30/03/21

Domanda: E i medici obiettori di coscienza...?

Se siamo d'accordo che i medici che sono contrari a vaccinarsi per il covid, e che così boicottano apertamente e violano il piano governativo, non possano continuare ad avere rapporti con pazienti - sia perchè li metterebbero a rischio contagi sia perchè sarebbero loro stessi una "propaganda no vax" attiva e dissuasiva - piuttosto che essere fattore di conoscenza scientifica e di impegno per accertamenti preventivi delle persone prima della loro vaccinazione,
come mai, invece, i "medici-obiettori di coscienza" che mettono a rischio la salute psicofisica delle donne che vorrebbero abortire, che impediscono attivamente (spesso facendo o permettendo negli ospedali una propaganda antiabortista) l'attuazione di una legge dello Stato, che impongono alle donne di andare a strutture private (spesso proprio quelle degli "obiettori") attaccando apertamente la sanità pubblica, che "gli dà da mangiare", che contrappongono il loro diritto "di coscienza" individuale (mentre negano il diritto individuale delle donne) al diritto sociale, restano al loro posto?
NOI VOGLIAMO CHE come i medici che non si vaccinano siano trasferiti o sospesi, I MEDICI "OBIETTORI DI COSCIENZA" SIANO OBBLIGATI A PRATICARE L'INTERRUZIONE DI GRAVIDANZA O VENGANO SOSPESI.

29/03/21

Costruiamo dovunque la nuova assemblea donne/lavoratrici

Il 9 aprile nuova assemblea donne/lavoratrici, on line, dalle ore 17 su "8 MARZO E POI"
per una informazione, valutazione dell'8 marzo, a un mese 
per socializzare quanto sta avvenendo dopo l'8 marzo, soprattutto le nuove lotte delle lavoratrici, delle compagne
per iniziative che stanno emergendo da queste lotte e da una iniziale inchiesta che si sta facendo in alcune fabbriche e posti di lavoro...
come dal ritorno della propaganda contro il diritto d'aborto

Agli inizi di aprile comunicheremo il link.
Vogliamo che questa sia un'ultima assemblea telematica, perchè le prossime siano in presenza.

Per il 9 aprile facciamo girare l'informazione.

Mfpr
Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe

VACCINI/SANITA' - VOGLIAMO CAPIRE... PER AGIRE - ASSEMBLEA TELEMATICA 1° APRILE COL RICERCATORE FABRIZIO CHIODO

Il 1° aprile ore 17 collegarsi on line 

28/03/21

Un'altra leader indigena assassinata in Colombia da questo mortifero sistema capitalista

La sindaca del Resguardo del Cabildo Camentzá Biyá, nonché leader indigena María Bernarda Juajibioy, che fa parte delle 15 popolazioni indigene del dipartimento di Putumayo, è stata uccisa da un commando armato che ha visto anche la morte della nipotina neonata di un anno e mezzo, Jazzlín Camila Luna Figueroa.
La figlia, Paola Patricia Pujimuy, 22 anni, con Sofía Solarte, sono rimaste ferite e si trovano all’ospedale di Puerto Asís.

E’ accaduto mercoledì 17 marzo, alle 6:45 del pomeriggio; secondo le prime informazioni, la leader si stava mobilitando con altre donne in motocicletta, tra la strada del Cabildo, nel villaggio di La Esmeralda, a Orito (Putumayo), per l’ispezione di El Placer, nel comune di Valle del Guamuez. La sua moto è stata bloccata da uomini armati che hanno aperto il fuoco sulla donna e la nipote, uccidendole.
L’Organizzazione nazionale indigena della Colombia (Onic) ha condannato l’assassinio di Juajibioy sottolineando che “le donne indigene sono le guardiane della sopravvivenza dei popoli”. Si tratta di femminicidi politici che stanno sterminando leader indigene nel silenzio complice del governo colombiano neoliberista di Iván Duque.
Questa situazione è causata, tra le altre cose, dalle costanti lotte per il controllo territoriale tra il gruppo paramilitare Commandos della Frontiera e il Fronte Carolina Ramírez delle dissidenze della FARC.

