31/07/17

Donne algerine in bikini per la libertà di scelta


Algeria. L'idea nata da un gruppo su Facebook, oltre 3mila le iscritte: chiedono di poter decidere per sé come vestirsi. Intanto a fronte di una società meno laica di prima, l’Islam politico si unisce sotto un unico partito

Algeria. Il bikini come simbolo di rivolta

di Stefano Mauro

«Andare in spiaggia d’estate può diventare un calvario se si è algerine» così comincia la sua intervista Leila – nome fittizio per non essere molestata – al quotidiano algerino Le Provincial. Dal 5 Luglio, due volte alla settimana, decine di donne di Annaba, città balneare algerina, organizzano “uscite collettive in spiaggia”. Obiettivo: poter andare al mare con costumi interi o in bikini, senza incorrere nelle minacce o nelle molestie maschili, per far riappropriare le donne di uno “spazio pubblico”.

Tutto è cominciato per merito di Leila con la creazione di un gruppo, tenuto segreto per evitare minacce e ritorsioni, su Facebook: si è passati in meno di un mese da 50 ad oltre 3600 iscritte. Il gruppo, dopo l’unica intervista rilasciata al quotidiano algerino, sta raccogliendo migliaia di adesioni di sostegno sui social anche in paesi europei come Francia e Belgio.

«Da noi andare in bikini in mezzo a decine di maschi» – continua Leila – «può essere molto spiacevole, come può esserlo in alcuni locali o nelle strade….insieme, invece, ci sentiamo molto più sicure». Il malessere delle algerine riguarda soprattutto l’islamizzazione dei costumi o la contaminazione di usanze – come i burkini – che provengono dai paesi del Golfo. Il movimento è per la libertà di scelta della donna anche se, ammettono le iscritte, è più facile “che una donna in bikini difenda il diritto di indossare il burkini, piuttosto che avvenga il contrario”.

La discussione, sui social, rimane molto accesa. Tutte le donne iscritte non hanno paura delle minacce e sono decise a continuare perché per loro “la cultura arabo-musulmana non deve essere un pretesto per limitare la libertà di donne emancipate che studiano, viaggiano e lavorano”.

L’islamizzazione della società algerina, invece, ha causato in questi anni una progressiva nascita di movimenti per la “moralizzazione dei costumi ”. Eccessi che hanno portato, durante le ultime elezioni legislative di maggio 2017, alla cancellazione dei volti delle donne dai manifesti elettorali.

pubblicato su ilmanifesto.it

La legge Minniti colpisce le trans: “Noi perseguitate come ai tempi del Fascismo”

“Sono venute delle auto della polizia – racconta Roberta – In quel momento io e la mia amica stavamo solo parlando tra noi. Ci hanno denunciate, identificate, io ora non posso girare per strada, ma questo è il quartiere dove abito. Ci sentiamo perseguitate come all’epoca fascista”. 

Roberta e Lucia sono due ragazze transessuali e sono state colpite da un Daspo urbano, a Napoli. Nella vita, è capitato che si prostituissero, ma in quel momento – raccontano- stavano chiacchierando tra loro a un angolo di strada, nei pressi della stazione. E infatti nel provvedimento è scritto che stazionavano nei pressi di una fermata dell'autobus, nel tentativo di adescare clienti. Ma clienti non ce n'erano. C'erano solo loro due che, spiegano ancora spaventate, stavano parlando come tante altre persone, intorno alle 11.30 del mattino. Ma sono state prelevate dalla polizia, portate in questura, identificate, denunciate. A loro è stata comminata anche una multa di 100 euro. È la legge Minniti, che prevede tra le altre cose “ordinanze di allontanamento per contrastare il degrado urbano”.
È quello che è successo alle due ragazze: “Sono venute delle auto della polizia – racconta Roberta – In quel momento io e la mia amica stavamo solo parlando tra noi. Ci hanno denunciate, identificate, io ora non posso girare per strada, ma questo è il quartiere dove abito”. Poi scoppia in lacrime: “Ora ho paura di uscire per fare la spesa o prendere un caffè, ho paura che possano fermarmi e dire che faccio la prostituta. Sto piangendo da due giorni, mi sono chiusa in me stessa. Ma perché non possiamo vivere come tutti gli altri? Se fossimo state due donne, o due uomini che chiacchieravano, non saremmo state prese”. Poi i singhiozzi di Roberta, che a trent'anni ogni tanto è costretta a prostituirsi perché confessa di non trovare lavoro e voler portare a termine la transizione, si fanno più intensi e dice una cosa drammatica, spinta forse da uno stato emotivo di prostrazione rispetto alla incresciosa vicenda: “Mi vorrei suicidare, non so come andare avanti avendo paura di tutto, con questa legge non si vive. Io non stavo facendo del male a nessuno”
Come lei, anche Lucia, più o meno trentenne, che rincara la dose: “Non posso uscire per fare la spesa, prendere un caffè? Io non mi stavo prostituendo, stavo chiacchierando. Niente altro. Voglio vivere civilmente come tutti, ho diritto di vivere e muovermi liberamente come tutti. Ci sentiamo perseguitate come all'epoca fascista”. Poi c'è Bruna, una donna trans che è stata portata in questura e identificata mentre, racconta, era al bar. “Mi hanno identificata i vigili urbani, ero seduta al bar, non stavo facendo nulla, mi hanno portata al comando, ma perché tra tante persone hanno portato via proprio me? Qui a Piazza Garibaldi succede di tutto: droga, furti, rapine, probabilmente mi hanno portata via a causa di pregiudizi”.
"Si devono vergognare": è lapidario il commento di Loredana Rossi, dell'associazione transessuale di Napoli: “Siamo ritornati indietro di 40 anni, quando le trans non potevano nemmeno camminare per strada. Questo governo, questo Partito democratico, questo ministro Minniti hanno prodotto una legge fascista. Nemmeno la destra più estrema avrebbe fatto una legge del genere, avete tolto la libertà a dei cittadini italiani. Vergognatevi”.

