanazione del corpo di Ekin, aggiungendo che come le YPJ stanno abbattendo il regno barbaro delle bande ISIS, le donne curde rovesceranno la mentalità selvaggia dell’AKP.

La mentalità stupratoria, che si è manifestata contro tutte le donne sulla persona di Ekin Wan, ha iniziato una guerra basata sul femminicidio per abbattere la legittima difesa che le donne kurde hanno intrapreso in un modo che le rende una speranza per le donne in tutto il mondo.
Le donne hanno anche sottolineato che l’AKP e la sua mentalità maschile dominante non potevano accettare la rivoluzione in Rojava, che è in realtà la rivoluzione delle donne, e che la tortura effettuata sul corpo di Ekin non è una coincidenza ma la dimostrazione di questa mentalità.

“Ekin Wan, guerrigliera delle YJA STAR, è il simbolo di autodifesa e rappresenta la resistenza delle donne libere”. Sono in particolare i corpi delle donne ad essere attaccati e presi di mira in tutte le guerre, hanno ricordato le donne curde rammentando quando, negli anni ’90, in Kurdistan le forze di sicurezza turche violentavano, torturavano ed  esponevano nudi i corpi delle donne dopo la loro esecuzione.

Le donne curde in Europa hanno concluso la loro dichiarazione invitando tutte le donne a partecipare con forza a tutte le azioni contro la guerra sporca dell’AKP.

Perù. Caricate le donne che manifestano per l'aborto

(dal blog proletari comunisti)
 
Nei giorni scorsi centinaia di donne hanno marciato per le strade della capitale peruviana Lima, fino al Palazzo del Congresso, per chiedere che venga presa in esame la legge che depenalizzi l'interruzione volontaria di gravidanza, ma sono state respinte dalla polizia con idranti e gas lacrimogeni.
Il corteo organizzato da alcune associazioni per la difesa delle donne puntava a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla condizione femminile ancora assai arretrata nel paese in tema di diritti.
"Oggi stiamo chiedendo il diritto di tutte le donne a decidere del nostro corpo. Noi chiediamo che si depenalizzi l'aborto, purtroppo solo in caso di violenza sessuale. E' un primo passo, perchè il Perù è un paese arretrato" ha spiegato l'attivista Maria del Carmen Gutierrez.
Attualmente una donna che abortisce in Perù rischia fino a tre mesi di carcere.