D’altra parte, i consigli indigeni e le riserve Nasa del Putumayo hanno denunciato che continuano gli sradicamenti forzati nel loro territorio, fatto che secondo loro “non riconosce la loro autonomia territoriale, l’ancestralità e il diritto alla consultazione per entrare nel territorio”.

L’organizzazione zonale indigena Putumayo (Ozip) ha espresso solidarietà ai parenti della leader e al popolo Kamentsá: “Dichiariamo dinanzi alla comunità nazionale e internazionale un richiamo all’allerta per l’integrità e la protezione di donne, bambini e ragazze appartenenti alle popolazioni indigene del dipartimento di Putumayo. Ribadiamo la nostra preoccupazione e indignazione per questi atti di sterminio fisico e culturale che aumentano ogni giorno”, hanno detto in una nota. Allo stesso modo, l’organizzazione ha affermato che questi atti “sono il prodotto della mancanza di garanzie da parte del governo” e che il caso rappresenta una maggiore serietà, tenendo conto che l’11 marzo 2021 il ministro dell’Interno, Daniel Palacios Martínez, e Il Governatorato di Putumayo ha partecipato al tavolo territoriale delle garanzie per il lavoro dei leader sociali e dei processi comunitari. Per l’organizzazione, l’omicidio mostra che non ci sono stati risultati, affermando: “Riteniamo lo Stato colombiano responsabile della continuità della violenza nei territori, a causa della sua omissione nel dovere legale di garante dei diritti umani e della sua riluttanza a rispettare ordini, sentenze e altre disposizioni legali per la protezione delle popolazioni indigene”.

Secondo una statistica della Ong colombiana Indepaz, con María Bernarda Juajibioy, sono 34 gli attivisti indigeni e i difensori dei diritti umani assassinati nel 2021.
Vittime che si sommano alle circa 1.148 vittime avvenute dopo l’inizio della firma degli Accordi di pace fra le Farc e il governo di Bogotà nel 2016.

Solidarietà con il centro delle donne di Vienna e info da compagne egiziane

Dalle compagne di Amazora:
Care tutte, vi inviamo un link alla traduzione di un testo di un'attivista egiziana che ci è piaciuto molto, lo trovate qui: https://maddentrofuorii.noblogs.org/
Purtroppo Sanaa Seif, l'attivista egiziana arrestata in giugno perché chiedeva come stava suo fratello Alaa, di cui non aveva notizie da mesi, è stata condannata a un anno e mezzo, qui trovate qualche info in più: https://www.pressenza.com/it/2021/03/egitto-condannata-a-un-anno-e-mezzo-lattivista-sanaa-seif-per-accuse-fasulle/
Infine vi chiediamo di dare solidarietà al Frauen zentrum di Vienna, seguendo le istruzioni che ci danno le compagne del centro in fondo alla mail qui sotto.
la solidarietà è un'arma femminista fondamentale
amazora

Solidarietà con FZ- Vienna Il centro di comunicazione per donne, lesbiche, ragazze e donne migrante, in breve FZ( Frauenzentrum = centro delle donne) è uno spazio pubblico autonomo e femminista per donne, lesbiche, ragazze e

27/03/21

L'Aquila 27 marzo: Erdogan assassino, siamo tutte turche!


Dall'intervento del MFPR AQ al presidio di oggi:

La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale promosso dal Consiglio d’Europa nel 2011 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. 

La Turchia, quando Erdogan era già al governo, fu il primo paese a firmarlo, ma unicamente per ottenere credito in Europa e utilizzarlo come bandierina per dimostrare e dichiarare al mondo i presunti avanzamenti nella parità di genere nel Paese.

