31/03/24
31 marzo 1872 nasce Aleksandra Kollontaj - una breve biografia - La raccolta delle sue Conferenze
“Non ho dubbi su quale sia la parte giusta della storia”. Lettera di Ilaria Salis dal carcere - 4 aprile assemblea ore 18.30 Taranto - Mobilitiamoci, iniziative in tutte le città possibili
Lettera di Ilaria Salis dal carcere
“Sono caduta in un pozzo profondissimo, mi chiedo se ci sia uscita. Ma non ho dubbi su quale sia la parte giusta della storia”.
“I mesi sono lunghi e accade che la bolla si trasformi in un buco nero che ti risucchia. Prendendo in prestito una metafora che leggerò parecchi mesi dopo in un bellissimo fumetto dedicato alle mie vicende – dice citando Zerocalcare – sono caduta in un pozzo profondissimo.
Le pareti sono scivolose ed ogni volta che faticosamente cerco di compiere un breve passo per risalire appena un pochino, finisco sempre col precipitare più in profondità. A volte mi chiedo se questo pozzo abbia un fondo e se da qualche parte ci sia davvero un’uscita. Immagino di essere un piccolo geco, che nell’oscurità silente riesce a scalare le pareti. Già, devo scalare le pareti, ma qui purtroppo non ci sono i miei compagni di arrampicata e i legami di fiducia ben stretti sulla corda della sicura”.
“Chiudo gli occhi e lancio lo sguardo oltre le mura di questo cieco carcere: scorgo le vicende di uomini e donne come ricambi in tessuti su arazzi che raffigurano storie più ampie. Storie di popoli, di culture, di lingue e di religioni. Storia di sistemi economici, politici e giuridici. Storie di ricchezza e di miseria, di potere, di sopraffazione e di sfruttamento. Storie di guerre e di eserciti. Storie di un mondo in cui ancora si uccidono bambini, in cui alle quarte d’Europa risuonano mitraglie che riecheggiano gli scempi del secolo scorso.
Apro gli occhi e mi scorgono rannicchiata sulla grigia coperta, con lo sguardo fisso sulla porta di ferro della cella. Tutto mi appare semplice e lineare in queste vicende, come in molte altre, non può esserci alcun dubbio su quale sia la parte giusta della storia”.
30/03/24
Sciopero lavoratrici e lavoratori delle Coop. Sociali - Dalle lavoratrici Slai cobas sc Palermo: No aumenti elemosine, No discriminazioni
"Sciopero di pasqua" le lavoratrici vogliono aumenti salariali e condizioni di lavoro migliori - info solidale
"Oggi protesta contro Federdistribuzione che vuole più precarietà - tantissimi presidi: salari da fame dal 2019...
28/03/24
Su Ilaria Salis una nota dell'avvocata A. Ricci di Taranto - Per Gabriele Marchesi per fortuna una buona notizia
Nessun passo indietro della giustizia ungherese: il Tribunale di Budapest ha negato i domiciliari ad Ilaria, significa che resterà in carcere, dove è reclusa già da tredici mesi, nelle condizioni che sappiamo e soprattutto senza alcuna condanna, solo una misura cautelare di carcere preventivo.
Ancora una volta Ilaria è stata portata in udienza in totale spregio dei diritti umani, trascinata come un cane tenuta a un guinzaglio da agenti antisommossa in tuta mimetica con il passamontagna che si sono seduti vicino a lei per tutta la durata dell'udienza.Quelle immagini, ancora una volta, sembrano arrivare da un luogo molto lontano dallo stato di diritto che dovrebbe caratterizzare gli Stati membri dell'Unione europea.
Orban sapeva benissimo che le catene di Ilaria Salis avrebbero fatto di nuovo il giro d’Europa e, quindi, il messaggio è chiaro: da noi funziona così, nessuno si intrometta; da noi il dissenso è punito così.
Infatti quello che è accaduto questa mattina a Budapest anche fuori dall'aula del Tribunale con minacce e intimidazioni nei confronti di persone arrivate dall'Italia per dare solidarietà ad Ilaria, confermano l’iniquità e lo scempio di questo procedimento che nulla ha a che fare con uno Stato di diritto.
L’avv. Losco, difensore di Ilaria, il padre di Ilaria e Zerocalcare, presente in sostengo della nostra connazionale, sono stati accolti da minacce da parte di gruppi nazisti presenti fuori e dentro l’aula di Tribunale. Intimidazioni come “cosa guardate, vi spacchiamo la faccia” sono le minacce rivolte agli stessi.
Il diniego dei domiciliari è una brutta notizia perchè costringe Ilaria ancora in carcere nonostante fosse stato individuato un appartamento e date tutte le garanzie economiche.
Le condizioni di violazione dei diritti umani sono palesi. E’ evidente a tutti che l’Ungheria non sta rispettando la Convenzione europea dei diritti dell'uomo la cui mancata osservanza è già costata altre condanne all'Ungheria ma a quanto pare, ad Orban non interessa il rispetto degli accordi europei.
Questo è lo Stato che la nostra Presidente considera un modello da emulare?
Il patriottismo del nostro governo va a corrente alternata, con la cittadina Ilaria Salis non si attiva.
Una giornata che scrive una storia di violazione di diritti per l’Italia e per l’Europa.
Amarezza e rabbia per questa decisione.
Giovedì 4 aprile, ore 18:30, presso la sede Slai Cobas di Taranto in via Livio Andronico 47, manifestiamo solidarietà ad Ilaria Salis.
Info/contatti whatsapp 3519575628
Gabriele Marchesi indagato con Ilaria Salis, i giudici: “Non andrà in carcere in Ungheria”
La Corte d’Appello di Milano ha disposto che il giovane, accusato come la Salis di presunte violenze nel corso di una manifestazione neonazista a Budapest, non verrà consegnato all'Ungheria. I giudici hanno anche disposto la liberazione immediata del 23enne militante antifascista, finora agli arresti domiciliari e oggi presente in aula, sul quale pende un mandato di arresto europeo dall'8 novembre scorso. Mandato che, nonostante la sentenza milanese, resta valido e potrebbe scattare fuori dai confini italiani.
"Oltre alla non consegna sotto un duplice aspetto – per le condizioni detentive e sulla violazione del principio di proporzionalità della pena, come già chiesto – va anche rigettata la richiesta per l'inadeguatezza del Mae (mandato di arresto europeo, ndr) e l'assenza di un giusto processo in Ungheria sotto l'aspetto della presunzione di innocenza" le conclusioni dei legali nell'udienza di febbraio a cui aveva partecipato l'indagato.
Questa mattina, davanti al Tribunale di Milano, si era svolto un presidio a sostegno di Gabriele Marchesi. I manifestanti, nel giorno dell’udienza, avevano mostrato uno striscione “Né prigione, né estradizione - Free all Antifas - Da Milano a Budapest”.
