'Lo Stato incoraggia la violenza'
di Chiara Baldi e Paola Bacchiddu
"Bisognerebbe
fermare i persecutori, aiutare chi ha il coraggio di raccontare,
lavorare sulla prevenzione degli abusi: ma tutto questo non avviene".
La denuncia di Angela Romanin, vice direttrice della Casa delle Donne
di Bologna, l'unica associazione che in Italia che monitora
costantemente la violenza di genere
(29 luglio 2013)
Uno
Stato che incoraggia la violenza sulle donne e una società che
colpevolizza le vittime addossando loro la responsabilità degli abusi
subiti. E' questo il quadro che Angela Romanin, formatrice e vice
direttrice della Casa delle Donne di Bologna, l'unica associazione che
in Italia monitora costantemente la violenza di genere fornendo dati che
nemmeno l'Istat fornisce (l'ultima indagine dell'istituto di statistica
risale al 2006, la prossima sarà nel 2014), fa all'Espresso dopo il
caso Millacci-Di Cataldo, sulla cui veridicità stanno indagando gli
inquirenti.
«Lo Stato italiano incoraggia la violenza contro le donne, facendo in modo che essa si perpetui», accusa Romanin. Sì perché, spiega, «se lo Stato non aiuta le donne che denunciano gli abusi, se non ferma i persecutori, se non previene la violenza, se non fa tutto questo, allora vuol dire che incoraggia la violenza e infatti si parla di sostegno ai maltrattanti piuttosto che alle maltrattate». «Un terzo delle donne adulte italiane subisce violenza da parte di un uomo che, nella maggior parte dei casi, è il partner o ex partner. Poi ci sono gli abusi da parenti e amici e solo per ultima, e in percentuale molto minore, c'è la violenza subita da parte di sconosciuti», ricorda Romanin: un dato che smentisce molta della propaganda politica di questi anni contro gli immigrati che "stuprano le nostre donne".
In Italia sono solo 100 i centri antiviolenza sparsi sul territorio, di cui una sessantina fanno parte della rete D.I.re (donne in rete contro la violenza) che fa capo alla Casa delle Donne di Bologna. «Ci sono dei luoghi completamente sguarniti come ad esempio il Molise», denuncia Romanin, che spiega: «l'isolamento geografico di alcune zone, insieme ad una bassa densità di popolazione e ad una mancanza di centri antiviolenza, condizionano negativamente la donna che deve chiedere aiuto e che, materialmente, non saprà a chi rivolgersi: in caso di abusi, non avrà modo di denunciare nulla».
A tutto ciò, dice la vice presidente della Casa delle Donne, si unisce un fortissimo gap nella formazione degli operatori: «la cosa più importante è che chi riceve queste ragazze sia formato, e cioè sappia identificare bene la violenza, sappia valutare il rischio e, infine, gestirlo attuando un buon piano di protezione.
Queste tre operazioni - continua Romanin - rientrano in un modello di valutazione del rischio che viene usato in tutti i centri antiviolenza e che deve necessariamente essere fatto ma che, a causa della mancata formazione, o di una formazione incompleta e inadeguata, raramente si fa». L'esempio più classico è quello dell'ordine di protezione (legge 154 del 2001), che stabilisce l'allontanamento dal domicilio del partner maltrattante con la possibilità di vietarne l'avvicinamento anche ai luoghi frequentati maggiormente dalla donna: «abbiamo impiegato 10 anni per avere questo strumento, eppure sappiamo che è applicato a macchia di leopardo: a Bologna, ad esempio, lo si usa molto, mentre da alcune parti neanche esiste, sebbene sia uno strumento legislativo che non richiede nessuna risorsa economica, dato che è previsto dalla legge italiana». Perché? «Perché non lo si conosce: avvocati e Tribunale spesso lo ignorano e non ne chiedono l'applicazione», spiega. «Questa legge, abbiamo scoperto, viene applicata soprattutto dove ci sono centri antiviolenza forti in cui gli avvocati, molto spesso donne, sono esperte e perciò ne chiedono l'applicazione ed esercitano una pressione affinché la si usi».