Le pene “accessorie” per le donne

un articolo di Elisabetta Teghil

Martina Levato è una donna condannata a quattordici anni di reclusione per l’aggressione con l’acido al suo ex.
La notte di sabato 15 agosto, nella clinica Mangiagalli di Milano, dove era stata portata dal carcere di San Vittore, ha partorito un bambino, figlio del suo nuovo compagno, anch’egli in carcere per lo stesso reato. Una volta dimessa avrebbe dovuto essere portata all’ICAM, la struttura per madri detenute con figli piccoli di Milano, come aveva disposto il pm incaricato delle indagini, decisione approvata dal gip e dal tribunale del riesame.
Ma subito dopo il parto il piccolo è stato immediatamente sottratto alla madre su istanza della pm Annamaria Fiorillo della Procura dei Minori di Milano che ha avviato l’iter per l’adottabilità del neonato.
Annamaria Fiorillo ha fatto esplicito riferimento nel suo ricorso alla perizia psichiatrica depositata alla nona sezione penale che ha condannato Martina Levato per l’aggressione. Gli psichiatri avevano escluso qualsiasi forma di incapacità di intendere e di volere, anche parziale e descrivevano Martina come una donna con una personalità a tratti “borderline”, sarebbe stata lei ad accollarsi il compito di agire e a lanciare l’acido. Inoltre, sempre il pm Fiorillo, dichiara che la separazione del bambino è stata necessaria affinché i giudici prendano decisioni in assenza di condizionamenti derivanti da aspettative da parte delle persone coinvolte e nell’unico interesse del minore. E, infatti, i giudici hanno deciso che Martina Levato può vedere il figlio una volta al giorno, per un’ora soltanto, sotto sorveglianza, non lo può allattare al seno e hanno aperto la procedura per l’adottabilità.
Giuseppe Magno, già direttore del Dipartimento sulla Giustizia minorile del ministero della Giustizia rincara la dose dichiarando che i due imputati, vale a dire la donna e l’attuale compagno, avrebbero dimostrato “mancanza di rispetto per il prossimo” e “non denotano un particolare equilibrio psico-affettivo” e che quindi “la prima cosa da fare è un’operazione chirurgica di distacco per limitare i danni al bambino”.
Questa è la vicenda scarna, ma gli scenari che apre sono estremamente inquietanti.
I principi di base del diritto borghese ci dicono che qualsiasi persona commetta un reato deve essere giudicata ed eventualmente condannata solo e soltanto per il reato che ha commesso. Invece, da diversi anni ormai, le donne in carcere subiscono troppo spesso la pena suppletiva di vedersi togliere i figli.
Il distacco della donna dal bambino è chiaramente una pena accessoria, del tutto gratuita che ricorda i supplizi medioevali quando un condannato o una condannata al carcere o alla pena di morte, era previsto che subissero torture e atroci tormenti perché dovevano soffrire e questo doveva essere di monito a tutti e tutte le altre/i.
Sulla stampa mainstream che si dichiara, bontà sua, di “sinistra”, sono apparse interviste a eminenti psichiatri che hanno dichiarato tra l’altro che una donna che ha sfregiato con l’acido il suo ex e covato la vendetta ed è stata condannata non può essere una buona madre e che non può allevare suo figlio…”di certo l’aggressività del suo gesto è un elemento di rischio verso il figlio. Un delitto pianificato. Una coppia diabolica. Con risvolti psichiatrici tutti da valutare. Difficile ritenere questa donna idonea a fare la madre”.
Il reato commesso da Martina Levato, che ci ricorda che, di solito, sono gli uomini ad usare questa violenza nei confronti delle donne, è di forte impatto sociale e, come succede spesso, viene utilizzato per veicolare principi di controllo e repressione e, comunque, aberranti.
Chi decide come e quando una madre detenuta è “degna” di prendersi cura del proprio figlio?
Ci vengono in mente subito le così dette “terroriste” o le donne di mafia o semplicemente le detenute in carcere per droga o le Rom che “portano i figli a mendicare”…..che cosa significa essere una personalità “borderline” o non avere un “equilibrio psico-affettivo”? e chi lo decide questo? Gli esperti del comportamento che la socialdemocrazia ha elevato ad ipse dixit o i servizi sociali che ormai hanno una connotazione poliziesca? E chi controlla i controllori?
E tutto questo non riguarda solo le madri detenute, ma tutte quelle che vengono giudicate fuori dalle righe, ai margini della legalità, non ligie alla scala di valori dominante. “Se non vi allontanate da quella casa io la bambina ve la allontano” ..”Trovati un lavoro se non vuoi stare da tuo suocero, altrimenti io la bambina la metto in affidamento” queste sono le parole con cui una funzionaria dei servizi sociali a Benevento si rivolge ad una madre che ha occupato una casa e così continua senza mezzi termini “Sei una mamma irresponsabile tu, se ti metti in mezzo a quella gentaglia “…” se arriva uno sgombero i bambini vi saranno tolti e affidati a una casa famiglia”.
Una madre NoTav ha scritto tempo fa una lettera aperta “Ciao a tutti, segnalo che stanno arrivando a casa convocazioni presso gli uffici di assistenza sociale, richiesti dalla Procura di Torino-Tribunale dei minorenni-per i ragazzi, minorenni appunto, che prendono parte a presidi, sit-in, volantinaggi, manifestazioni, attività NoTav, senza che ci sia una configurazione di un reato. Si tratta di ragazzini identificati dalle forze dell’ordine, mentre, pacificamente, manifestavano in Valle di Susa, a fine settembre. Non essendoci presenza di reato, perché la Procura “segnala” i ragazzini ai servizi sociali? Per vedere se il loro sano attivismo è sintomo di patologie o disagi familiari? Se hanno genitori violenti, oppressivi che li costringono a manifestare per i diritti civili e politici? Manifestare diviene sintomo di disagio per i rappresentanti della legge?…”
Questa è una società di stampo nazista perché lo Stato si arroga il diritto di giudicare e intervenire nei comportamenti personali assumendosi un ruolo etico ed è una società medioevale per il disprezzo totale che ha della vita dei “sudditi” al di là del buonismo di facciata e dell’attenzione pelosa, compulsiva e falsa ai diritti compresi quelli dei minori che avviene attraverso il “politicamente corretto” della socialdemocrazia e che maschera soltanto la pretesa di un serrato controllo sociale.
Speriamo che il figlio di Martina Levato, che si chiama Achille e mai nome fu più adatto per un bambino che si porterà sempre dietro il tallone scoperto di questa nascita, riescano ad adottarlo i genitori della madre o del padre, ma questo nulla toglie all’aberrazione del principio introdotto, alla violenza senza confini delle pene suppletive che vengono inflitte alle donne.