Negati ad Ilaria Salis gli arresti domiciliari, ancora in catene "trattata come un cane!" denuncia il padre, mentre fuori il tribunale alcuni nazisti feccia minacciano gli avvocati e solidali
Negati i domiciliari, Ilaria Salis resta in cella. In aula ancora con manette e catene
"Stai zitto o ti spacco la testa": è quanto un gruppo di pochi estremisti di destra ha detto al gruppo composto dai legali e amici di Ilaria Salis al loro arrivo al tribunale. "Ci aspettavano e ci hanno insultato e minacciato in ungherese," ha detto l'avvocato Eugenio Losco.
"Ci hanno fatto delle riprese con i telefonini, ci hanno ripreso e il nostro traduttore ci ha detto che ci stavano minacciando", ha proseguito Losco.
26/03/24
Libertà per Ilaria Salis, libertà per chi parteggia dalla parte giusta della storia!
Il 28 marzo a Budapest, si terrà la seconda udienza del processo a Ilaria Salis. Ilaria è accusata, insieme a Tobias e a Gabriele, di aver attaccato dei nazisti durante la giornata dell’Onore a Budapest nel febbraio 2023. Dall'11 febbraio dello scorso anno è detenuta in un carcere ungherese in condizioni disumane, molto simili a quelle del 41 bis in Italia.
25/03/24
Moderno patriarcalismo
23/03/24
Un report sull'Assemblea per Ilaria Salis di Torino - da una compagna avvocata del Mfpr di Taranto
Se ne è discusso a Torino, durante un interessante incontro organizzato presso la Casa del Popolo Estella, per ricordare quanto sta accadendo, ne ha parlato il padre di Ilaria, Roberto Salis, il quale ha ripercorso il dramma giudiziario che sta vivendo la figlia. Le condizioni disumane di detenzione sia a livello igienico che a livello di regime carcerario poiché per ben 35 giorni ad Ilaria non è stato concesso il diritto di parlare con alcuno; la procedura processuale che evidenzia palesi violazione dei diritti essenziali dell’imputato - ricordiamo che a tutt’oggi ad Ilaria non è stata data la possibilità di prendere visione delle prove raccolte a suo carico dalla procura ungherese; tutto evidenzia la compromissione del diritto di difesa in un racconto che sembra arrivare da un luogo molto lontano dallo stato di diritto che dovrebbe caratterizzare gli Stati membri dell'unione europea.
Ed infatti, Massimo Congiu, giornalista, studioso di geopolitica dell’Europa centro-orientale, ospite del predetto incontro, ha sottolineato come nella pratica del sistema di potere di Victor Orban l’idea di giustizia è quella di una giustizia che punisce, avvilisce, mortifica senza alcun rispetto per la dignità umana, per la dignità della persona, come effettivamente abbiamo purtroppo visto con Ilaria. Il sistema di potere di Orban è un sistema basato sulla paura, fortemente antidemocratico che produce ed afferma una serie di falsità alcune particolarmente atroci ripetute a mò di martellamento che determina effetti deleteri sull’opinione pubblica, ed il prevalere di questa paura genera una giustizia vista e presentata come qualcosa di cui si debba temere. La commissione europea ha sanzionato più volte l’Ungheria per violazione dei diritti umani bloccando anche i fondi destinati a Budapest per l’ammontare di ben 20 miliardi. Ma vi sono altri aspetti di cui il governo ungherese si è distinto negativamente e, sempre citando l’intervento di Congiu, si parla per esempio del controllo che esercita sulla stampa, del suo impegno a silenziare le voci dissenzienti, dell’impegno a controllare in modo capillare le varie manifestazioni della vita pubblica del paese fino alla vita accademica dell'università. Si pone, quindi, in maniera drammatica una questione di Stato di diritto in questo paese che Orban attraverso una sua retorica e propaganda animata da sentimenti patriottici, ultranazionalisti sta modellando proprio in tal senso ovvero in termini antidemocratici e la povera Ilaria si trova incastrata in questo meccanismo.
Il dibattito è continuato con l’intervento di Francesca Trasatti, avvocata, osservatrice per il Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia nel processo Salis, la quale ha subito evidenziato come la vicenda di Ilaria Salis rappresenti un vero e proprio buco nero della democrazia politica e del giusto processo. Un trattamento disumano e degradante che configura una tortura considerato che per le normative internazionali 15 giorni di isolamento prolungato costituiscono a tutti gli effetti tortura ed Ilaria ha subìto un isolamento per ben 35 giorni, ma soprattutto non sta scontando alcuna condanna bensì solo carcerazione preventiva. Anche la stessa procedura processuale non garantisce in alcun modo il diritto di difesa di Ilaria né l’imparzialità di un giudice che ha già emesso decisione di condanna nei confronti di un coimputato tedesco nel medesimo processo di Ilaria.
L’Ungheria di Orban è un’ombra nera antidemocratica che macchia l’Europa, che in Italia trova sponda nell’amica Presidente la quale si è fintamente appellata all’indipendenza della magistratura, all’autonomia dei giudici, ben sapendo che l’Ungheria ha molto da imparare in tema di separazione dei poteri e di rispetto dei diritti umani essenziali.
ILARIA LIBERA!!
Egitto - Scioperi operai: di nuovo in campo le operaie di Mahalla al Kubra
Come già abbiamo denunciato (*), il regime egiziano di Al Sisi sta facendo costruire un recinto nel deserto del Sinai per rinchiudervi i palestinesi in fuga da Gaza, e facilitare così la “pulizia etnica” da parte di Israele, in cambio di finanziamenti del Fmi.
Il regime egiziano è dominato dai militari, che sono anche tra i maggiori capitalisti del paese. Lanciatisi in affari “faraonici”, come la costruzione della nuova capitale (con enormi profitti per sé e per gli amici), hanno ingigantito anche il debito dello stato e ora il solo pagamento degli interessi sul debito pesa per oltre il 10% del Pil. Soluzione: stampare moneta, quindi creare inflazione, ossia tagliare il potere d’acquisto dei salari per mantenere i profitti dei padroni, privati, di stato e militari.
A settembre 2023 l’inflazione aveva raggiunto il 40%, ossia il potere d’acquisto dei già miseri salari e stipendi aveva subito un taglio del 40%.
Temendo il malcontento per i salari di fame anche tra i dipendenti pubblici, il governo ha decretato l’aumento del salario minimo da 4.000 a 6.000 sterline egiziane (al cambio corrente, oggi 120 euro al mese). Per i dipendenti privati, però, il salario minimo è stato portato a sole LE 3.500.