Ora il fascista Erdogan dice basta, si può rottamare. E’ chiaro che tale Convenzione era una nota di disturbo, anche se rimasta da sempre nel cassetto.

Siamo tutte coscienti che la Convenzione non possa fermare la violenza, ma il ritiro della Turchia dall'accordo ha un significato politico chiaro e preciso: si vuole un governo sempre più conservatore ed autoritario, e se pensiamo al contesto internazionale tutto ciò e gravissimo, proprio l'anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica, mentre il governo della Polonia aveva annunciato di uscirne.

Le associazioni di donne e gruppi femministi in Turchia si sono immediatamente ribellate al ritiro della Turchia dalla Convenzione, perché ritirare la firma dalla Convenzione di Istambul significa legittimare femminicidi, stupri, attacco ai diritti delle donne. 

Secondo l’Oms, il 38% delle donne turche ha subito violenza almeno una volta, quattro donne su 10 hanno subito abusi fisici o sessuali, tre su 10 si sposano ancora minorenni.

Nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidi e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. Inoltre nei primi mesi del 2021 ci sono stati 65 femminicidi, al 33% delle ragazze non viene permesso di frequentare la scuola e all’11% delle donne non è permesso lavorare.

Da anni in Turchia il governo del fascista Erdogan impone un’immagine dei ruoli di genere che buona parte delle donne considera l’ennesimo esempio di patriarcato di Stato: prendersi cura della casa e dei figli, soprattutto farli i figli, almeno tre, per il bene della nazione e della famiglia patriarcale, che "rischia la dissoluzione a causa dell’avanzata della propaganda Lgbtqi - che Erdogan definisce terroristi - che puntano a distruggere la fabbrica sociale"

Il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul significa via libera a tutte le politiche e pratiche più reazionarie, sessiste contro le donne. Significa legittimare femminicidi, stupri, attacchi ai diritti delle donne, sostegno a partiti e forze più conservatrici e integraliste, in linea con la politica generale di Erdogan di massima repressione dei diritti umani, dei diritti delle donne.

Ma in Turchia le donne sono scese immediatamente in piazza con le bandiere viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”, e noi qui a L’Aquila con questa piccola, ma importante iniziativa, vogliamo dire che non sono sole: Siamo tutte donne turche e siamo al fianco di tutte le donne che in ogni parte del mondo combattono contro questo schifoso sistema capitalistico e patriarcale!




26/03/21

Sul presidio di ieri al consolato turco a Milano: "...solo la lotta delle donne potrà impedire di riportare indietro la ruota della storia..."


Giovedì 25 marzo si è tenuto il presidio promosso dall’assemblea naz. donne/lavoratrici di Milano davanti al consolato turco. Siamo state accolte da un numero esagerato di polizia quattro furgoni blindati posizionati in modo da non poter avvicinarci alla sede del Consolato, uno schieramento di forze a dir poco esagerato. 
Le attività legate alla Convenzione di Istanbul hanno sempre rappresentato un programma fondamentale per le associazioni di donne e gruppi femministi in Turchia che si sono immediatamente ribellate al ritiro dalla Convenzione stessa perché, come hanno affermato nelle manifestazioni: ritirare la firma dalla Convenzione significa legittimare femminicidi, stupri, attacco ai diritti delle donne. 
Le imponenti manifestazioni che le donne turche hanno messo in piedi contro il governo fascista Erdogan che vuole il ritorno a casa delle donne, in nome dell'unità e integrità familiare in un paese in cui è molto alto il numero di femminicidi, violenze domestiche, stupri coniugali, spose bambine, mutilazioni genitali femminili, è chiaro che tale Convenzione era una nota di disturbo, anche se rimasta da sempre nel cassetto, anzi usata come una bandierina e tirata in ballo all'occorrenza da Erdogan per dimostrare e dichiarare al mondo i presunti avanzamenti nella parità di genere nel Paese, ora dice basta, si può rottamare.
Il significato di questo gesto è inequivocabile: si vuole un governo sempre più conservatore ed autoritario, e se pensiamo al contesto internazionale tutto ciò e gravissimo, proprio l'anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica, mentre il governo della Polonia aveva annunciato di uscirne. 
Siamo tutte coscienti che la Convenzione non possa fermare la violenza, ma il suo ritiro ha un significato politico chiaro e preciso che tutte le donne comprendono, nelle manifestazioni le donne turche hanno affermato: “Noi fermeremo il femminicidio”, 
Le manifestazioni nel paese sono state tante e non si fermeranno e noi siamo con tutte loro, con tutte noi. 
Le donne e compagne che hanno partecipato al presidio hanno parlato di tutte queste cose con chi si è fermato e voleva sapere, il momento più commovente è stato il racconto di un signore turco che ci ha raccontato del "nazismo" che avanza nel suo paese, come vengono trattate e considerate le donne, ci ha ringraziato nel sostegno e solidarietà alla lotta delle donne turche che, mentre dicono al governo Erdogan “ritira la decisione, rispetta la Convenzione”, affermano con determinazione che non sono disposte a tornare indietro «Non stiamo zitte, non obbediamo» e che solo la lotta delle donne potrà impedire di riportare indietro la ruota della storia.