18/08/15

Lanciano: Arrestato poliziotto che violentava l’immigrata per i documenti

Ancora stupri di Stato, stupri da parte delle forze dell'ordine, protetti e assecondati dall'humus sessista e razzista di questo stato moderno fascisrta.
Alla violenza dei governi borghesi, che servono questo sistema capitalista e imperialista criminalizzando le immigrate e sfruttandole, anche sessualmente, la sola risposta è quella rivoluzionaria, è organizzare la lotta rivoluzionaria della maggioranza delle donne

Con le accuse di concussione e violenza sessuale, il gip di Lanciano, Massimo Canosa, ha disposto gli arresti domiciliari nei confronti di un agente di Polizia, responsabile dell’ufficio amministrativo che si occupa del rilascio dei permessi di soggiorno.
Il provvedimento cautelare è stato chiesto dal Pm, Anna Benigni, a conclusione delle indagini partite quattro mesi fa.
La vittima sarebbe una donna sudamericana di 40 anni che ha denunciato di essere stata costretta a fornire prestazioni sessuali al poliziotto in quanto ritardava costantemente la consegna del documento. I due episodi di abusi sarebbero avvenuti nei mesi di marzo e settembre 2013.
La Procura prosegue l’indagine per accertare se ci sono altri stranieri sottoposti ad altri episodi di pressione psicologica. Nel corso della conferenza stampa il procuratore Francesco Menditto ha detto “vittima vulnerabile nonostante avesse il diritto ad avere il permesso di soggiorno di cui aveva bisogno ma veniva ritardato il rilascio.
E’ una brutta ferita ma ribadisco la piena fiducia nei confronti della Polizia di Stato”.
L’indagine è stata condotta dalla Squadra mobile della Questura di Chieti diretta da Francesco Costantini e dagli agenti del Commissariato diretti dal dirigente Francesco Lagrasta.
I difensori del poliziotto sostengono che “è tutta una montatura, le accuse sono prive di ogni fondamento”.

17/08/15

Lo stato fascio/islamico di Erdogan ha paura delle combattenti curde e scatena tutta la sua barbarie

Il corpo di una guerrigliera torturato e messo in mostra

da UIKI, Ufficio d'Informazione del Kurdistan in Italia

E’ emerso ieri che le forze di sicurezza turche hanno torturato il corpo di una guerrigliera, Kevser Eltürk (nome di battaglia Ekin Wan).
Il corpo di Ekin è stato trascinato per le strade ed esposto nudo con foto condivise sui social media. Il 10 agosto, la guerriglia delle YJA STAR (Forze di difesa delle donne del PKK- Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ) Kevser Eltürk (Ekin Wan) è stata uccisa in uno scontro con le forze di sicurezza turche nel distretto di Varto, nella provincia di Muş in Turchia.