A gennaio, ai lavoratori che protestavano per i bassi salari, al Sisi aveva avuto la spudoratezza di rispondere: “Non mangiamo? Mangiamo. Non beviamo? Beviamo, e tutto funziona [e qui aveva fatto un osceno, irridente, paragone con la condizione dei palestinesi deliberatamente affamati e assetati dallo stato sionista – ndr.]. Le cose sono costose e alcune non sono disponibili? E allora?”.
La risposta delle lavoratrici della più grande fabbrica egiziana, il complesso tessile di MISR di Mahalla al-Kubra nel Delta del Nilo, che ha più di un secolo di storia e di lotte, è arrivata il 22 febbraio. Scandendo slogan di protesta sono scese in sciopero in 3.700. Nonostante l’intervento delle guardie per impedire loro di accedere al piazzale centrale, e la scesa in campo del sindacato ufficiale contro lo sciopero, lo sciopero, sostenuto da un sindacato indipendente, si è esteso ad almeno 7 mila lavoratori.
La risposta dei padroni e del governo è stata: bastone e carota. Salario minimo a 6.000 LE (un aumento del 70%), arresto di 13 “leader” dello sciopero (fonte: LabourStart), di cui due ancora detenuti alla data del 13 marzo, sono anche minacciati di licenziamento per assenza ingiustificata.
Evidentemente padroni e governo contano sulla prosecuzione dell’inflazione (ancora al 31% a gennaio 2024), che rimangerà gli aumenti, e gli arresti sono un avvertimento a chiunque, a Mahalla o altrove, venisse in mente di tornare alla lotta.
Ma lasciar proseguire lo sciopero senza concessioni è sembrato troppo pericoloso al governo: avrebbe rischiato un’esplosione generalizzata perché sa che il forte aumento del costo della vita ha aumentato la pressione tra i lavoratori.
Un’esplosione che potrebbe collegarsi al sostegno popolare alla causa palestinese che in Egitto c’è, per quanto il regime militare faccia tutto quel che può per non farlo manifestare, e al più generale malcontento per le pesantissime condizioni di lavoro e di vita di milioni di proletari.
Negli stessi giorni, infatti, sono scesi in lotta anche centinaia di lavoratori di una grande impresa di costruzioni di proprietà del miliardario Talaat Moustafa, in società con la famiglia saudita dei Bin Laden.
Hanno protestato contro il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato (soprattutto quelli che hanno subito incidenti sul lavoro o si sono ammalati) per assumere lavoratori con contratti precari, e chiedendo il pagamento di arretrati, un aumento salariale per il carovita, misure di sicurezza e dispositivi di protezione sui cantieri, una maggiore copertura sanitaria.In questo caso è significativo che le guardie aziendali, che una settimana prima erano intervenute a reprimere una protesta degli impiegati, qualche giorno dopo hanno a loro volta rifiutato di entrare in servizio, lamentando il fatto di essere pagati LE 3000 (60 euro) al mese per 14 ore di lavoro al giorno, e hanno ottenuto un aumento.
Il gruppo Talaat Moustafa, divenuto un colosso con le commesse per la nuova capitale, sta ora partecipando in società con il gruppo Adq degli Emirati a un progetto da 35 miliardi di dollari per la costruzione di una città turistica sul litorale mediterraneo, su terreni privatizzati dai militari.
Questi episodi di lotte operaie sono indicativi di una temperatura sociale che sta salendo in Egitto come in altri paesi del Medio Oriente e che potrebbe portare a nuove esplosioni se la crisi economica si aggraverà, in collegamento anche con la rabbia provocata dalla guerra genocidaria di Israele contro la popolazione di Gaza.
Non a caso il Fmi offre ad al-Sisi miliardi in cambio del lavoro sporco di collaborazione con Israele; mentre da parte loro Meloni e von del Leyen promettono 7,4 miliardi di euro all’Egitto perché faccia il lavoro altrettanto sporco di trattenere gli emigranti verso l’Europa, oltre che per altri lucrosi affari.
Ci permettiamo di ripeterlo: gli unici veri amici dei palestinesi aggrediti e oppressi da Israele a Gaza e in Cisgiordania sono i lavoratori e gli sfruttati della regione e del mondo, non i governi capitalisti arabi che sfruttano e reprimono i propri lavoratori e sono pronti a fare affari collaborando con le metropoli imperialiste nella repressione di palestinesi e migranti.
(*) https://pungolorosso.com/…/il-vile-baratto-di-al-sisi…/
Riportiamo la traduzione di un articolo apparso su “Mada Masr” ed estratti dal sito del Socialist Party britannico:
MIGLIAIA DI LAVORATORI SCIOPERANO PER L’AUMENTO DEI SALARI NELLA FABBRICA DI GHAZL AL-MAHALLA
– di Beesan Kassab, 25 febbraio 2024
I lavoratori di Ghazl al-Mahalla sono in sciopero per ottenere salari più alti e bonus più equi.
Circa 7.000 lavoratori si sono riuniti sabato mattina nella piazza centrale del complesso industriale di Ghazl al-Mahalla per uno sciopero che dura già da tre giorni.
Chiedono che il loro pasto giornaliero venga aumentato a 30 LE [=0,57 euro], alzando un coro in cui si dice che l’importo copre a malapena “il prezzo di un litro di latte”.
Chiedono anche l’applicazione di salari più alti, facendo riferimento a un recente aumento salariale per il settore pubblico basato su istruzioni del presidente Abdel Fattah al-Sisi, in mezzo a un’ondata inflazionistica che ha fatto salire il costo della vita a livello nazionale. In altri slogan, i lavoratori hanno chiesto: “Dov’è la decisione di Sisi?”.
La mega-fabbrica di proprietà pubblica impiega decine di migliaia di persone nei settori della filatura, del tessile e del cotone medicale, oltre a una centrale elettrica su un’enorme area di terreno a Mahalla al-Kubra, nel governatorato di Gharbiya.
Fino a domenica, le trattative dei lavoratori con la società madre sono fallite, ha dichiarato il Centro per i sindacati e i servizi ai lavoratori in un comunicato diffuso sabato sera. All’incontro hanno partecipato un rappresentante della presidenza, dell’Ufficio del Lavoro, del Ministero del Commercio e dell’Industria e il presidente del Sindacato Generale della Filatura e Tessitura.
Diversi uomini che lavorano nell’azienda sono stati trattenuti sabato dall’Agenzia nazionale per la sicurezza dopo essere stati convocati per essere interrogati dall’organismo di sicurezza insieme ad alcune lavoratrici, ha dichiarato la CTUWS, senza specificare il numero dei detenuti.