Appello alle lavoratrici e lavoratori della scuola

Questo sciopero viene immediatamente dopo l’8 marzo quando le lavoratrici della scuola si sono viste negare il diritto di scioperare nella Giornata internazionale della donna, a seguito del divieto della Commissione Garanzia Scioperi e di uno scellerato accordo tra Aran e OOSS concertative che limita ulteriormente il diritto di sciopero.  
Ogni limitazione di diritti comporta un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Già nella e con la pandemia i lavoratori e le lavoratrici della scuola si sono visti ripetutamente e improvvisamente rinchiusi in casa senza alcuna seria soluzione, anzi mantenendo e perseverando nel PCTO, ex alternanza scuola-lavoro, lavoro gratuito degli studenti, per renderli più addomesticati.
La pandemia ha scoperchiato i guasti prodotti da anni di politiche di tagli alla scuola, sempre più subordinata agli interessi del capitale.  Nelle diverse iniziative promosse da insegnanti, genitori, studenti durante la pandemia - che ha visto sostanzialmente come unica soluzione la chiusura parziale o totale delle scuole – è stata affermata la necessità di ribaltare tutte le politiche scolastiche e risolvere tutti i problemi pregressi, strutturali che lungi dall’essere risolti hanno evidenziato che contribuiscono a rendere l’ambiente scolastico poco  “salubre”:
- reperimento di spazi per permettere a tutti gli studenti di seguire in presenza, No alla DAD né alla Didattica integrata che vogliono rendere strutturali
- potenziamento dei mezzi di trasporto
- ripristino del servizio di medicina scolastica - tamponi periodici per studenti e personale - piano di vaccinazione con chiara informazione e seria distribuzione ed erogazione - no ai profitti capitalistici sulla pelle dei lavoratori e delle masse popolari
-Assunzione di personale docente e ATA, trasformazione dei contratti a tempo determinato in tempo indeterminato
-basta attacchi ai diritti dei lavoratori della scuola in nome dell’emergenza pandemai
-basta scuole paritarie finanziate anche per la chiusura durante il lockdown
-potenziamento della scuola pubblica e copertura di tutto il territorio nazionale a partire dai nidi, scuola dell’infanzia
-internalizzazione di tutti i servizi (assistenza agli studenti disabili- servizio di pulizieri...)
-ritiro dell’ Accordo sull’ulteriore riduzione del diritto di sciopero ARAN-OOSS concertativi.

Invitiamo tutte le lavoratrici e lavoratori della scuola ad aderire allo sciopero indetto per venerdì 26 marzo perché è necessario organizzarsi e lo sciopero è l’arma in più che serve ai lavoratori. 