La fotografia di un corpo martoriato nudo, ha iniziato a circolare sui social media durante il fine settimana, a quanto pare in origine la foto è stata condivisa dalla polizia Varto. Hamiyet Şahin, il co-presidente provinciale del Partito Democratico delle Regioni (DBP) nella provincia di Van, provincia natale di Ekin,, ha aiutato a lavare il corpo di Ekin Wan per il suo funerale. Ha confermato che la donna nelle foto era Ekin Wan. “La persona la cui fotografia viene condivisa sui social media è la stessa guerrigliera donna il cui corpo abbiamo lavato”, ha detto Hamiyet. «L’ho riconosciuto dal proiettile nella ferita tra la sua natica e la sua gamba sinistra, era una ferita profonda.”
Hamiyet ha descritto i segni di tortura sul corpo di Ekin, tra cui una profonda ecchimosi sul collo e sulle gambe e la pelle lacerata. Aveva anche lividi provocati da una corda sul collo. “Probabilmente le hanno legato una corda intorno al collo per trascinarla da qualche parte lontano, per poi metterla in mostra”, ha detto Hamiyet.
Ha anche osservato che l’autopsia sembrava essere stata fatta in maniera distratta, con i punti gettati a caso, e che la persona che conduce l’autopsia potrebbe non aver prestato molta attenzione alla condizione del corpo di Ekin. Il governatore della provincia di Muş ha confermato in una dichiarazione indiretta che l’immagine condivisa sui social media raffigura Ekin.
Il governatore ha annunciato che la polizia che ha torturato e ha esposto il corpo non verrà indagata, bensì coloro che hanno condiviso le fotografie sui social media. La BBC turca ha riferito che i guerriglieri ieri hanno preso il controllo della città di Varto come rappresaglia per l’uccisione di Ekin e il trattamento riservato al suo corpo.
Il servizio della BBC, che si basava su fonti locali, ha dichiarato: “la gente armata in piedi di guardia in trincea ha affermato che questa azione era una rappresaglia per l’uccisione di una guerrigliera, uccisa pochi giorni fa da un team operativo speciale a Varto, e il cui corpo nudo è stato esposto dalla stampa. “

LE VIOLENZE SULLE DONNE NELLE SALE PARTO IN INDIA

la doppia violenza di genere e di classe è sempre più schifosa, in India le donne più povere subiscono violenze persino in sala parto. Le donne devono essere l'avanguardia delle masse proletarie in rivolta contro la doppia oppressione del capitale, la rivoluzione proletaria sarà la liberazione dallo sfruttamento e dalla schiavitù dal capitalismo.

Il governo indiano sta promuovendo i parti nelle cliniche ospedaliere per ridurre il tasso di mortalità materna, senza tener conto delle violenze da parte del personale
di Sabika Shah Povia
 
Tre donne in stato di gravidanza nella città di Anand, in India. Credit: Mansi Thapliyal
Nel villaggio di Santhal a Birbhum, distretto dell'India orientale, nessuno ha un certificato di nascita. Alle donne tribali non piace andare all'ospedale per partorire. Dicono che il personale le tratta male: “Noi trattiamo con molta più cura le nostre capre e i nostri bufali, rispetto a come loro trattano i pazienti”.
Sotto le pressioni della comunità internazionale, per raggiungere l'Obiettivo di sviluppo del Millennio di ridurre il tasso di mortalità materna a 109 morti per ogni 100.000 bambini nati vivi entro il 2015, il governo indiano sta cercando di istituzionalizzare il parto, ovvero renderlo obbligatorio in cliniche pubbliche o private ufficialmente riconosciute.
Infatti, si pensa che i decessi durante il parto siano principalmente dovuti alle scarse condizioni igieniche e all'assistenza prestata da persone che non hanno le competenze adeguate.
Eppure, le donne indiane non amano partorire in ospedali pubblici. Piuttosto rischiano la vita partorendo in casa.
La classe media e l'élite del Paese possono permettersi di andare in cliniche private, ma non la maggior parte delle donne indiane; quelle che si presentano negli ospedali pubblici appartengono di fatto alle classi sociali più basse. Forse è anche per questo che durante il ricovero e il parto vengono derise, insultate, offese e volte anche picchiate.
“Tutti i miei compagni del corso hanno preso a schiaffi le pazienti. È quasi un rito di passaggio,” ha raccontato a Quartz Romit, giovane medico di un'ospedale nella città di Calcutta. “Una volta c'era un ragazzo così timido che non perdeva mai la pazienza. Il giorno in cui ha dato il suo primo schiaffo a una paziente lo abbiamo costretto a offrirci la cena per festeggiare”.
Romit non riesce neanche a ricordare la prima volta che ha usato la violenza in sala parto.
Dal 2005, per istituzionalizzare il parto e allo stesso tempo contenere la crescita della popolazione, il governo indiano ha introdotto il Janani Suraksha Yojana (JSY), un programma secondo il quale chi accetta di partorire in ospedale riceve un compenso economico. Per ricevere il compenso dal terzo parto in poi, però, la donna deve acconsentire obbligatoriamente anche alla sterilizzazione.
Il governo indiano è stato criticato in quanto mette a punto programmi come il JSY e cerca di incoraggiare le donne a partorire negli ospedali, ma senza tener conto dell'atteggiamento del personale degli ospedali nei confronti delle pazienti. Le ispezioni commissionate dalla National Health Mission - iniziativa intrapresa dal governo indiano per migliorare le condizioni di salute della popolazione in aree rurali - infatti tengono in considerazione la qualità delle cure ospedaliere in termini di infrastrutture e pulizia, ma non giudicano il comportamento del personale.
I racconti dei maltrattamenti e gli abusi sono ancora troppo numerosi. 