I lavoratori hanno lanciato lo sciopero giovedì [22 febbraio], hanno dichiarato a Mada Masr, iniziando nelle fabbriche di abbigliamento a prevalenza femminile, che storicamente sono state in prima linea in diversi scioperi famosi dell’azienda.
Hanan*, supervisore di una fabbrica di abbigliamento, ha raccontato a Mada Masr che gli operai del suo edificio hanno iniziato a scandire slogan, interrompendo infine il lavoro mentre i canti si diffondevano da una fabbrica all’altra.
Contemporaneamente, il personale di sicurezza ha sigillato le uscite per evitare che le donne si riversassero nella piazza centrale del complesso, nota come piazza Talaat Harb. Questa misura di sicurezza è stata applicata anche alla centrale elettrica, secondo Abdullah* che lavora lì.
Il personale di sicurezza ha sbloccato i cancelli della fabbrica intorno alle 15.00 di giovedì, mezz’ora prima della fine del turno mattutino, per assicurarsi che i lavoratori uscissero dai locali e non si riunissero all’interno, ha detto Hanan.
I lavoratori dell’azienda hanno descritto i bassi salari come causa di insoddisfazione.
Il costo della vita è aumentato in tutto il Paese, con un’inflazione che supererà il 30% nel 2024. Un recente “pacchetto presidenziale”, che sarà varato a partire da marzo, prevede un aumento del salario minimo per il settore pubblico da 4.000 a 6.000 LE al mese, con incrementi che vanno da 1.000 a 1.200 LE per le diverse categorie lavorative.
Sebbene sia di proprietà dello Stato, la Misr Spinning and Weaving Company, che possiede Ghazl al-Mahalla, non rientra nell’ambito del pacchetto presidenziale, ha dichiarato a Mada Masr una fonte del Ministero delle Finanze.
I salari dell’azienda sono invece guidati dalle decisioni del Consiglio nazionale per i salari, che lo scorso ottobre ha innalzato il salario minimo del settore privato a 3.500 LE.
Ma l’aumento di ottobre non è servito a contrastare la riduzione del potere d’acquisto causata dall’inflazione. Dopo più di 25 anni di servizio, Abdel Aziz* ha dichiarato a Mada Masr che il suo guadagno totale non supera i 4.000 LE al mese. La cifra equivale a circa 130 dollari al tasso di cambio ufficiale, o a circa 80 dollari al tasso del mercato parallelo al momento in cui scriviamo.
Abdullah ha dichiarato che il suo stipendio è di 4.200 LEE dopo 33 anni di lavoro con l’azienda. Hanan, che si sta avvicinando alla pensione, riceve uno stipendio di circa 6.200 LE.
Diverse fonti di lavoro dell’azienda hanno raccontato che giorni prima dello sciopero, il governatore di Gharbiya aveva effettuato una serie di visite per ispezionare un convoglio che fornisce beni sovvenzionati ai lavoratori dell’azienda.
Abdel Aziz ha aggiunto che durante la visita di mercoledì, il governatore ha ispezionato un convoglio medico che rifornisce i lavoratori e “un lavoratore ha detto al governatore che il suo stipendio non supera i 3500 LE”.
Secondo una dichiarazione della CTUWS pubblicata sabato, i lavoratori chiedono ora che il salario minimo sia portato a 6.000 LE, con aumenti salariali in base all’anzianità di servizio e una riduzione degli stanziamenti fiscali.
Chiedono inoltre che la loro indennità giornaliera per i pasti sia aumentata a 30 LE, per un totale di 900 LE al mese invece degli attuali 210 LE al mese, con un canto che circolava durante lo sciopero in cui si affermava che l’importo copre a malapena “il prezzo di un litro di latte”.
La dichiarazione del CTUWS di sabato [24 febbraio] ha sottolineato che i membri del comitato sindacale ufficiale dell’azienda, affiliato alla Federazione sindacale egiziana allineata allo Stato, hanno cercato di dissuadere i lavoratori dallo sciopero e di intimidirli, ma sono stati espulsi dalla piazza.
Una figura di spicco del comitato sindacale ufficiale dell’azienda ha dichiarato giovedì a Mada Masr, a condizione di anonimato, che il comitato “preferisce la negoziazione allo sciopero, ma sostiene le richieste dei lavoratori”.
Ghazl al-Mahalla ha agito da catalizzatore alla fine del 2006 per una rinascita dell’azione sindacale a livello nazionale, quando uno sciopero di decine di migliaia di lavoratori della fabbrica si è riverberato in un movimento di scioperi simili in altre fabbriche del Paese.
*Su loro richiesta, Mada Masr ha utilizzato pseudonimi per tutte le fonti.
***
EGITTO:
LE FORZE DI SICUREZZA ARRESTANO LAVORATORI DI GHAZL EL MAHALLA
A CAUSA DEL LORO SCIOPERO
E LA DIREZIONE EMETTE AVVISI DI LICENZIAMENTO NEI LORO CONFRONTI –
11 marzo 2024
Comunicato stampa del Comitato per la Giustizia
Ginevra – 6 marzo 2024
In uno sviluppo preoccupante, la Sicurezza Nazionale di Gharbia, in Egitto, avrebbe trattenuto almeno cinque dipendenti della rinomata azienda tessile Ghazl El-Mahalla, nonostante la decisione dei lavoratori di disperdere il loro sciopero del 29 febbraio 2024.
I dipendenti hanno iniziato lo sciopero per chiedere l’applicazione del salario minimo.
Tra i detenuti ci sono Wael Abu Zuwayed e Mohamed Mahmoud Tolba, attualmente trattenuti presso la sede della Sicurezza Nazionale a Tanta. Essi si aggiungono ad altri tre lavoratori, Sabah Ali al-Qattan, Muhammad al-Attar e Abdel Hamid Abu Amna, anch’essi detenuti.
Wael Abu Zuwayed è stato portato davanti alla Procura della Sicurezza di Stato del Cairo, dove è stato deciso di trattenerlo in custodia cautelare per 15 giorni. È accusato di aver aderito a un gruppo formato in violazione della legge e di aver diffuso false informazioni.
Con una mossa controversa, il 4 marzo la direzione di Ghazl El Mahalla ha emesso avvisi di licenziamento per i lavoratori detenuti, Wael Muhammad Abu Zuwayed e Muhammad Mahmoud Tolba. L’azienda sostiene che la loro assenza dal lavoro è durata dieci giorni, ignorando opportunamente che è avvenuta in seguito alla loro detenzione da parte della Sicurezza Nazionale.