29/07/17

IL SENSO DELLA CAMPAGNA PER NADIA LIOCE - intensificarla ed estenderla nella chiarezza

Arrivata, finora, a oltre 1000 firme la sottoscrizione dell'appello per Nadia Lioce:

"PER LA DIFESA DELLE CONDIZIONI DI VITA DELLE PRIGIONIERE POLITICHE
NO AL 41bis PER NADIA LIOCE"

Questo è  soprattutto il risultato della lunga campagna specifica, assunta e lanciata da oltre un anno dalle compagne del Mfpr, che ha contribuito a "tirare fuori" dal silenzio la condizione di Nadia Lioce.
Questa campagna difende l'identità e la dignità rivoluzionaria delle prigioniere politiche, fa conoscere la loro storia contro uno Stato del capitale che le vuole "sepolte vive" non solo fisicamente ma anche e soprattutto politicamente.
L'accanimento dello Stato borghese contro Nadia Lioce doveva e deve essere denunciato ai proletari e alle masse popolari, puntando a una mobilitazione larga.
Questa campagna ha sempre voluto e puntato al fatto che le prigioniere politiche rivoluzionarie  siano parte attiva in questa battaglia.
Questa campagna è parte del NO al 41bis per i prigionieri politici.


Noi su questo ci differenziamo da coloro che non fanno distinzione, da destra o da sinistra, tra prigionieri rivoluzionari, capi mafiosi e nazi-mafia, rinunciando a denunciare una (in)giustizia nettamente di classe e politicamente schierata (vedi ultima decisione su Carminati, il neofascista malavitoso, a capo della Banda della Magliana e di Mafia Capitale).
Giornata dell'eroismo - 19 giugno 2015

Naturalmente anche la campagna per Nadia Lioce dice quello che è e fa quello che è giusto, e non fa di questa compagna il "simbolo" di una "vera lotta rivoluzionaria", perché la lotta rivoluzionaria, per avanzare, deve essere patrimonio di tutto il proletariato, deve essere guerra di popolo.
 
La nostra linea è quella espressa nella celebrazione del 20° anniversario del mfpr, dove abbiamo detto: "...queste nostre compagne, al di là di impostazioni, scelte, concezioni, strategie diverse e alla fine perdenti perchè non basate sulla mobilitazione delle masse nella guerra di popolo contro questo sistema capitalista, hanno avuto il merito di riaffermare, dopo gli anni della Resistenza, contro una visione delle donne “pacifiche e non violente”, la necessità della lotta rivoluzionaria in cui le donne siano in prima fila, per mettere fine all'unica vera violenza, quella reazionaria dello Stato borghese, fascista e maschilista...".

Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario
luglio 2017

Livorno. Comandante dei carabinieri garantiva lavoro in cambio sesso

 
Ennesimo disgustoso caso di abusi in divisa nell’arma dei carabinieri. Questo volta siamo a Livorno dove un comandante ha per anni approfittato della sua funzione per abusare di alcune lavoratrici.
La dinamica è andata avanti nel silenzio più totale sempre secondo lo stesso schema. Il comandante prometteva a donne disoccupate o in situazione di difficoltà economica un posto di lavoro in cambio di rapporti sessuali, poi faceva pressione su alcuni esercenti perché le vittime fossero effettivamente assunte minacciando controlli più approfonditi in caso di rifiuto. A quanto riferito dalle vittime, la pratica andava avanti da diverso tempo. Federico Dati, questo il nome del carabiniere, era allora a capo nucleo dell’arma che affianca l’ispettorato del lavoro della città Toscana. Insomma il direttore di un’unità che dovrebbe essere garante dei diritti di tutte le lavoratrici e i lavoratori usava il suo potere per approfittare di donne in situazione precarie avanzando pretese e minacce o facendo intravedere la possibilità di migliorare la propria situazione.
Nonostante le testimonianze delle donne, Dati è indagato dalla procura soltanto per concussione. Da notare che per ora non è stato neanche sospeso dall’arma ma, come ben spesso succede nei rari casi in cui saltano fuori abusi delle forze dell’ordine, soltanto trasferito in una caserma fuori da Livorno. Continuando così molto probabilmente a percepire stipendio pieno a casa sua, dove si trova ora agli arresti domiciliari.

Quelle donne morte per «correre» al lavoro

Laura era sempre di fretta. Con due bambini (e un marito) da gestire arrivava spesso in ritardo al lavoro e il capoufficio non perdeva l’occasione di farglielo notare. Laura, però, non aveva alternative, perché non aveva nessuno che accompagnasse i figli a scuola o che andasse a riprenderli. Era tutto sulle sue spalle. Fino a quel maledetto semaforo rosso che ha cercato di bruciare per non fare tardi ancora una volta. Che, per lei, è stata anche l’ultima.
A quell’incrocio Laura è morta. La protagonista di questa storia è inventata, ma il fatto è, purtroppo, accaduto veramente in tante delle nostre città. Secondo il Primo Rapporto Anmil su Salute e sicurezza sul lavoro, nel primo trimestre di quest’anno sono morte trenta lavoratrici, il doppio rispetto al periodo gennaio-marzo del 2016. Il “cento per cento” in più provocato, soprattutto, da incidenti stradali, i cosiddetti infortuni “in itinere” lungo il tragitto casa- lavoro, dal 2000 equiparati agli infortuni sul lavoro veri e propri.
«Mentre per gli uomini l’infortunio in itinere “pesa” per il 15-20% dei casi – spiega Franco D’Amico, curatore del Rapporto Anmil – per le donne si arriva al 60% e oltre. Generalmente, questi incidenti mortali si verificano tra le 8 e le 9 della mattina». Quando, cioè, le donne, dopo aver accompagnato a scuola i figli e, magari, rigovernato la casa, possono, finalmente precipitarsi al lavoro.
Quello retribuito, visto che, secondo Eurofound, ne svolgono un altro, totalmente gratuito, che arriva a superare di ben 16 ore alla settimana quello degli uomini. Senza considerare che, rileva sempre il Rapporto Anmil, le donne svolgono generalmente “lavori atipici caratterizzati da particolare precarietà” e quindi maggiormente esposti al rischio di infortunio. Quando poi in una casa, oltre a figli piccoli, c’è un disabile o un anziano, il carico di lavoro di cura, in gran parte generalmente sulle spalle delle donne, aumenta ulteriormente. Così come purtroppo la velocità, la disattenzione e lo stress al volante.

