«Ramona era dislessica, non sapeva
neanche allacciarsi le scarpe da sola. Figuriamoci se era in grado di
annodare un lenzuolo per farne un cappio. E poi lei non aveva mai
manifestato l’intenzione di togliersi la vita: Ramona era una ragazza
orgogliosa. Non ci torna come ha fatto a fare tutto questo».
Dolore e rabbia, sospetto e voglia di verità: i Cortese da due giorni non si danno pace. La loro figlia, Ramona Cortese, è morta nella sezione femminile del carcere Don Bosco di Pisa, nel pomeriggio di venerdì 14 agosto.
Aveva compiuto 27 anni appena una settimana prima, il 7 agosto, da
sola nella sua cella. Suicidio per impiccagione con un lenzuolo alla
finestra, hanno comunicato alla famiglia. Ma la madre Manola, il padre
Mario e i fratelli, un maschio e una femmina, non ci credono: «Ramona
non si sarebbe mai uccisa».
La giovane era tornata in cella due settimane prima, il 31 luglio, a
seguito della sospensione dei domiciliari, scattati dopo un periodo di
detenzione iniziato il 16 aprile. Quel giorno Ramona era stata arrestata
e portata in carcere a seguito della denuncia per stalking e violenza
sessuale presentata dalla sua ex fidanzata.
I domiciliari li stava scontando a casa dei genitori, a Scarlino, in
località Biagioni, quando, in un momento d’ira, aveva aggredito la
madre, che aveva chiamato i carabinieri. Per lei, già nei guai con la
giustizia anche per possesso di droga, si erano di nuovo aperte le porte
del Don Bosco.
«Ma non era particolarmente preoccupata di tornare in cella – spiega l’avvocato Sabrina Pollini
– C’ho parlato il 3 agosto ed era tranquilla: era arrabbiata ma non
disperata. Il processo per droga era imminente e c’era la possibilità di
poter andare in una comunità. No, era tutto tranne che depressa: ha
sempre avuto, anche in passato, problemi con le guardie carcerarie e le
altre detenute. Era un tipo difficile da trattare».
Secondo l’avvocato, oltre allo stato d’animo, anche il fisico di
Ramona non le avrebbe mai permesso di mettere in atto un suicidio.
«Aveva problemi alle braccia, non era molto forte» spiega Pollini.
Ramona condivideva la cella con altre compagne. Ne stava fuori per le
otto ore di socialità previste e poi rientrava con le altre detenute.
Secondo la ricostruzione fatta dalle autorità carcerarie, la donna
avrebbe realizzato il cappio con il lenzuolo, lo avrebbe attaccato alla
finestra e si sarebbe uccisa in un momento in cui era rimasta sola. «Ma è
possibile – si chiede la famiglia – che nessuno abbia visto nulla? Che
nessuno si sia accorto di niente?».
A insospettire i Cortese sono state anche le modalità con cui è stata
comunicata la morte della ragazza. «Non si sono nemmeno degnati di
mandare una pattuglia a casa per dircelo a voce – spiega la famiglia –
ma ce lo hanno detto al telefono i carabinieri di Scarlino». Una
telefonata arrivata, tra l’altro, sul cellulare della madre,
cardiopatica.
La famiglia denuncia anche di avere avuto difficoltà a farsi dire le
modalità della morte dalle autorità carcerarie. «Un muro di gomma»,
spiega l’avvocato. E non solo. Allo strazio di aver ricevuto la notizia
della morte della loro figlia e sorella, i Cortese hanno dovuto
sopportare anche il supplizio di dover andare alla ricerca del corpo di
Ramona in tutta Pisa.
«Quando siamo arrivati al carcere Don Bosco – prosegue infatti la
famiglia – non hanno saputo dirci dove era la salma. Siamo dovuti andare
noi a cercarla. E ancora non l’abbiamo potuta vedere».
Ramona si trovava all’obitorio dell’ospedale Santa Chiara; la salma è
stata messa sotto sequestro e il procuratore reggente della Procura
della Repubblica di Pisa, Antonio Giaconi, ha disposto l’autopsia.
«L’avremmo chiesta noi – spiega l’avvocato Pollini – ma il pubblico
ministero l’ha disposta di sua iniziativa. Anche la polizia
penitenziaria ha aperto un’indagine interna e la polizia scientifica dei
carabinieri ha fatto i rilievi».
L’autopsia si terrà domani mattina alle 10 all’ospedale Santa Chiara e
sarà eseguita dal dottor Davide Forni, medico legale della Procura.
L’avvocato Pollini ha nominato il dottor Stefano Pierotti, medico legale
esterno alla struttura del Santa Chiara, come medico legale di parte.
«Ramona aveva solo voglia di uscire dal carcere per avere giustizia –
spiega la famiglia – Voleva che la verità venisse fuori, soprattutto
riguardo alle accuse di stalking e violenza sessuale, che erano del
tutto infondate».
Un’altra verità, ancora più importante, è però quella che adesso chiede la famiglia: la verità sulla morte della loro ragazza.
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