Il Comitato per la giustizia (CFJ) ha condannato le detenzioni, affermando che lo sciopero è una reazione “spontanea” alle difficoltà economiche dell’Egitto e alla confusione della politica finanziaria. Il CFJ sottolinea la necessità di un dialogo costruttivo e di soluzioni realistiche per affrontare le legittime richieste dei lavoratori, invece di ricorrere alla repressione e all’intimidazione. […]
***
LE NUOVE AZIONI DEI LAVORATORI OFFRONO UNA SPERANZA DI CAMBIAMENTO IN EGITTO
– David Johnson, da: http://www.socialistparty.org
Oltre a subire le pressioni delle masse per la vile risposta del regime egiziano agli spietati attacchi dello Stato israeliano a Gaza, il presidente “uomo forte” Sisi deve affrontare la crescente rabbia dei lavoratori. L’aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari ha colpito duramente i lavoratori egiziani a basso salario, ma ci sono segnali di una ripresa della lotta.
Circa 14.000 lavoratori tessili della più grande fabbrica egiziana, la Misr Spin-ning and Weaving Company, a Mahalla al-Kubra, nella regione del Delta del Nilo, hanno iniziato una settimana di sciopero il 22 febbraio. I lavoratori di una delle maggiori filiali della società immobiliare Talaat Moustafa Group, la Alexan-dria Construction, al Cairo, hanno protestato il 28 febbraio.
Sono state le lavoratrici della fabbrica di abbigliamento Mahalla a iniziare a scandire slogan che si sono rapidamente diffusi da un edificio all’altro. Il personale di sicurezza ha bloccato le uscite per impedire che questi lavoratori, così come quelli della centrale elettrica in loco, si riunissero nella piazza centrale. Tuttavia, il terzo giorno, 7.000 scioperanti si sono radunati lì. Decine di persone sono state arrestate. Come di consueto, il comitato sindacale ufficiale gestito dallo Stato ha denunciato lo sciopero, ma i lavoratori li hanno cacciati dalla manifestazione.
Questo evento riecheggia lo storico sciopero del 2006, quando le donne di Mahalla iniziarono lo sciopero che fu un passo fondamentale verso la rivolta del 2011 che mise fine ai 31 anni di governo del presidente Hosni Mubarak. Nel 2008, la città ha assistito a una rivolta che si sarebbe ripetuta su scala nazionale tre anni dopo.
[…] Lo sciopero è terminato dopo una settimana, in seguito all’intervento del Ministro del settore pubblico. La direzione ha accettato di pagare un minimo di 6.000 LE al mese e la maggior parte dei lavoratori arrestati è stata rilasciata. Un’offerta precedente, che includeva il pagamento degli straordinari, la partecipazione agli utili e l’assicurazione sanitaria, non è stata accettata.
Protesta dei lavoratori edili
Centinaia di lavoratori della Talaat Moustafa hanno protestato davanti alla sede dell’azienda. L’azienda ha licenziato lavoratori con contratti a tempo indeterminato e li ha sostituiti con lavoratori temporanei a condizioni peggiori. I lavoratori hanno chiesto pagamenti arretrati, un bonus per il costo della vita, una migliore assicurazione sanitaria e dispositivi di sicurezza nei cantieri.
Le condizioni dei cantieri sono pessime, non sono disponibili dispositivi di sicurezza e la copertura sanitaria è insufficiente. Molti lavoratori licenziati sono stati feriti sul lavoro o soffrono di malattie croniche.
I lavoratori hanno riferito ai giornalisti che i criteri per i bonus e gli aumenti sono oscuri, ma vengono costantemente erogati a persone imparentate o collegate ai dirigenti. I dirigenti e i loro assistenti ricevono benefici sontuosi, mentre le retribuzioni dei lavoratori rimangono basse.
Insolitamente, la polizia non ha tentato di bloccare la protesta, anche se in passato ha fermato proteste più piccole. Tuttavia, il 4 marzo una protesta dei lavoratori degli uffici è stata impedita quando le forze di sicurezza hanno bloccato i cancelli.
Ma poi centinaia di guardie di sicurezza dell’azienda si sono rifiutate di iniziare il loro turno! Hanno chiesto salari più alti, migliori benefit, orari di lavoro e ferie. “I nostri stipendi sono molto bassi, pari a 3.000 LE. Lavoriamo per oltre 14 ore al giorno, a differenza del resto dei dipendenti. Riceviamo il bonus trimestrale a una percentuale inferiore rispetto a loro”, ha spiegato una guardia.
Nel giro di 30 minuti, un alto dirigente li ha incontrati, promettendo di pagare un aumento entro due mesi, dopodiché la protesta è terminata.
Il regime di Mubarak rimane
Il gruppo Talaat Moustafa ha avuto enormi contratti per la costruzione della nuova capitale che il presidente Sisi ha supervisionato. Nell’ultimo anno ha triplicato le sue attività nel settore immobiliare e dell’ospitalità, nonostante la crisi economica dell’Egitto. Negli ultimi mesi il prezzo delle sue azioni è salito, facendo guadagnare milioni di dollari al suo multimilionario azionista principale, Talaat Moustafa. Uno degli uomini più ricchi dell’Africa, era vicino al figlio di Hosni Mubarak, Gamal, odiato dai lavoratori per aver spinto una vasta privatizzazione quando il padre era presidente.
Nel 2008, Talaat Moustafa è stato riconosciuto colpevole di aver pagato 2 milioni di dollari a un ex poliziotto per uccidere la cantante libanese Suzanne Tamim. Gli altri principali azionisti del Gruppo Talaat Moustafa sono la famiglia Bin Laden dell’Arabia Saudita.
A febbraio, la società ha concluso un accordo di partnership con la società di investimenti degli Emirati Arabi Uniti ADQ per la costruzione di una nuova e vasta città turistica a Ras el-Hikma, sulla costa mediterranea, a ovest di Alessandria. L’operazione da 35 miliardi di dollari, compresa la vendita di terreni da parte dell’esercito, aiuterà notevolmente il governo di Sisi a pagare i 42 miliardi di dollari di debiti e gli interessi che dovrà pagare quest’anno. Molti sono gli interrogativi sollevati, tra cui la fattibilità del progetto, il suo costo ambientale, il vero valore del terreno, come si sia arrivati alla proprietà dell’esercito, quale sia l’opinione dei residenti locali (che non sono stati consultati) e quali controlli ci saranno sui futuri profitti in una “zona economica libera”.
Il disperato bisogno di valuta estera del governo Sisi lo ha costretto a vendere beni di proprietà dello Stato. Ras el-Hikma si aggiunge alla lista crescente di aziende e terreni egiziani ora sotto la proprietà e il controllo del Golfo.
Le gravi disuguaglianze, la corruzione e la brutale repressione dell’opposizione del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak sono continuate, e persino aumentate, sotto Sisi. I recenti scioperi e le proteste dei lavoratori potrebbero segnare l’inizio di una nuova ondata di azioni della classe operaia, come quella sviluppatasi negli ultimi anni di Mubarak.