27/07/17

Assassinii sul lavoro in aumento e tra questi le operaie/lavoratrici pagano un alto tributo alla logica del profitto. L'unica giustizia è quela proletaria!

Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro http://cadutisullavoro.blogspot.it
Al 27 luglio 2017 dall’inizio dell’anno sono 395 i morti sui luoghi di lavoro, oltre 850 con le morti sulle strade e in itinere

Nei primi sei mesi dell’anno sono morti sui LUOGHI DI LAVORO 338 lavoratori, erano 304 nei primi sei mesi del 2016. Registriamo quindi un aumento di oltre il 10% rispetto all’anno scorso e l’aumento è rilevante anche senza le tragedie di Rigopiano e dell’elicottero precipitato in Abruzzo. Erano 291 il 30 giugno del 2008 anno d’apertura dell’Osservatorio + 12,5%. Occorre anche ricordare che almeno altrettanti sono i lavoratori che muoiono in itinere ogni anno. Complessivamente quest’anno sono oltre 700 i morti per infortuni in Italia compreso l’itinere. L’anno scorso in Europa sono stati 10.000 i lavoratori morti mentre andavano o tornavano dal lavoro (indagine europea). Tantissime le donne sovraccaricate di lavoro oltre che sul posto, anche dalla famiglia e dai lavori domestici e quando in itinere sono alla guida di un automobile hanno spesso incidenti anche mortali. Molti infortuni poi non vengono riconosciuti come tali a causa della normativa specifica dell’itinere. E quando andate a vedere ogni anno le denunce per infortuni pervenute all’INAIL vi accorgete che poi successivamente non vengono riconosciute come morti sul lavoro mediamente il 30% delle denunce per infortuni mortali. 
martedì 25 luglio 2017
Muore operaia mentre esce col motorino dalla fabbrica: le donne muoiono numerosissime in itinere a causa del doppio e triplo lavoro che svolgono tra casa e uffucio/fabbrica. la stanchezza le uccide sulla strade.
Un'altra donna è morta per infortunio sul lavoro: si tratta di Luigina Lucchiari di 59 anni. Le notizie sono ancora vaghe. sembra che sia morta dopo aver sbattuto contro un cancello col motorino mentre usciva dalla fabbrica. La tragedia in una fabbrica del padovano. Proprio in questi giorni avevo postato che tante donne muoiono sulle strade e in itinere per la stanchezza accumulata per i carichi di lavoro, sul posto di lavoro e a casa. Mandiamogli un segnale fortissimo: non voteremo più nessuno di loro alle prossime elezioni. In Parlamento mandiamo operai, impiegati, tecnici, precari, disoccupati, artigiani e casalinghe. Basta fare gli utili idioti. Comunque la pensiate mandate uno di voi. In Francia, Inghilterra, Spagna e Stati Uniti il segnale è stato fortissimo. Sarà così anche in Italia.Ieri ci sono stati altri tre morti sul lavoro: due di questi sono pescatori morti in mare. La quarta un manutentore stradale morto mentre raccoglieva i "birilli".
Pubblicato da Carlo Soricelli 

In merito alla "violenza di genere strutturale" di cui parla la ministra Fedeli/Miur


 la Fedeli bloccata al comune di Palermo dalla precarie
 Coop Sociali servizi nelle scuole licenziat
Dire ipocrisia è davvero poco! Dire arroganza lo è altrettanto! La ministra Fedeli, “nuova” paladina della “buona scuola”, quella dell’alternanza scuola-lavoro dove i porci padroni che sfruttano gratis gli studenti per i loro profitti, se si tratta di studentesse si arrogano anche la pretesa di molestarle e violentarle!, o quella dei Dirigenti Scolastici sceriffi e maschilisti che, in caso di assunzione diretta di docenti “femmine”, le hanno sottoposte ad osceni colloqui provando a non assumerle perché in stato di gravidanza,  come successo l’anno scorso, si permette ora di parlare di “violenza sulle donne” e di come oggi si deve combattere, “sin dai banchi di scuola", come afferma in un comunicato recente in bella mostra sul sito del Miur.
Una violenza di genere” che la ministra è costretta a definire, alla luce di quanto accade ogni giorno e su cui la borghesia non può fare finta di non vedere  “quattro donne assassinate nelle ultimissime orenon è un fenomeno di natura episodica, né emergenziale. È un problema strutturale. Dobbiamo esserne tutte e tutti consapevoli”. STRUTTURALE, appunto! Cioè insita nell’attuale società in cui viviamo? parte integrante di essa, che scaturisce da essa? che emana ogni giorno da questa  società capitalista e imperialista, che è violenta sin dalle sue radici, violenta nel suo dna più profondo… ? Se è così allora parliamo della violenza fino agli odiosi femminicidi inevitabile in questa società, finchè non sarà spazzata via definitivamente,   perché per la sua stessa esistenza è una società fondata sulla violenza dello  sfruttamento e oppressione di classe che per la maggioranza delle donne si intreccia con l’oppressione di genere…

