Considerate “eroine” nella prima fase della pandemia, le lavoratrici delle pulizie sono rapidamente cadute nel dimenticatoio. Dopo un anno e mezzo, la loro situazione economica non è migliorata, senza contare la stanchezza psicologica
“Mi sento abbastanza provata… È stato un anno in cui abbiamo retto tutto l’impianto della prevenzione, ovviamente sottopagate, e ora c’è stanchezza mentale.” Maria* lavora da 6 anni come addetta alle pulizie nel centro Italia. Come tanti e tante altre, è stata in prima linea di fronte alla pandemia di Covid-19.
“Per chi faceva pulizie nei cosiddetti settori essenziali, come nei supermercati, negli ospedali, il primo impatto è stato dirompente, perché mancavano i dispositivi di protezione individuali (DPI) e non era ben chiaro cosa il personale dovesse fare,” racconta Cinzia Bernardini, segretaria della Filcams CGIL Nazionale. Maria e le sue colleghe ne sono la prova. Durante le prime settimane, hanno dovuto procurarsi da sé le mascherine per sanificare una fabbrica di quasi 700m2. Maria ricorda anche di aver incontrato lavoratrici di un’altra azienda che lavoravano senza protezione. “Nessuno le aveva detto loro nulla… Le hanno lasciate lavorare così, è criminale!” A ciò si aggiungeva la paura del contagio, che le ha perseguitate finché a maggio non sono state vaccinate. “Non siamo state riconosciute come categoria prioritaria,” spiega Maria.
Alcune regioni, come la Toscana, l’hanno fatto, includendo gli addetti e le addette alle pulizie tra i prioritari. “Abbiamo dovuto lottare,” ricorda Cinzia Bernardini. Questo nonostante fosse uno dei settori che ha fatto registrare il numero più alto di contagi sul lavoro, come certificato dai report dell’Inail.
Nessun riconoscimento dopo la prima fase dell’emergenza
L’emergenza sanitaria non ha permesso al personale delle pulizie di uscire dal dimenticatoio. “Il nostro settore non è mai stato riconosciuto come uno di quelli che hanno fronteggiato l’emergenza,” dice Maria. Un’osservazione condivisa dalla sociologa Tania Toffanin. “Durante la prima fase pandemica le persone addette alle pulizie e il personale sanitario venivano rappresentati come angeli ed eroine, però non c’è mai stato riconoscimento del lavoro di cura. Il tempo che la pandemia passi e tutti si dimenticheranno del loro ruolo.”
La richiesta di riconoscimento è innanzitutto economica. In un settore dove il contratto di lavoro medio ammonta a 15 ore settimanali pagate intorno ai 6,5€ lordi l’ora “non servono le medaglie,” ironizza Maria.
Dunque, gli addetti e le addette alle pulizie hanno alzato la voce. Nei mesi di ottobre e novembre 2020 hanno organizzato scioperi e manifestazioni, per chiedere migliori condizioni di lavoro. “Abbiamo creduto che le cose potessero cambiare. C’era un periodo in cui veramente si poteva far saltare il sistema,” racconta Maria. Al centro delle loro rivendicazioni, c’era il rinnovo del contratto nazionale, scaduto da ben 8 anni. Ora le trattative sono in corso, il contratto sta per essere rinnovato. “Aspettiamo di vedere in che termini,” dice la lavoratrice.
Il sistema di cui parla Maria è segnato da una profonda precarietà economica, che risale a prima della pandemia. In questo settore il tema degli appalti è centrale: la maggioranza degli addetti lavora part-time, per poche ore, perché i committenti richiedono una certa flessibilità, spiega Cinzia Bernardini. “Ogni cambio di appalto è un problema. Anche durante la pandemia ce ne sono stati per alcuni settori in cui si utilizza lo smart working, con il risultato di aver tagliato le ore contrattuali,” continua la sindacalista.
Qualche chilometro più a nord, vicino a Bologna, Cherry* parla senza mezzi termini di ingiustizia. “Sono 23 anni che vivo una vita da schiava.” Dall’altro lato del telefono, ci racconta: “Con il Covid la situazione è peggiorata. Ci chiedono di pulire spazi più ampi ma con le stesse ore e una paga bassissima.”
Cherry è arrivata in Italia nel 1998 dalla Nigeria. Aveva 22 anni. Per Cherry è molto difficile raccontare i suoi primi anni in Italia. “Ho subito tanta violenza come le altre donne che sono state portate qua dal mio paese.” Dopo un paio d’anni, finalmente ha trovato un lavoro come badante. “Mi pagavano poco però volevo lavorare in un luogo sicuro.” Da questo momento, ha sempre lavorato e oggi si occupa di pulire principalmente ristoranti. Il suo contratto è di 15 ore settimanali per un reddito inferiore a 500 € al mese. Uno stipendio da fame. “Non riesco ad arrivare alla fine del mese.” Nonostante ciò, Cherry deve pagare le bollette, l’abbonamento annuale ai mezzi pubblici… Quando le scuole sono state chiuse, ha dovuto pagare anche la babysitter per suo figlio di 9 anni mentre lei lavorava. Con uno stipendio che spesso non va oltre poche centinaia di euro “è complicato condurre una vita dignitosa. C’è anche un problema di prospettiva perché vuol dire una pensione ancora più bassa,” dice Cinzia Bernardini.