«Non avremmo neanche bisogno di una legge sul femminicidio: la nostra legislazione andrebbe benissimo già così com'è - dice - basterebbe applicarla anche ai diritti delle donne. Il problema però è che non lo si fa, ed ecco che allora chi denuncia gli abusi rimane sempre più spesso sola. Sono rari i casi in cui si va a processo per aver commesso violenza contro una donna e molto spesso il tempo è lunghissimo: 5, 6, 7 anni che sono tantissimi se si pensa all'inferno che si vive mentre si aspetta il processo». Ma c'è un punto nodale ed importantissimo in questo vortice di violenze e silenzio ed è quello che riguarda la responsabilità: le donne, in Italia, diventano colpevoli delle violenze che subiscono. «E' un atteggiamento molto comune», conferma Romanin. «Se si continua a colpevolizzare la vittima, le donne non chiederanno mai più aiuto: l'Istat dice che il 30% di coloro che subiscono violenze fisiche o sessuali non ne parla con nessuno. E' un dato allarmante, ancora di più se considerato nell'ottica che, una volta uscita dal silenzio e trovate le forze di denunciare, la donna si sente dire che è colpa sua. E' un tentativo preciso, questo, di responsabilizzare la vittima invece che l'autore». Un'idea assolutamente individualistica di società, in cui viene meno il senso di responsabilità comune per farne emergere quella, tutta personale, di trovarsi in una condizione dolorosa a causa propria: «dobbiamo convincerci che le donne non possono fare niente affinché cessi la violenza del partner, possono solo proteggersi ma non è che sta a loro fare in modo che il compagno smetta di picchiarle. Ognuno ha la responsabilità di se stesso», chiarisce Romanin. «Da noi arrivano donne che si sentono in colpa per le botte che hanno preso perché il meccanismo della vittimizzazione è quello che sottiene al pensiero: "sei una cattiva madre/moglie/amante, non sei brava a letto, sei una puttana, mi provochi, mi fai ingelosire, dai più credito ai tuoi genitori che a me, mi umili, guadagni tanto/poco" e via dicendo». Uno schema perfettamente integrato in una società con un fortissimo retaggio cattolico e in cui l'impostazione patriarcale della famiglia vede la donna come unica responsabile dei fallimenti non solo suoi ma anche dei figli, dell'unione marito-moglie e di tutto quanto graviti nella sfera familiare
«Lo Stato italiano incoraggia la violenza contro le donne, facendo in modo che essa si perpetui», accusa Romanin. Sì perché, spiega, «se lo Stato non aiuta le donne che denunciano gli abusi, se non ferma i persecutori, se non previene la violenza, se non fa tutto questo, allora vuol dire che incoraggia la violenza e infatti si parla di sostegno ai maltrattanti piuttosto che alle maltrattate». «Un terzo delle donne adulte italiane subisce violenza da parte di un uomo che, nella maggior parte dei casi, è il partner o ex partner. Poi ci sono gli abusi da parenti e amici e solo per ultima, e in percentuale molto minore, c'è la violenza subita da parte di sconosciuti», ricorda Romanin: un dato che smentisce molta della propaganda politica di questi anni contro gli immigrati che "stuprano le nostre donne".
In Italia sono solo 100 i centri antiviolenza sparsi sul territorio, di cui una sessantina fanno parte della rete D.I.re (donne in rete contro la violenza) che fa capo alla Casa delle Donne di Bologna. «Ci sono dei luoghi completamente sguarniti come ad esempio il Molise», denuncia Romanin, che spiega: «l'isolamento geografico di alcune zone, insieme ad una bassa densità di popolazione e ad una mancanza di centri antiviolenza, condizionano negativamente la donna che deve chiedere aiuto e che, materialmente, non saprà a chi rivolgersi: in caso di abusi, non avrà modo di denunciare nulla».
A tutto ciò, dice la vice presidente della Casa delle Donne, si unisce un fortissimo gap nella formazione degli operatori: «la cosa più importante è che chi riceve queste ragazze sia formato, e cioè sappia identificare bene la violenza, sappia valutare il rischio e, infine, gestirlo attuando un buon piano di protezione.