Ma la ministra Fedeli tutto questo non lo dice perché non lo puo’ dire, essendo degna rappresentante “ consapevole” della classe borghese al potere,  che ogni giorno ideologicamente, politicamente, praticamente opprime doppiamente la maggioranza delle donne e cioè le lavoratrici, le precarie, le disoccupate, le madri, le casalinghe, le giovani, le studentesse, le immigrate, con leggi come la buona scuola che ha danneggiato la condizione di lavoro e di vita di migliaia appunto di lavoratrici, costrette a rinunciare al lavoro dopo anni di precarietà perché impossibilitate a trasferirsi lontano dalla loro città, rimaste fuori dalle supplenze per via di logiche sempre più mirate ai tagli ai posti di lavoro per non parlare dei vergonosi casi citati sopra…, leggi come il Jobs Act, che ha attaccato pesantemente le lavoratrici aumentandone precarietà, sancendo per i padroni la libertà di licenziarle più facilmente, riducendo le tutele per le lavoratrici madri, con le campagne ideologiche come quelle in stile fascista che considerano le donne solo mere macchine riproduttrici per gli interessi  dello Stato e della “patria” borghese,  campagne che attaccano  il diritto di aborto e di libera scelta delle donne sulla loro vita, che propagandano la conciliazione lavoro/famiglia per cui in particolare le donne devono fare da paravento e da paracadute nel lavoro di cura ad uno Stato sempre più assente in termini di servizi sociali e sanitari pubblici tagliati e insufficienti, con le campagne e conseguenti politiche sempre più razziste contro i migranti che per le donne immigrate diventano fonte ancora più odiosa di oppressione, con la comunicazione mediatica sessista e maschilista che si diffonde sempre più a larghe mani…Tutto questo pone ogni giorno le donne in una condizione di oggettiva subalternità  e semina dall’alto un humus reazionario e maschilista che raccolto a livello di massa si traduce sempre più spesso nella legittimazione dell’ odiosa violenza fino ai femminicidi contro le donne che non si devono permettere di uscire fuori da certi schemi che il sistema sociale impone “madri, mogli, sante o puttane..” e non devono ribellarsi.
Sono queste le misure e le politiche di contrasto e prevenzione della violenza che vadano di pari passo con misure per il raggiungimento della piena eguaglianza tra i sessi e per l’empowerment di donne e bambine. Politiche educative e sociali..” di cui si riempie la bocca la Fedeli?

La parità tra bambine e bambini, ragazze e ragazzi, donne e uomini non è solo un diritto umano fondamentale, è la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. In questa battaglia il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca intende giocare un ruolo centrale: il sistema educativo deve essere sempre di più un luogo attivo di prevenzione, emersione e contrasto delle violenze”.
La vera parità tra le donne e gli uomini in questa società capitalista, storicamente determinata, non può esistere ne’se ne puo’ parlare in termini generici perché essa è una società divisa in classi e fondata sull’oppressione di una classe dominante, la borghesia, sull’altra oppressa, il proletariato.
Se l’oppressione di genere assume aspetti trasversali che investe le donne di classi diverse (anche le donne borghesi o piccolo borghesi subiscono discriminazioni di genere e violenza in questa società impregnata di sessismo e maschilismo, manifestazioni dell’ideologia borghese dominante),  le donne non sono però tutte uguali né i loro interessi sono uguali, e questo investe anche ciò che riguarda la questione di come combattere la violenza di genere per arrivare alla conquista della vera “parità tra.. donne e uomini, non solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace” di cui straparla la borghese Fedeli che, alla difesa di un sistema sociale che deve essere fatto passare come l’unico possibile e immutabile, pone come via da intraprendere e come “soluzione” del problema della violenza di genere quella dello “sviluppo di una cultura delle pari opportunità e del rispetto dell’altro, e educazione alla cittadinanza, che include la parità di genere” e la scuola in questo deve fare la sua parte sin da quando i bambini iniziano a frequentare dalla tenera età.  

Appositi programmi scolastici volti alla convivenza civile, all’eduzione di genere, alla riappropriazione dei passaggi storici che hanno visto in campo le lotte delle donne per la conquista di diritti negati al fine della parità tra i generi, l’eliminazione di contenuti sessisti dai testi scolastici… sono misure che dovrebbero comunque essere scontate a prescindere  per personaggi come la Fedeli che parlano peraltro sempre di una società “civile”,  ma pensare che  solo con questo si possa risolvere la  violenza sulla donne è  illudere e ingannare le masse  così come lo è quello di considerare la scuola come un mondo a parte separato dalla vera realtà della società (esemplare il caso di una bambina Rom in una scuola di Palermo che non capiva il perchè, mentre in classe si parlava di integrazione e non violenza, della violenza della polizia contro la madre portata via a forza con altre donne a Roma in un Cie per essere espulsa, mentre nel campo tutti i bambini erano terrorizzati dai mitra spianati dai poliziotti); come abbiamo scritto più volte, significa cercare di ripulire solo la superficie di un terreno che resta marcio in profondità, la stessa scuola della Fedeli che vorrebbe mettere in atto “questa cultura verso la parità di genere” è in realtà una scuola al servizio dei padroni, come parte di quella “sovrastruttura” (l’insieme dei rapporti ideologici, filosofici, politici, giuridici, artistici…) che si eleva appunto dalla  struttura economica della società capitalista perché essa si perpetui… e ritorniamo al caso dell’alternanza scuola-lavoro fortissimamente voluta dai padroni dove le studentesse non solo vengono sfruttate come richiede “il mercato” ma sono pure stuprate.
 
La questione della violenza sulle donne non è un problema di sola cultura, ma è innanzitutto un problema sociale in cui si incorpora il problema culturale… per la maggioranza delle donne oppresse, pertanto, combattere “la violenza di genere strutturale” per arrivare ad una vera parità sociale tra uomini e donne significa combattere contro la struttura sociale che alimenta la cultura di questa violenza, cioè organizzarsi nella lotta rivoluzionaria in ogni ambito per rovesciare questa società capitalista.

Mfpr Palermo 

24/07/17

NO AL 41BIS, NADIA LIBERA, TUTTE LIBERE!

Di seguito un articolo riportato da NOBORDERSARD l'8 luglio e più sotto, da rete evasioni,  alcune foto di frasi comparse nelle città di Cagliari, Milano e Roma in solidarietà a Nadia e a tutti e tutte coloro che si trovano sottoposti al regime di 41bis.
Ricordiamo che anche Genova il 7 luglio è stata tappezzata di volantini in solidarietà con Nadia e per la fine della tortura del 41 bis per tutte e tutti.
Inoltre la campagna su change.org per la fine del 41 bis per Nadia Lioce è adesso sostenuta da 713 persone, che anche solo dal lato umano, si sono dette stanche di questa tortura, di questa ingiustizia e hanno firmato.