Il risveglio della classe operaia egiziana potrebbe essere un potente fattore per porre fine alla crisi di Gaza, aprire il valico di Rafah agli aiuti umanitari e incoraggiare i lavoratori e i poveri di tutto il Medio Oriente e del Nord Africa a spodestare i loro governanti mega-ricchi in tutta la regione.
Per porre fine alla povertà capitalista, alla guerra e alla distruzione dell’ambiente è necessario costruire sindacati indipendenti e partiti dei lavoratori con programmi socialisti, democratici e internazionalisti.
traduzione di un articolo apparso su “Mada Masr” ed estratti dal sito del Socialist Party britannico:
22/03/24
Un omaggio a Tina Modotti, una grande donna degli anni 20, attivista politica di rilievo alla quale la Galleria Nazionale Jeu de Peume di Parigi ha dedicato una bellissima mostra
20/03/24
GENOCIDIO IN CORSO, CONTRO DONNE BAMBINI OSPEDALI E OPERATORI SANITARI, video/testimonianza di un infermiere e articolo sulle donne palestinesi che devono partorire sotto le bombe: Partorire a Gaza Nord Gaza: situazione catastrofica
Partorire durante la guerra: “Sentivo la mia carne strapparsi”
Le donne di Gaza stanno sperimentando aborti spontanei, nascite senza anestesia, parti prematuri e morti neonatali.
di Eman Ashraf Alhaj Ali (*)
La difficile situazione delle future mamme è uno straziante sottotitolo della più grande tragedia che si sta consumando nella Striscia di Gaza. All’interno dell’enclave assediata, il santuario del grembo materno è diventato un campo di battaglia dove la vita in fiore vacilla sull’orlo del baratro, minacciata dallo stress del conflitto, dallo spettro della fame e dal potenziale omicidio della madre del bambino.
“Numerose donne sono arrivate in ospedale morte o morenti, troppo tardi per essere salvate, insieme ai loro bambini“, ha detto al New Arab la pediatra di Medici Senza Frontiere Tanya Haj-Hassan. “Per alcuni, tuttavia, potremmo fare tagli cesarei post-mortem“, risparmiando almeno una delle vite. Secondo The Lancet, si stima che 183 donne partoriscano ogni giorno a Gaza, di cui il 15% ha bisogno di cure mediche a causa della gravidanza o di complicazioni legate al parto.
Però quasi il 40% degli ospedali sono distrutti o funzionanti solo parzialmente e quasi due terzi delle cliniche di assistenza sanitaria di base sono chiuse. Mentre gli ospedali sono sotto pressione sotto il peso della domanda travolgente e delle risorse in diminuzione, le future mamme si trovano di fronte a un terribile dilemma: partorire in mezzo al caos a casa o rischiare il pericoloso viaggio in cerca di assistenza medica. I corridoi delle strutture mediche, un tempo affollati, traboccanti di attesa, ora testimoniano l’agonia silenziosa delle madri che partoriscono tra le macerie, le loro grida attutite dal fragore assordante del conflitto. Il tributo della guerra si estende oltre il regno fisico, infiltrandosi nel tessuto stesso della salute materna: il benessere emotivo delle donne.
Le future mamme come Aya Ahmad devono andare avanti nonostante non sappiano se il loro bambino vive ancora nel loro grembo, dopo che il feto si è improvvisamente calmato.
E Asmaa Sendawi ha recentemente partorito nelle condizioni più precarie. Come crescerà il nuovo bambino?
“Ho partorito il mio bambino nel cuore della notte“, ricorda Asmaa. “Era troppo pericoloso camminare per strada e abbiamo provato molte volte a chiamare un’ambulanza. Alla fine, siamo riusciti a prendere un carretto trainato da asini. E ci è voluta un’ora per arrivare all’ospedale più vicino che era ancora funzionante, almeno un po’. Ce l’ho fatta a malapena“.
Le donne che sperimentano complicazioni durante il parto affrontano gravi pericoli.
Khadija Ahmed, 29 anni, è finalmente rimasta incinta dopo 10 anni di costi esorbitanti mentre tentava il trapianto di embrioni. Desiderava ardentemente il giorno della nascita e il momento in cui avrebbe potuto abbracciare il suo bambino. Tuttavia, Khadija ha avuto bisogno di un taglio cesareo e non c’è stata alcuna anestesia. Secondo la CNN, l’anestesia è tra gli articoli più frequentemente rifiutati per l’importazione a Gaza da Israele, insieme a stampelle, ventilatori, macchine a raggi X e bombole di ossigeno.
“Potevo sentire il coltello squarciare gli strati del mio stomaco e sentire il suono della mia carne che si strappava. Non riesco nemmeno a descrivere come suona; è paragonabile a nient’altro. Sentivo ogni volta che l’ago mi pungeva la pelle e il filo veniva tirato attraverso“.
Fortunatamente, Khadija è svenuta per il dolore, portando un po’ di sollievo. Il suo bambino è sopravvissuto e sta bene, ma è molto anemica ed esausta. Se sopravvivono a questa prova, le attendono molte nuove paure. The Lancet riporta che molte madri vengono dimesse dall’ospedale entro tre ore dal parto. “Mi sto rifugiando assieme a molti sfollati nelle tende a Rafah, nonostante il clima rigido dell’inverno“, dice Noor Zakari. “Sono preoccupata per la salute del mio bambino appena nato, perché non ci sono abbastanza vestiti o coperte“. “Ogni giorno porta con sé nuovi orrori, nuove tragedie“, riflette Tanya di Medici Senza Frontiere, con la voce carica di dolore. “Stiamo assistendo alla distruzione sistematica di un’intera generazione, una generazione derubata della speranza, dell’innocenza, della vita stessa“.
L’impennata degli aborti spontanei, dei parti prematuri e delle morti neonatali testimonia l’impatto devastante della guerra sui membri più vulnerabili della società. Eppure, la presenza di una nuova vita evoca una speranza che tremola come una candela nel vento, un faro di luce in mezzo all’oscurità che avvolge Gaza. Di fronte ad avversità inimmaginabili, lo spirito indomito delle madri di Gaza sopravvive, a testimonianza del potere duraturo dello spirito umano di perseverare nelle circostanze più difficili. Tra le strade di Gaza cosparse di macerie, le future mamme si aggrappano al più debole barlume di speranza, la loro resilienza è una testimonianza del potere duraturo dello spirito umano di fronte a imperscrutabili avversità. Nei momenti più bui, le loro storie fungono da faro di luce, un promemoria del fatto che anche in mezzo al caos del conflitto, lo spirito umano rimane intatto.
(*) Tratto da We are not numbers.