Queste tre operazioni - continua Romanin - rientrano in un modello di valutazione del rischio che viene usato in tutti i centri antiviolenza e che deve necessariamente essere fatto ma che, a causa della mancata formazione, o di una formazione incompleta e inadeguata, raramente si fa». L'esempio più classico è quello dell'ordine di protezione (legge 154 del 2001), che stabilisce l'allontanamento dal domicilio del partner maltrattante con la possibilità di vietarne l'avvicinamento anche ai luoghi frequentati maggiormente dalla donna: «abbiamo impiegato 10 anni per avere questo strumento, eppure sappiamo che è applicato a macchia di leopardo: a Bologna, ad esempio, lo si usa molto, mentre da alcune parti neanche esiste, sebbene sia uno strumento legislativo che non richiede nessuna risorsa economica, dato che è previsto dalla legge italiana». Perché? «Perché non lo si conosce: avvocati e Tribunale spesso lo ignorano e non ne chiedono l'applicazione», spiega. «Questa legge, abbiamo scoperto, viene applicata soprattutto dove ci sono centri antiviolenza forti in cui gli avvocati, molto spesso donne, sono esperte e perciò ne chiedono l'applicazione ed esercitano una pressione affinché la si usi».
«Non avremmo neanche bisogno di una legge sul femminicidio: la nostra legislazione andrebbe benissimo già così com'è - dice - basterebbe applicarla anche ai diritti delle donne. Il problema però è che non lo si fa, ed ecco che allora chi denuncia gli abusi rimane sempre più spesso sola. Sono rari i casi in cui si va a processo per aver commesso violenza contro una donna e molto spesso il tempo è lunghissimo: 5, 6, 7 anni che sono tantissimi se si pensa all'inferno che si vive mentre si aspetta il processo». Ma c'è un punto nodale ed importantissimo in questo vortice di violenze e silenzio ed è quello che riguarda la responsabilità: le donne, in Italia, diventano colpevoli delle violenze che subiscono. «E' un atteggiamento molto comune», conferma Romanin. «Se si continua a colpevolizzare la vittima, le donne non chiederanno mai più aiuto: l'Istat dice che il 30% di coloro che subiscono violenze fisiche o sessuali non ne parla con nessuno. E' un dato allarmante, ancora di più se considerato nell'ottica che, una volta uscita dal silenzio e trovate le forze di denunciare, la donna si sente dire che è colpa sua. E' un tentativo preciso, questo, di responsabilizzare la vittima invece che l'autore». Un'idea assolutamente individualistica di società, in cui viene meno il senso di responsabilità comune per farne emergere quella, tutta personale, di trovarsi in una condizione dolorosa a causa propria: «dobbiamo convincerci che le donne non possono fare niente affinché cessi la violenza del partner, possono solo proteggersi ma non è che sta a loro fare in modo che il compagno smetta di picchiarle. Ognuno ha la responsabilità di se stesso», chiarisce Romanin. «Da noi arrivano donne che si sentono in colpa per le botte che hanno preso perché il meccanismo della vittimizzazione è quello che sottiene al pensiero: "sei una cattiva madre/moglie/amante, non sei brava a letto, sei una puttana, mi provochi, mi fai ingelosire, dai più credito ai tuoi genitori che a me, mi umili, guadagni tanto/poco" e via dicendo». Uno schema perfettamente integrato in una società con un fortissimo retaggio cattolico e in cui l'impostazione patriarcale della famiglia vede la donna come unica responsabile dei fallimenti non solo suoi ma anche dei figli, dell'unione marito-moglie e di tutto quanto graviti nella sfera familiare
Questa
è l'Italia per le donne del Terzo Millennio. Un Paese in cui, dopo le
dimissioni del Ministro alle pari oppurtunità Josefa Idem, non si è
neanche pensato di nominarne un altro (la delega è passata a Maria
Cecilia Guerra ma in qualità di viceministro): «non abbiamo neanche un
interlocutore con cui confrontarci» dice con sconforto Romanin. «Serve
autorevolezza per affrontare questo tema e al Governo chiediamo
l'attuazione immediata di un piano di antiviolenza nazionale: quello
dell'ex ministro Carfagna potrebbe già andare abbastanza bene, ma deve
essere migliorato in parte e soprattutto deve essere attuato, visto che è
rimasto lettera morta: serve un'azione coordinata ed efficace per
affrontare il tema su più fronti. In tutta Europa sono presenti i centri
antiviolenza e questo abbatte il costo sociale della violenza:
finanziarli è il modo più economico per combattere questo fenomeno e non
farlo è sintomo di uno Stato miope, che non vuole risolvere il
problemafamiliare.