No al 41 Bis, no alla tortura

Ieri si è svolta un’udienza a carico di Nadia Lioce, presunta colpevole di un battitura che “ha disturbato la quiete” del carcere di L’Aquila, dove è detenuta sotto il regime del 41bis. La battitura incriminata risale a più di un anno fa’ quando una circolare del DAP comunicava che i prigionieri sottoposti a 41bis non avrebbero più potuto ricevere libri. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, Nadia fatica anche a comprare i libri della lista che il carcere concede. Per questo probabilmente qualche notte fa degli ignoti hanno attaccato uno striscione a un ponte all’ingresso di Cagliari, per portare un pò di solidarietà a Nadia nel giorno dell’udienza per quella battitura. NO AL 41BIS, NADIA LIBERA, TUTTE LIBERI.

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A questa notizia alleghiamo un bellissimo articolo pubblicato su moras:
Nadia Lioce è una prigioniera politica sottoposta a regime di 41 bis ed è sotto processo per “oltraggio a pubblico ufficiale e disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone”. Sono anni che la prigioniera è stata oggetto di sequestro dei libri, quaderni e riviste, scritti personali e documentazione riguardante i suoi processi; un accanimento duro e meschino solo come lo Stato riesce a fare. In carcere si muore, si è uccisi, si viene maltrattati e umiliati e impedire ad un detenuto di leggere e scrivere è come toglierli lentamente l’aria per respirare, le emozioni per sperare e i sogni da coltivare.
 … ecco perché un libro è un fucile carico, nella  casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo.
La protesta della Lioce è nata dopo l’applicazione della circolare del Dap, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, che stabilisce di poter mantenere solo due libri in cella e di non poter riceverne altri se non acquistandoli tramite il carcere e previa autorizzazione. Ora va sotto processo perché ha voluto protestare per questo sopruso, battendo le sbarre con una bottiglia d’acqua, accompagnando la battitura col suo odio, disturbando “il quieto vivere” del non vivere dentro un ammasso di cemento armato, armato dallo Stato, vendicativo e oppressivo.
 Sono un temperamento asociale, dicono. Non mi mescolo con gli altri. Ed è strano perché io sono    piena di senso sociale, invece. Tutto dipende da che cosa s’intenda per senso sociale, non vi sembra?
Lo Stato col 41 bis cerca l’annientamento totale, isolando i detenuti 23 ore al giorno, garantendo un      unico colloquio al mese di un’ora, impedendo il contatto diretto tramite vetri, telecamere e citofoni e tutto non per la sicurezza, vista la struttura di queste galere, ma col solo scopo di incidere e spezzare l’identità personale del detenuto. Togliere la scrittura e la lettura ai prigionieri significa togliere l’unico modo di resistere alla deprivazione sensoriale, l’unico modo di farli “esistere”. In alcune carceri c’è il divieto di tenere uno specchio in cella, non puoi guardare il tempo che attraversa il tuo corpo, il tempo che ti hanno tolto, il sopruso che solca il tuo viso.
Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.
I detenuti sotto il regime del 41 bis sono circa 700 ma ormai è la strada tracciata per la detenzione in generale, per chi alza la testa, per chi pretende di vedere il proprio viso che riflette in uno specchio un sorriso d’odio verso gli aguzzini, per chi con uno sforzo immane riesce ad essere libero in mezzo alle catene. Aguzzini contro il tempo, di un potere vendicativo pronto a giocarsi la partita fino in fondo, con la tortura e l’annientamento umano.
E’ un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. E’ il nostro moto ufficiale.
Nadia Lioce con la sua bottiglia d’acqua ha infranto la supremazia totalizzante del carcere, ha trasformato  la rabbia del silenzio in un urlo di forza, determinato a riprendersi le sue parole, a riscrivere le sue storie, a mettere su pagine le emozioni  della sua resistenza; una partigiana, dentro una tomba di cemento armato, armato dallo Stato.
E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: NOI RICORDIAMO, noi non dimentichiamo. Ecco dove, alla lunga, avremo vinto noi.





La verità su Carlo Giuliani e la feccia del PD. Il comunicato di Lavoratrici/lavoratori SLAI Cobas sc Policlinico Palermo


CARLO VIVE E LOTTA INSIEME A NOI, LE IDEE DI RIVOLTA NON MORIRANNO MAI!

Lo SLAI Cobas sc. Policlinico Palermo, presente anch’esso al G8 di Genova del 20-21 luglio 2001, esprime  la propria rabbia e il proprio sconcerto in merito alle criminali e barbare affermazioni  sulla morte di Carlo Giuliani,da parte di quella feccia di Diego Urbisaglia, consigliere del Pd di Ancona

Le aberranti e criminali affermazioni di ieri, da parte del consigliere del Pd di Ancona sulla morte di Carlo Giuliani che, a suo avviso, meritava di essere ucciso, oltre a dimostrare concretamente la feccia di cui è formato il Pd, mostrano apertamente l’humus fascista e barbaro dispiegato a piene mani da questa barbara società capitalistica -  attraverso lo stato,i suoi governi, le sue istituzioni, le sue forze dell’ordine borghese, i suoi rappresentanti politici- che istiga finanche ad uccidere quanti manifestano il proprio dissenso contro l’oramai putrido sistema. 

IL G8 CE LO HA INSEGNATO
IL VERO TERRORISMO E’ QUELLO DELLO STATO!

In tal senso ricordiamo anche la morte, negli anni ’70, per mano della polizia, di Francesco Lo Russo e Giorgiana Masi, due giovani compagni che non abbiamo mai dimenticato, così come pure Carlo.
Carlo, sulla cui morte è stata insabbiata la verità, pur di assolvere quell’assassino di Placanica e il suo mandante:lo stato borghese. I video girati quel giorno durante la manifestazione e l’assassinio del giovane compagno no global, parlano chiaro: Carlo viene prima colpito allo zigomo dal proiettile sparato dal carabiniere Placanica, cade a terra, ma non è ancora morto; sarà la jeep del carabiniere ad ammazzarlo passando per ben due volte sul suo corpo, nonostante i compagni presenti chiedessero di fermare il mezzo blindato.

Non vi è stata nessuna “legittima difesa”, per quale invece, nel 2003 è stato assolto un assassino e il suo mandante: lo stato borghese!


Ma per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti!
PER I COMPAGNI UCCISI NON BASTA IL LUTTO
PAGHERETE CARO, PAGHERETE TUTTO!!!