Mamme in 30 minuti
di Maurizio Debanne – Medici Senza Frontiere
In 30 minuti, a Gaza, una donna che ha partorito naturalmente deve lasciare il suo letto d’ospedale per fare posto alle nuove partorienti. Quando la lista d’attesa non è lunga, le dimissioni avvengono dopo 2 ore. Per il cesareo, le donne devono lasciare l’ospedale dopo solo 2 ore nei giorni più caotici, ma comunque mai oltre le 6. E questo perché a Gaza solo 13 dei 36 ospedali sono ancora parzialmente funzionanti. Ogni giorno, quando cammino per andare in ufficio, non faccio altro che pensare a quanto possano valere 30 minuti…
L’ultima cosa da perdere
La suocera di Noor ha le idee chiare: sua nipote si deve chiamare Salam, perché mai come oggi, da queste parti, c’è bisogno di Pace. Ma Noor non ha ancora deciso, è stanca e pallida. Ha bisogno di assumere ferro e vitamina C. Noor è una delle nostre pazienti in un ospedale a Rafah, appena starà meglio dovrà tornare a vivere nella sua tenda di plastica. La sua vera casa è a Jabalya, nel nord, ma oggi è ridotta a un cumulo di macerie.
Nel letto a fianco riposa Reham, neomamma di un’altra bambina che un nome ce lo ha già.“Con questo sorriso – dice mostrando il volto della neonata a un nostro medico – non può che chiamarsi Amal (in arabo Speranza), la speranza – continua – incoraggia i palestinesi ad andare avanti nonostante gli attacchi indiscrimanti di questa guerra”. Ma soprattutto, la Speranza, è l’ultima cosa che Reham vuole perdere.
(*) Tratto da Maurizio Debanne, Diario da Gerusalemme.
Gaza: oggi diventare madri è una sfida quotidiana
1° febbraio 2014. A Gaza per le donne partorienti e i loro figli è sempre più difficile accedere alle cure mediche pre e post-natali. Nell’area di Rafah, l’ospedale di maternità è l’unica struttura rimasta per assistere le donne incinte. Ad oggi a causa della continua crescita dei bisogni della popolazione e una carenza di risorse, l’ospedale di Rafah è in grado di rispondere solo ai parti più a rischio e urgenti. Siamo profondamente preoccupati per la crescente mancanza di assistenza ostetrica per le donne a Gaza.
Triplicato il numero di parti all’ospedale di Rafah
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono circa 50.000 le donne incinte a Gaza, e circa 20.000 bambini sono nati dall’inizio della guerra, secondo l’UNICEF.
A causa della crisi umanitaria in corso – con i servizi sanitari primari inaccessibili e l’impossibilità di raggiungere gli ospedali per mancanza di carburante oltre che la scarsa capacità delle strutture sanitarie ancora funzionanti – le donne in gravidanza a Gaza non hanno avuto accesso ai controlli medici per mesi. Molte sono costrette a partorire in tende di plastica o in edifici pubblici. Chi riesce a partorire in un ospedale, spesso ritorna nel proprio rifugio di fortuna qualche ora dopo aver fatto un parto cesareo.
“Con così tante persone sfollate, la situazione a Rafah è spaventosa. Tutti gli spazi sono sovraffollati, con persone che vivono in tende, scuole e ospedali. L’ospedale emiratino sta attualmente affrontando tre volte il numero di parti che gestiva prima della guerra”, dice Pascale Coissard, coordinatrice dell’emergenza di MSF a Gaza.
Per ridurre il rischio di morbidità e mortalità tra le madri e i neonati, supportiamo l’ospedale con assistenza post-parto e abbiamo aggiunto 12 nuovi posti letto al reparto arrivando a una capacità totale di 20 letti, consentendo così a più pazienti di ricevere un monitoraggio adeguato dopo il parto. Tuttavia, senza le giuste forniture e con il sistema sanitario sotto pressione molte madri vengono dimesse solo dopo poche ore dal parto. In alcuni casi a causa della difficoltà d’accesso ai servizi di salute materno infantile, molte donne incinte non hanno ricevuto nessun tipo di assistenza dall’inizio della guerra e non hanno fatto visite di controllo.
Le criticità delle cure prenatali e post-parto
Quando le donne incinte non hanno accesso adeguato alle cure mediche, al cibo a sufficienza o a un rifugio appropriato, sia loro che i loro figli sono più esposte a problemi di salute, comprese le infezioni. I figli di donne denutrite incinte o in allattamento sono a rischio immediato di problemi di salute e potenziali carenze nello sviluppo a lungo termine. Oltre un terzo delle pazienti in cerca di cure prenatali soffre di anemia, una condizione critica per le donne incinte. Inoltre, quasi la metà di queste donne ha avuto infezioni gastro-urinarie, come ad esempio infezioni alle vie urinarie.
Rana Abu Hameida, 33 anni, è stata ammessa al reparto di maternità dell’ospedale al sesto mese di gravidanza a causa di complicazioni, senza aver mai fatto nessuna visita dall’inizio del conflitto.
“Da quando siamo sfollati, è stato difficile trovare il modo per andare in ospedale e accedere ai servizi sanitari. È difficile trovare un posto per le cure o organizzare la mia vita in modo da poter ricominciare i controlli mensili. Vivo in una tenda, la vita è dura, soprattutto quando bisogna trovare cibo o acqua e dormire senza un giaciglio adeguato”, dice Abu Hameida.
Nella prima settimana di gennaio, le nostre ginecologhe ed ostetriche hanno fornito cure prenatali ad oltre 200 pazienti nella clinica di Al Shaboura. Nel reparto di cure post-parto dell’ospedale emiratino, nella prima settimana di espansione del reparto, abbiamo ricevuto 170 pazienti.
Quel che cerchiamo di fornire sono: cure prenatali, cure post-parto, supporto alla salute mentale, screening per la malnutrizione, cibo terapeutico supplementare. Tuttavia, senza sufficienti aiuti umanitari a Gaza e senza la protezione delle poche strutture sanitarie ancora in funzione, la fornitura di cure mediche continuerà ad essere una goccia nell’oceano.
Ribadiamo ancora una volta la richiesta per un cessate il fuoco immediato e incondizionato e chiediamo che le strutture sanitarie siano protette per salvare vite umane.
È necessario ripristinare immediatamente il flusso di aiuti umanitari a Gaza e ristabilire il sistema sanitario, da cui dipende la sopravvivenza di madri e bambini di Gaza.
Guerra Israele-Palestina: cosa vuol dire partorire in casa a Gaza
Senza elettricità e attrezzature, un’infermiera fa nascere il bambino di sua sorella in mezzo ai boati di un bombardamento israeliano
di Maha Hussaini (*)
Gaza, Palestina occupata -11 dicembre 2023
Usando forbici generalmente utilizzate per tagliare la carta, mollette di plastica per i panni e la luce fioca dei cellulari, Nour Moeyn ha tagliato il cordone ombelicale della nipote appena nata.