11/08/15

L'esercito delle nuove schiave: la testimonianza delle braccianti, sfruttamento e condizioni disumane - le donne sfruttate devono ribellarsi e organizzarsi! MFPR

Due braccianti pugliesi raccontano la loro vita, tra campi e magazzini. 
(di Francesca Buonfiglioli)
In Puglia almeno 40 mila donne lavorano nell'ortofrutticolo.
Anna (il nome è di fantasia) ha 36 anni e due figlie. Lavora nei campi pugliesi da quando ne aveva 14. E ha un solo desiderio: non fare vedere mai alle sue bambine la campagna. Perché la campagna «è bruttissima».

«LE MIE FIGLIE SI MERITANO UNA VITA DIVERSA». Anna sa che il suo lavoro è la bracciante: dalle fragole di primavera all'uva di ottobre, passa la sua vita nei campi e nei magazzini, dove i prodotti sono stoccati.
«Ho sempre fatto questo, e questa resterà la mia vita», racconta a Lettera43.it. «Ma voglio un futuro diverso per le mie piccole perché non vivano quello che ho vissuto io, e non debbano seguirmi sui campi come mi ha costretto a fare mia madre».
E dire che lei si ritiene fortunata. «Molte mie colleghe sono sfruttate e si lamentano per i caporali», dice convinta.
Anna invece è dipendente di un'azienda, ha un contratto e guadagna 28 euro al giorno. Vero, la sua busta paga è più leggera di quella di un uomo, ma non si lamenta. Se non per il fatto che i suoi datori di lavoro, come spesso accade, dichiarano salari giornalieri più alti - 40, 41 euro - e meno giorni lavorati in modo da non incappare in qualche ispezione

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ISPEZIONATE SOLO IL 4,5% DELLE AZIENDE. Rischio che, in Puglia, è basso. Come ha spiegato Giuseppe Deleonardis, segretario regionale di Flai Cgil, nel 2014 i controlli sono stati 1.818 su 40 mila imprese. Nel 55% dei casi è stata denunciata una qualche inadempienza. E di questi l'80% era per lavoro nero.
«Ci svegliamo alle 2 di notte. La caporale passa con il bus alle 3»
Donne al lavoro nei campi.
Maria (altro nome di fantasia), invece, è meno «fortunata». Ha 44 anni, di cui più di 30 passati nei campi.
Le ore di lavoro «dipendono dalla giornata», spiega. Così come il luogo di lavoro che spesso viene comunicato la sera prima.
Si sveglia alle 2, 2 e mezza ogni mattina. Deve essere alla fermata del paese alle 3, quando la caporale la passa a prendere col bus. Vicino a lei siedono molte donne, soprattutto rumene. E qualche uomo.
«La scorsa settimana però», aggiunge, «siamo partite un'ora prima, alle 2 perché dovevamo andare a tagliare l'uva alle porte di Foggia».

IL TRASPORTO A CARICO DELLA LAVORATRICE. E con i chilometri, aumenta anche il prezzo del passaggio. Dai 5, 10 euro arrivano fino a 10, 15, detratti naturalmente dalla paga giornaliera di 36 euro circa.
Si lavora sodo, fino a 10 ore al giorno, contro le 6 e mezzo contrattuali. Di straordinari nemmeno l'ombra.
L'azienda per la quale lavora Maria non possiede terre, ma compra e raccoglie i prodotti. «Non sappiamo nemmeno chi ha il terreno», sorride amara.