Pa, 22.07.2017       
Lavoratrici/lavoratori SLAI Cobas sc Policlinico Palermo

PER LA DIFESA DELLE CONDIZIONI DI VITA DELLE PRIGIONIERE POLITICHE NO AL 41bis PER NADIA LIOCE_ la petizione e un video su change.org



La solidarietà non va in vacanza e il 15 settembre saremo tante e tanti di più se ci aiuterai a condividerla! Finora abbiamo raggiunto, con l'aiuto di change, 664 firme e tantissimi messaggi di solidarietà.
La campagna va avanti fino alla vittoria, perché, come dicono i tanti che hanno firmato, è giusto che questa tortura finisca!



22/07/17

CHI STUPRA UNA DONNA E' COMUNQUE UN FASCISTA E COME TALE DEVE ESSERE TRATTATO

Si è concluso il processo di primo grado per lo stupro di gruppo avvenuto nel 2010 nella sede della RAF.
Di seguito riportiamo un resoconto del processo dentro e fuori le aula del Tribunale e la presa di posizione delle compagne del MFPR quando l’odiosa violenza è diventata pubblica.



Sullo stupro di Parma: noi stiamo con Claudia
 
Lo scorso venerdì, a 7 anni di distanza dai fatti, si è concluso il processo di primo grado per lo stupro di gruppo avvenuto nel 2010 nella sede della RAF (la Rete Antifascista) di Parma. I giudici hanno condannato tutti e tre gli imputati, appartenenti a quello spazio, con pene tra i 4 anni e i 4 anni e 8 mesi. La chiusura del processo senza dubbio non scrive la parola fine di questa vicenda orribile, le cui conseguenze e i cui strascichi di violenza, così come i modi in cui è necessario affrontarla, si estendono e ci interrogano ben al di là delle aule di tribunale. I punti su cui ragionare e discutere sono parecchi e molto complessi. In questo testo non riusciremo a toccarli tutti ma vorremmo provare ad affrontarne alcuni.
Durante il processo, come in quasi tutti quelli che riguardano la violenza sulle donne, è stata messa costantemente in dubbio la credibilità dei fatti denunciati da Claudia e la veridicità del suo racconto. Durante le udienze Claudia ha dovuto subire una nuova e reiterata violenza, ritrovandosi suo malgrado sbalzata sul banco degli imputati, costretta a vedere scandagliata la sua vita privata, a rivedere e rivivere le immagini del suo stupro, a lottare perché quella violenza venisse riconosciuta e chiamata come tale. Insultata e umiliata dagli avvocati della difesa, che si sono aggrappati a ogni fotogramma di quel video, a ogni centimetro del suo corpo, a ogni suo gesto per cercare di negare quella violenza.
Questo è ciò che succede nei tribunali, luoghi di espressione di un potere e di una violenza profondamente patriarcale, ogni qualvolta una donna decida di intraprendere un percorso giudiziario contro una violenza di genere subita. Come già avevamo scritto dopo l’emergere delle prime notizie su questa vicenda, la giustizia e la verità sui fatti a cui aspiriamo non può essere quella dettata dalle sentenze dei giudici. Fermo restando il rispetto delle strade che ogni donna sceglie di intraprendere in queste situazioni, non possiamo non ragionare anche sull'estrema contraddittorietà di un sempre più diffuso approccio securitario alla violenza di genere.
In un contesto economico, sociale e politico di profondo impoverimento e aumento della violenza, alcune donne scelgono di denunciare alla giustizia e alla polizia i propri aggressori per cercare di porre fine a una situazione da cui non riescono a uscire in altra maniera. Una strada che non fornisce strumenti utili all'uscita da una situazione di violenza ma anzi si trasforma spesso in un'occasione usata per strumentalizzare ulteriormente i corpi e le violenze sulle donne.
Le domande che come compagne e compagni dovremmo porci riguardano piuttosto il perché lo stupro subìto da Claudia sia rimasto a lungo taciuto (nonostante le immagini che lo riprendevano siano circolate per molto tempo tra l’indifferenza o peggio il divertimento di molti), perché sia venuto a galla solo in seguito a indagini giudiziarie su altri fatti, perché questo sia potuto accadere in uno spazio sociale che si definiva antifascista ad opera di soggetti che militavano in quella realtà, perché sia stato obliato per anni, perché Claudia sia stata lasciata sola, perché non siano state rispettate le sue scelte né creduta la sua testimonianza.
Da quando - ormai due anni fa - uscirono le prime notizie su questa vicenda, alcune cose sono cambiate: questa storia è riuscita a uscire dal silenzio a cui l’omertà e la complicità degli stupratori, così come di molti attorno a loro, avevano a lungo scelto di relegarla e Claudia ha potuto contare sul sostegno e la solidarietà di quanti hanno deciso di non lasciarla sola in questo percorso, prendendo posizione e sostenendola nelle udienze. Ciò che resta è invece la consapevolezza che portare avanti nei nostri spazi la costruzione di relazioni paritarie, dove cadano le maschere dell'uguaglianza formale, non può essere in alcun modo una scusa o un motivo per sentirsi al riparo da queste forme di violenza, la cui pervasività continua e spinge ad interrogarsi con più urgenza. L'antisessismo non può essere approcciato come un aggettivo da giustapporre a dei nomi, come un'identità statica e data per assodata. È una pratica che va sempre costruita, a volte con difficoltà, nei nostri spazi così come negli spazi sociali che attraversiamo. Combattere il sessismo in tutte le sue forme significa essere in grado di riconoscerlo anche e soprattutto quando questo prende forma vicino e attorno a noi, senza tentennamenti e senza nascondersi dietro certezze auto-assolutorie.
A Claudia il nostro abbraccio e il nostro sostegno.
 