Sotto un intenso bombardamento israeliano, non c’erano né attrezzature, né elettricità per l’infermiera venticinquenne, mentre faceva nascere la bambina di sua sorella in mezzo ai boati degli attacchi aerei e dell’artiglieria. L’ospedale più vicino era aperto. Ma la famiglia non poteva rischiare di uscire di casa nel cuore della notte e andare in ospedale, mentre i quartieri intorno a loro erano sotto attacco. Inoltre, gli ospedali e le ambulanze a Gaza sono affollate di palestinesi uccisi o feriti negli attacchi israeliani. La sorella di Moeyn, Aya, non ha avuto altra scelta che partorire nella casa della sua famiglia, dove si era trasferita all’inizio della guerra.
“Intorno all’una di notte, il dolore del travaglio di Aya è iniziato, ed era così forte che non poteva sopportarlo. Nel giro di mezz’ora, la testa della bambina ha iniziato a emergere e abbiamo dovuto agire immediatamente”, racconta Nada Nabeel, 31 anni, cognata di Aya. “Non potevamo nemmeno pensare di andare in ospedale, perché sarebbe stata una condanna a morte per Aya, la bambina e tutti coloro che l’avessero accompagnata. I bombardamenti erano intensi e potevamo sentire i carri armati israeliani muoversi nelle zone vicine.”
Sebbene in passato Moeyn abbia assistito a numerosi parti, non lo aveva mai fatto da sola. “Ma ha deciso di procedere, altrimenti sua sorella e la bambina sarebbero morte”, ha detto Nabeel.
Uno dei problemi più basilari, quando si esegue tale procedura a casa, di notte, è la mancanza di elettricità.
Subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha tagliato tutte le forniture di elettricità e carburante all’enclave costiera. Da allora, i palestinesi hanno fatto affidamento sulla luce delle candele, sui LED alimentati a batteria e sui pannelli solari.
“Durante la guerra ci siamo abituati a sederci al buio, a volte con una piccola candela o una luce a LED. Ma questa volta non potevamo fare affidamento sulla luce delle candele e, anche se le batterie del nostro telefono stavano per scaricarsi, tutti noi abbiamo acceso le torce sui nostri cellulari per aiutare Nour a vedere bene,” ha detto Nabeel.
Aya, suo marito e i loro due figli avevano lasciato la loro casa in al-Rimal Street, nel centro di Gaza City, durante la prima settimana di guerra, e si erano rifugiati nella casa della sua famiglia nel quartiere di al-Sahaba, a est. “I suoni dei bombardamenti erano molto forti, mescolati alle grida di Aya e alle voci dei suoi parenti e di altri sfollati che pregavano” – Nada Nabeel, sorella di Aya.
La casa ha diversi piani e appartamenti, quindi l’intera famiglia allargata è stata la benvenuta.
Durante i tempi di guerra, le famiglie di Gaza tendono a riunirsi in un unico luogo, in cerca di protezione e conforto. C’è un desiderio comune di vivere o morire insieme.
Nabeel ha descritto la nascita del nuovo membro della famiglia come qualcosa uscito dallo schermo di un film e “oltre la realtà”.
“Le donne dirigevano le loro torce verso Aya e gli uomini fuori pregavano per la sua salvezza. Tutti nell’edificio, tutti gli sfollati in tutti gli appartamenti, erano svegli e ripetevano ‘ya rab, ya rab’ [in arabo significa oh, Dio], “. “I suoni dei bombardamenti erano molto forti, mescolati alle grida di Aya mentre lottava per partorire e alle voci dei suoi parenti e degli altri sfollati che pregavano e le dicevano di essere forte e di resistere. Tutto era surreale. Per quanto possa descrivere i dettagli, nessuno può immaginare la scena”.
Nessuna attrezzatura medica
Secondo il ministero della Sanità palestinese, l’esercito israeliano ha distrutto 52 strutture mediche e 56 ambulanze nella Striscia di Gaza, e ha ucciso almeno 283 operatori sanitari. Finora sono stati uccisi circa 18.000 palestinesi, la stragrande maggioranza civili. La famiglia di Aya non si aspettava che partorisse così presto, quindi non era stato concordato alcun piano di emergenza. Senza attrezzature mediche, hanno dovuto utilizzare oggetti domestici che avevano in casa. “Il tempo stava per scadere e temevamo per la vita della bambina mentre Nour e Aya stavano lottando per tirarla fuori. Si udivano le voci delle preghiere e io tenevo il cellulare con la torcia, leggevo il Corano e piangevo”, ha continuato Nabeel.
“Pochi minuti dopo, la bambina è finalmente nate e una volta uscita, Aya e tutti sono scoppiati in lacrime. È stato un momento di sollievo per tutti noi. Nour ha abbracciato forte Aya e l’ha baciata sulla fronte, e gli sfollati applaudivano e ringraziavano Dio.” Nabeel ha detto che sono riuscite a cavarsela con forbici disinfettate e mollette da bucato, ma quando si è trattato della placenta, non c’era niente di appropriato a portata di mano per estrarla. “Nour ha dovuto eseguire le cure postpartum a mani nude, pulendo l’utero di Aya ed estraendo manualmente la placenta. E per fortuna, non ha dovuto tagliare parte della vagina durante il parto, quindi non ha avuto bisogno di suturarla”, ha aggiunto. “La mattina dopo, sono andati al complesso [medico] di al-Sahaba per controllare la salute di Aya e della bambina, e grazie a Dio erano in perfette condizioni.”
Secondo il dottor Adan Radi, ostetrico e ginecologo dell’ospedale al-Awda nel nord della Striscia di Gaza, ci sono circa 55.000 donne incinte a Gaza che necessitano di assistenza sanitaria regolare.
“Abbiamo chiamato la piccola Massa [diamante, in arabo] perché le condizioni in cui è nata erano insolite, ma anche perché è preziosa e testarda”, ha detto Nabeel. “Ha insistito a nascere, nel mezzo di tutte le circostanze avverse.”
(*) Fonte: English version. Versione italiana tratta da Invictapalestina.org.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”.
Immagini:
1) Un neonato all’ospedale Al Shifa a Gaza, 26 ottobre 2023. Foto di ©️ Bisan Owda per UNFPA. Immagine tratta dal sito di We are not numbers.
2-3) Immagine tratta dal sito di Medici Senza Frontiere.
4) Una donna palestinese, Iman, tiene in braccio i suoi gemelli appena nati a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, 2 novembre (Reuters)
5) Una donna incinta di otto mesi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 10 novembre (AFP).