Slai Cobas per il sindacato di classe scuola

Propaganda antiabortista al Niguarda di Milano - impediamola!


La direzione del Niguarda permette la propaganda antibortista davanti ai suoi cancelli proprio il giorno dopo l'ennesimo pronunciamento del Consiglio d'Europa contro l'Italia per le gravi carenze nel garantire il diritto d'aborto: il numero sempre crescente degli obiettori di coscienza, la lentezza nel diffondere l'aborto farmacologico,  i vergognosi tentativi di bloccarlo da parte di alcune regioni, Umbria, Marche, Abruzzi, rendono sempre più precario il principio di autodeterminazione della donna. L'obiezione di coscienza dei ginecologi è un assurdo: si privilegia la libertà di scelta (coscienza???) del medico, in base ai suoi principi personali rispetto alla libertà di scelta della diretta interessata: la donna. Che cosa succederebbe se un insegnante si rifiutasse di insegnare alle donne perché in base ai suoi principi è meglio che le donne rimangano ignoranti? 

L'obiezione di coscienza è un'altra forma di violenza sulle donne così come tutti gli ostacoli messi sul cammino dell'accesso all'aborto

Essere a favore o contro l'aborto non è una questione d'opinione: chi è contro l'aborto è contro il principio di autodeterminazione della donna, ed è profondamente odioso prevaricare, imporsi sui corpi e sulle menti altrui. 

Sappiamo tuttavia che la negazione del principio di autodeterminazione non è altro che un aspetto della doppia oppressione e del doppio sfruttamento della donna, in aumento in questo periodo di pandemia. Questo è il brodo culturale su cui crescono i femminicidi.

Ci meraviglia perciò che la direzione di un ospedale prestigioso come il Niguarda si presti a operazioni di questo genere e conceda spazi a chi vuol cancellare le poche conquiste che le donne hanno fatto in questi anni.

Abbiamo ricevuto la segnalazione da donne/lavoratrici che, recandosi al Niguarda, hanno sentito di subire un’ odiosa violenza e umiliazione

Ci riserviamo di promuovere delle iniziative nei prossimi giorni per difendere la dignità e i diritti delle donne

Inviamo la foto che ci è stata rigirata

Assemblea nazionale donne/lavoratrici – le compagne di Milano

25/03/21

Oggi presidio al Consolato turco a Milano - sfidando la massiccia presenza della polizia

Oggi presidio davanti il consolato turco - blindatissimo - promosso come assemblea nazionale donne/lavoratrici.

Abbiamo toccato con mano la necessità dell'iniziativa sia dalle parole di un migrante turco che ci ha ringraziate per aver voluto manifestare la solidarietà e il sostegno alle donne turche in lotta; sia dai cenni di assenso dei passanti che hanno letto con attenzione i cartelli esposti, ma anche da una migrante che ha voluto fotografare lo striscione che ha condiviso la solidarietà espressa.

le compagne di Milano del MFPR







O il lavoro o la vita


La pandemia ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online ma ha mostrato il lato oscuro del sistema produttivo, soprattutto per le donne. Il caso della Yoox di Bologna

«Non ci lasciano quella che si può chiamare una vita», è quanto affermano in un comunicato dal sito del coordinamento migranti le operaie dell’azienda Yoox, colosso di moda online con sede a Bologna, che protestano da mesi per un lavoro dignitoso. Si oppongono a turni disumani non spezzati dalla pausa pranzo e sono diventate un simbolo della battaglia per i diritti delle donne lavoratrici. 

Come spesso accade nei comparti del tessile, le lavoratrici sono in larga maggioranza donne (il 70% dell’intera azienda, ma la quasi la totalità nel reparto controllo qualità da cui è partita la protesta), di cui una gran parte madri (circa 500 su un totale di 1.437 dipendenti, gestiti oggi dalle società Mmp e Lis Group) che, infatti, denunciano in particolare come i turni non permettono loro di portare i figli a scuola o di passarci del tempo. Una realtà opposta a quella suggerita dall’azienda tramite immagini sul proprio sito  di un mondo ideale fatto di bambine e bambini felici di diverse nazionalità e donne realizzate e alla moda. 