mfpr
 
CHI STUPRA UNA DONNA E' COMUNQUE UN FASCISTA E COME TALE DEVE ESSERE TRATTATO
Sul bestiale stupro di gruppo, avvenuto nel 2010 al centro sociale RAF di Parma, la cui violenza è poi proseguita facendo girare le immagini riprese e, in ultimo, attaccando vigliaccamente la ragazza che finalmente aveva raccontato come erano andati i fatti, noi siamo dalla parte della ragazza senza se e senza ma. E, come hanno denunciato alcune compagne, ciò che va fortemente condannato è l'atteggiamento omertoso, complice tenuto all'epoca e in questi anni da compagni e compagne dell'area.
Su questo, come su tanti altri bruttissimi fatti simili avvenuti e che possono continuare ad avvenire dobbiamo scatenare apertamente la ribellione, la furia delle ragazze, delle compagne. Solo questo permette di non delegare alle forze dello Stato l'intervento su episodi di violenza fascista/sessista contro le donne.
Si tratta di una nefasta ideologia, figlia dell'abbruttimento ideologico che la borghesia spande a piene mani, che corrode anche nei movimenti antagonisti e opprime le energie di tante compagne. Tra le ragazze, le compagne chi sottovaluta questo, non comprende il carattere di "guerra" a tutti i livelli che la borghesia porta avanti; non lo comprendono anche quelle compagne che nei movimenti, nei centri sociali sottovalutano la necessità sempre e comunque di darsi organizzazione e di portare avanti la lotta delle donne.
(su questo significativo fu anni fa la battaglia fatta da compagne di un centro sociale di Modena, allora del Mfpr, su cui è possibile avere il loro lungo documento).
Per tutto questo, anche se possiamo comprendere le ragioni personali, non abbiamo condiviso la decisione di non fare più il presidio al tribunale il 19 dicembre. Non ci può essere un movimento delle donne che non lotti contro ogni violenza sessuale, sempre e dovunque. La lotta delle donne deve rompere, cambiare i centri sociali, le organizzazioni politiche, i sindacati, i movimenti. Questo è anche il significato dello "sciopero delle donne", che porta anche una "rottura" di concezione, di atteggiamento tra gli operai, il sindacalismo.
Sulla questione femminile, sugli atteggiamenti maschilisti presenti anche in organizzazioni di compagni, in passato si sono giustamente sfasciate intere organizzazioni rivoluzionarie - l'esempio più grande fu Lotta continua verso la fine degli anni 70.
E' solo la lotta rivoluzionaria delle donne a 360° il "vaccino", altrimenti nessuno a priori può e deve considerarsi immune dall'ideologia fascista de "gli uomini che odiano le donne".
MFPR

19/07/17

Corrispondenze dalla Tunisia: le donne proletarie tunisine protagoniste dei movimenti sociali

Libera traduzione dal francese dell’articolo di Henda Chennoui “Movimenti sociali: Risveglio femminile contro il dominio maschile” apparso su nawaat.org (http://nawaat.org/portail/2017/06/29/mouvements-sociaux-eveil-feminin-contre-la-domination-masculine/) lo scorso 29 Giugno.
Aggiungiamo a mo’ di aggiornamento all’articolo, che recentemente a Menzel Bouzaine, Regueb, Bir Lahfey e Ben Aoun ci sono stati numerosi cortei con un’alta partecipazione femminile. Per l’occasione il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali ha dichiarato il sostegno a queste “donne militanti” che rappresentano delle “pioniere” nella regione negli ultimi dieci anni per quanto riguarda la partecipazione ai movimenti sociali e in particolare le operaie del settore tessile e minerario, il Forum ha esortato la “società civile” a sostenere le donne sottolineando che lo sviluppo e la democrazie sono tributari delle donne in lotta.

E' da due mesi che il movimento di protesta di Menzel Bouzaiane si è diviso. 32 donne hanno lanciato il sit-in #ManichSekta ( non smetto di parlare n.d.t.) per rivendicare il loro diritto al lavoro, lontano dal dominio maschile dei loro compagni. Al sit-in di Sbeitla, sono le più numerose a mobilitarsi per un anno e mezzo. Idem per quelle che hanno occupato la sede del governatorato di Kasserine a inizio 2016. Durante lo stesso periodo, a Jebeniana, delle lavoratrici hanno occupato sole i locali della delegazione per settimane. Nonostante questi inizi di una sorta di risveglio femminista nei movimenti sociali, rimangono ancora molte sfide.


La presenza di crescente importanza delle donne nella sfera delle proteste potrebbe essere spiegata da diversi fattori. Il primo è senza dubbio lo status socio-economico delle donne soprattutto nelle regioni interne. Dato che esse costituiscono la maggioranza dei laureati con l' 85% nel 2015, le donne sono le più colpite dalla disoccupazione e dal lavoro precario. Secondo l'Istituto Nazionale di Statistica (INS), il tasso di disoccupazione femminile nel 2015 è stato del 23,5% contro il 12,4% per gli uomini. Inoltre, gli stipendi di cui godono le donne sono inferiori a quelli degli uomini nell'ordine del 18% in media, testimonia il "Gender Rapporto Nazionale Tunisia 2015". Così, le donne sono le più interessate dalle esigenze dei movimenti sociali.

Se questi dati implicano una più forte presenza delle donne nei movimenti sociali, il campo non approva. Per ogni sfida è fortemente influenzato dal suo contesto sociale, così come le credenze e le esperienze dei suoi attori. In un articolo intitolato "mobilitazioni Ethnographier per l'occupazione in termini di genere: i rapporti con l'oggetto e l'esame delle relazioni", Abir Krefa e Sarah Gates, i ricercatori di sociologia, sostengono che il sit-in a Kasserine inizio 2016, ha avuto una grande diversità ed eterogeneità dei manifestanti (presenza di laureati e non laureati). Questo non era il caso di altri sit-in organizzati da laureati nella stessa regione. "Il forte coinvolgimento delle donne a Kasserine può essere spiegato da un effetto carriera militante in una città che era un focolaio di rivoluzione", dicono i due ricercatori.


Questa nuovo mix in sviluppo, non è isolata da una lotta, a volte dolorosa. Aida Lahouel, detiene una laurea in francese, è stata senza lavoro per 10 anni. Ha preso l'iniziativa di organizzare una marcia di donne a Meknassi a margine delle controversie che hanno scosso la regione nel gennaio 2017. "Quando abbiamo avuto l'idea di questa marcia, alcuni uomini erano riluttanti e altri ci hanno incoraggiato. Dopo la marcia, la maggior parte degli uomini era insoddisfatto perché le donne hanno sollevato slogan contro il dominio maschile", dice Aida. "Sui social network, gli uomini della nostra città ci hannochiamato in tutti i modi. E io continuo ad oggi a ricevere osservazioni intimidatorie da alcuni ", ha aggiunto la giovane attivista.