IL RICATTO QUOTIDIANO. Lamentarsi, o solo chiedere chiarimenti su orari, contratti e buste paga non conviene: «La caporale trova il modo di punirti. Per esempio non ti fa lavorare per due, tre giorni di fila».
La regola in altre parole è non rompere le scatole e cercare di stare simpatica a chi comanda. Solo così, anche quando il lavoro diminuisce, hai garantito il turno. Altrimenti stai a casa. E addio paga.
Si vive quotidianamente sotto ricatto. Per questo «è quasi impossibile che una bracciante italiana denunci una caporale», precisa Maria, «la voce si spargerebbe in giro, e per lei non ci sarebbe più lavoro».
«Sotto i tendoni a 50 gradi senza acqua»
Molte delle donne sfruttate in Puglia sono rumene.
Chinate a raccogliere fragole o ad acinellare l'uva, le donne lavorano dalle 8 alle 10 ore. Perché dopo il campo, o sotto i tendoni dove la temperatura raggiunge facilmente i 50 gradi, ci si sposta nei magazzini dove si imballano i prodotti.

STRONCATE DALLA FATICA. «Se finisce l'acqua», spiega Maria, «nessuno te la dà. Non si beve e basta». In queste condizioni non stupisce che si muoia. Come è accaduto alla bracciante di San Giorgio Ionico, morta a Nardò il 13 luglio scorso, forse stroncata dalla fatica. Anche se le vere cause del decesso non si conosceranno mai, visto che non è stata chiesta l'autopsia (intanto salgono a tre i braccianti morti nel giro di pochi giorni in Puglia: oltre alla 49enne di Nardò e Mohammed, sudanese, un 52enne tunisino è deceduto martedì in un’azienda agricola di Polignano a Mare).
Finite le ore, si riprende il pullman: un'ora e mezzo, due di strada e si torna a casa. «Dove cerco di sbrigare le faccende domestiche, solo l'essenziale», dice ancora Maria, quasi giustificandosi.

LE MORTI DEGLI ANNI 80. Una vita dura, durissima. Che lei ha cominciato a fare a 11 anni. «Allora le condizioni erano anche peggiori, soprattutto per il trasporto. Negli Anni 80 molti braccianti sono morti in incidenti per arrivare sul posto di lavoro». Le cose sono poi migliorate, ma per poco.
«Adesso siamo tornati indietro. Nonostante le donne non siano più ignoranti come un tempo», aggiunge. «Le nostre mamme avevano una cultura limitata. Ora siamo istruite, molte di noi sonoi diplomate».

«ORA TRA NOI MANCA LA SOLIDARIETÀ». Eppure, paradossalmente, in passato si lottava di più. «C'era un maggiore senso del gruppo, più solidarietà. Adesso ognuna pensa a se stessa, a portare a casa la pagnotta. Se puniscono una di noi lasciandola a casa per due o tre giorni, le altre si voltano dall'altra parte».
La crisi, soprattutto al Sud, ha giocato un ruolo importante. Gli impietosi dati diffusi da Svimez parlano chiaro.

OCCUPAZIONE FEMMINILE AI MINIMI. A fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 64% nell’Europa a 28 in età 35-64 anni, il Mezzogiorno si ferma al 35,6%. Le percentuali sono più preoccupanti se si considerano le under 34: l'occupazione al Sud si ferma al 20,8% contro una media nazionale del 34% (il Settentrione segna un 42,3%) ed europea del 51%.  Per le donne del Sud non ci sono molte alternative. «Siamo costrette ad accettare quello che troviamo, anche a condizioni disumane».
«LO STATO SI È DIMENTICATO DI NOI». «Ci sentiamo abbandonate dallo Stato», mette in chiaro Maria con la voce ferma. «Ogni notte partono centinaia di bus dai paesi della Puglia, e ogni pomeriggio fanno rientro, proprio nell'ora della pennichella, quando tutti - carabinieri e polizia compresi - possono vederci. Ma nessuno alza un dito, nessuno fa qualcosa per fermare questa piaga. Siamo come dei fantasmi».
E si arrabbia anche quando sente il presidente del Consiglio Matteo Renzi accusare i meridionali di piangersi addosso.
«Che venisse a fare il mio lavoro», lo invita, «ma alle stesse condizioni. E anche solo per una settimana».