“Sono 23 anni che vivo una vita da schiava. Con il Covid la situazione è peggiorata. Ci chiedono di pulire spazi più ampi ma con le stesse ore e una paga bassissima”
Allo stesso modo, a causa del loro basso reddito, i lavoratori e lavoratrici le cui attività sono state interrotte non hanno potuto beneficiare di una protezione sociale sufficiente. “Nel 2020 ho lavorato di più, guadagnavo 600 € al mese. Però a marzo 2021, la fabbrica è stata chiusa. Sono andata in cassa integrazione con 200 € al mese,” racconta Maria.
È un problema ancora d’attualità nei settori dove viene utilizzato lo smart working: essendo chiusi gli uffici, le addette e gli addetti alle pulizie dipendono ancora dagli ammortizzatori sociali. “Se lo smart working diventa strutturale sarà un problema per il settore,” afferma Bernardini.
Per le persone migranti la situazione è ancora più difficile
Un’altra categoria del personale delle pulizie che ha sofferto maggiormente l’emergenza è quella delle donne e uomini migranti. Per poter chiedere il permesso di soggiorno, infatti, devono dimostrare di avere un reddito annuale di quasi 6.000 €. “Se, in circostanze normali, la soglia è già troppo alta, con la pandemia è ancora più difficile. Alcune persone non hanno lavorato o non lavorano da mesi,” dice Orkide Izci, dell’assemblea donne del Coordinamento migranti a Bologna. Secondo lei, “il fatto che il permesso di soggiorno sia legato al lavoro rende le persone migranti più sfruttabili e ricattabili.” Cherry l’ha vissuto sulla propria pelle. “La mia attuale azienda assume tanti stranieri perché sa che abbiamo bisogno di lavorare per i nostri documenti e quindi la maggior parte non si ribella.” Da qualche anno Cherry ha deciso di non stare zitta e di alzare la voce di fronte ai superiori. “Me lo fanno pagare. Devo lavorare tutti i sabati e le domeniche, rifiutano di farmi fare ore aggiuntive… Stanno facendo di tutto per farmi licenziare”.
Secondo la sociologa Tania Toffanin, è proprio la composizione di questo settore che spiega l’invisibilizzazione di lavoratori e lavoratrici. Infatti, anche se è difficile avere cifre esatte sul genere e l’origine del personale, un’indagine europea stima che il settore delle pulizie in Italia sia composto per il 70% da donne e specifica che la quota di lavoratori migranti è particolarmente elevata.
Pertanto, il settore della pulizia intreccia tre elementi: l’invisibilità del lavoro di cura, la presenza di donne e la forza lavorativa straniera. “Nell’ambito di una cultura patriarcale, come quella del nostro paese, tutto ciò che non ha a che fare con la performance, ma con la cura degli altri è percepito come naturale e quindi viene maltrattato in termini retributivi,” spiega la sociologa. Una dinamica rafforzata quando il lavoro è svolto da donne e persone senza cittadinanza. “Proprio perché è fatto da donne spesso non italiane è considerato come scontato, in piena continuità con la rappresentazione del femminile che si prende cura degli altri.”
Le lavoratrici sono anche spesso vittime di sessismo sul posto di lavoro. “Non c’è un giorno senza un commento sessista. In più, dobbiamo subire mansplaining, ci spiegano come fare il nostro lavoro, come se fossimo ignoranti,” spiega Maria. Il primo anno, ha anche denunciato un superiore per aver fatto commenti sessisti e lesbofobici. “Però non è servito a nulla. All’epoca non eravamo neanche sindacalizzate.” Oggi lei e le sue colleghe si sono organizzate. Hanno creato un gruppo Telegram per poter intervenire quando una si trova in difficoltà sul posto di lavoro. “Abbiamo creato un linguaggio in codice: quando una di noi è in difficoltà, basta che scriva la parola chiave e andiamo da lei. Per esempio, una aveva uno stalker, quindi non la lasciamo mai tornare a casa da sola.”
Un settore da ripensare
Se l’emergenza non ha portato all’esplosione del sistema, il settore ha comunque bisogno di essere profondamente ripensato. La sindacalista Cinzia Bernardini spiega: “Il Pnrr fornisce una serie di risorse importantissime e molte di queste verranno utilizzate attraverso gli appalti. Deve essere l’occasione per rafforzare le norme: come si svolgono gli appalti? Come si controllano? A chi si affidano? Con quali tutele per le lavoratrici? Agire, tutelare, sostenere economicamente questo settore significa aiutare la parte più debole del paese.”
Per la sociologa Toffanin si pone anche la questione della qualità del lavoro. “Come si definisce un lavoro dignitoso nel 2021? Io credo che ci sia una riflessione enorme da fare.”
A dare una possibile risposta, ci pensa l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Ciò che l’OIL chiama “lavoro dignitoso” è stato indicato tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU. Un lavoro è considerato “dignitoso” quando è adeguatamente remunerato, quando garantisce la sicurezza sul luogo di lavoro e la protezione sociale per le famiglie, e quando offre prospettive personali e sociali a chi lo svolge.
La testimonianza di Cherry ci fa capire che c’è ancora una lunga strada da percorrere. “Ho sempre lavorato, ho sempre avuto la voglia di lavorare. Però i contratti che mi impongono non mi permettono di fare nulla! Non posso andare avanti, sono condannata a rimanere povera.”
*Nomi di fantasia