A Menzel Bouzaiane, le reazioni sono esplose quando le donne nel sit-in misto hanno deciso di prendere la loro indipendenza a seguito delle intimidazioni perpetuate contro di loro. "Un sit-in di donne sit-in è una resistenza contro l'ordine stabilito maschile. Tuttavia, rimane come una forma di alienazione dal patriarcato. Perché la gente vede di cattivo occhio la promiscuità nello spazio pubblico. Essere soli al sit-in consente loro una certa legittimità e diminuisce la pressione sociale "dice Fatiha Bousselmi, maestra e sostenitrice del sit-in" Manich Sekta". Attualmente bandite dell'accesso alla delegazione locale, le donne di Menzel Bouzaiane cercano da due mesi di installare una tenda sulla strada. "In aggiunta alle sfide logistiche e le minacce del delegato regionale, gli attivisti della società civile qui ignorano le nostre grida di aiuto", dice il portavoce del sit-in Yasmine Hidouri.


In sit-in dal gennaio 2016 le giovani laureate di Sbeitla, sono più numerose rispetto agli uomini, ma sono discriminate. "La leadership è riservata agli uomini. Il gruppo prende le sue decisioni collettivamente e senza grandi conflitti, ma gli uomini sono più ascoltati rispetto alle donne. Nel corso delle trattative con il governatore o il delegato o se in visita a Tunisi per incontrare un ministro, la missione è affidata agli uomini ", dice Khouloud Ajlani, attivista per i diritti umani che sostiene il sit-in. Da parte loro, il lavoro di ricerca di Abir Krefa e Sarah Gates portano alla stessa conclusione. "Quando studiamo il coinvolgimento delle donne, gli uomini dimostrano di essere molto spesso un vincolo. Gli attori più visibili della protesta e più esperti a parlare in pubblico sono soprattutto gli uomini [...] ", scrivono. 

Fin dalla sua creazione, il 21 maggio 2016, il coordinamento nazionale dei movimenti sociali, supportati e supervisionati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES) non conta tra i suoi membri neanche una donna. Inoltre, nel paesaggio associativo, le disuguaglianze di genere sono più regionalizzate. Nel sud della Tunisia, le associazioni hanno meno del 60% di membri donne, mentre le associazioni nei governatorati del nord hanno oltre il 70% donne. Stesso cosa sul piano sindacale, dove le donne non sono sindacalizzate e scarsamente rappresentate. Lo testimonia la composizione del comitato esecutivo dell' UGTT. Volenti o nolenti, anche potenziali partner dei movimenti sociali non sono immuni al dominio maschile.

"Scrivimi" campagna per il sostegno delle donne e degli uomini nelle galere di Amburgo

 
"Scrivimi" campagna per il sostegno delle donne e degli uomini nelle galere di Amburgo
Qui di seguito gli indirizzi degli arestati italiani cui inviare messaggi di solidarietà:

RICCARDO LUPANO
Jva billwerder
Dweerlandweg n° 100
22113 hamburg
Germany
EMILIANO PULEO
Jva billwerder
Dweerlandweg n° 100
22113 hamburg
Germany
ORAZIO SCIUTO
Jva billwerder
Dweerlandweg n° 100
22113 hamburg
Germany
ALESSANDRO RAPISARDA
Jva billwerder
Dweerlandweg n° 100
22113 hamburg
Germany
MARIA ROCCO
Jva billwerder
Dweerlandweg n° 100
22113 hamburg
Germany
FABIO VETTOREL
Hahnofersand
25635 Jork
Germany


Genova - mentre lo Stato festeggia il ritorno in servizio di alcuni dei torturatori del G8, i torturatori della Digos e dei Ros, secondo il Secolo XIX, "indagano" su chi chiede la fine della tortura del 41 bis per Nadia e per tutte e tutti


A ridosso dell'anniversario di Genova 2001, Lo stato festeggia il ritorno in servizio di alcuni dei torturatori di quelle giornate, mentre il Secolo XIX fa sapere che i torturatori della Digos e dei Ros "indagano" su chi chiede la fine della tortura del 41 bis!

Oggetto dell'"indagine" è il testo del volantino ampiamente diffuso in rete e in cartaceo il 7 luglio all'Aquila e in altre città, che potete trovare qui, qui, qui, ma anche qui e se non lo trovate in altre testate di stampa aquilane è perché non lo hanno pubblicato!

Ma la cosa veramente "inquietante" di quel testo incriminato sono le parole "umanità" e "riscatto rivoluzionario", che questo sistema capitalistico e lo Stato che lo sostiene, vorrebbero evidentemente cancellati dal dizionario e dalla storia.

Di seguito la lettera pervenuta da compagni e compagne dello spazio di documentazione Il Grimaldello (Genova):

Alcuni giorni or sono sul quotidiano Il Secolo XIX di Genova è comparso l'articolo che trovate in allegato.
In allegato avete anche il testo della locandina che, secondo il quotidiano (per altro ormai leggendario in città per riuscire ad organizzare paginoni sul niente  pur di, ben inteso, contribuire alla criminalizzazione dei compagni) inneggerebbe alle Brigate Rosse.

Abbiamo cercato la locandina e l'abbiamo fotografata (qualcuna è rimasta nonostante l'impegno democratico di tanti bravi cittadini che marciano con pennelli e raschietti per zittire i muri.......) affinchè se ne possa leggere il testo che, ci rendiamo conto, tutti voi già conoscete in quanto abbondantemente comparso in rete.
Inutili altre parole.
Perchè l'eco del processo e della tortura del 41bis non avrebbe dovuto arrivare fino a qua?
Eppoi a noi non pare affatto scandaloso rivendicare umanità e volontà riscatto rivoluzionario.

compagni e compagne dello spazio di documentazione Il Grimaldello
Genova