A dare inizio alla protesta sono state le impiegate più anziane, che assunte circa dieci anni fa con il turno centrale, se lo sono viste spezzare in due: dalle 5.30 il primo turno e fino alle 22.30 quello serale. La sostituzione è avvenuta durante il cambio di appalto che ha interessato l’azienda nel gennaio del 2020, apparentemente per la necessità di distanziamento dovuta alla diffusione del Covid-19, ma secondo le dirette interessate seguendo un’idea già ventilata, tanto che trenta operaie avevano deciso di licenziarsi per l’impossibilità di conciliare la loro vita con i nuovi orari e accedere così almeno all’indennità mensile di disoccupazione.

«Noi madri ci siamo trovate di fronte a una scelta e abbiamo capito che se non avessimo lottato per i nostri diritti ci saremmo licenziate tutte», ricorda l’operaia Liuba Furtuna, attivista in Si Cobas. «Abbiamo provato a mettere insieme la vita quotidiana, i bambini, la scuola e il lavoro, ma non ci si riesce. L’azienda ha consigliato di farci aiutare dai nostri mariti, non comprendendo che sono operai come noi, che a loro volta hanno dei turni» continua Liuba, raccontando le storie di sopravvivenza con cui le famiglie cercano di ovviare alla situazione. Come quella della collega il cui marito corriere prende i figli da scuola e se li tiene in macchina fino a che non finisce di lavorare, o di chi ha dovuto lasciare la casa perché  impossibilitata ad arrivare a lavoro a quell’ora.

Una situazione che si aggrava per le donne migranti che costituiscono circa la metà dei lavoratori totali. «Quando sei una migrante purtroppo dipende tutto dal tuo permesso di soggiorno – spiega ancora Liuba –, il quale è raggiungibile solo se hai un lavoro e una casa, e quest’ultima a sua volta dipende da un lavoro e un permesso di soggiorno. In questo circuito, se perdi una cosa hai perso tutto. È per questo che noi migranti subiamo molto di più lo sfruttamento e la discriminazione, perché siamo più ricattabili».

L’8 marzo è stato firmato un accordo tra azienda e sindacati confederali  che ha introdotto la possibilità di richiedere il turno centrale per dipendenti con figli fino a un anno di età; il lavoro a tempo parziale per i genitori di quelli da 1 a 3 anni e 5 giorni aggiuntivi all’anno di congedo per malattia dei bambini dai 3 ai 5 anni. Le lavoratrici lo hanno accolto con molta delusione.

«In quell’accordo non c’è nulla che venga in aiuto a noi madri – spiega Laila Driouch, anche lei impiegata da un decennio alla Yoox – Il turno centrale concesso solo a chi ha bambini fino a un anno di età è del tutto inutile, perché quello è il tempo che di solito le madri passano in maternità. Per questo noi chiediamo invece quel tipo di turno almeno per chi ha figli fino a 11 anni. Inoltre crediamo che il part time, tra l’altro già ottenibile anche prima dell’accordo, non possa essere una soluzione, perché significa ridurre la retribuzione a una cifra davvero irrisoria. Abbiamo delle mamme che sono le sole a lavorare in famiglia, alcune sono single, e con quello stipendio non riuscirebbero neanche a pagare l’affitto. Se queste condizioni persistono saremo costrette a licenziarci». La situazione è precipitata ulteriormente con la chiusura delle scuole, quando in molte, non potendosi permettere una baby sitter, si sono messe in malattia o in congedo non pagato. 

Le operaie impiegate da più tempo – le stesse che nel 2014 si erano battute per l’acquisizione di diritti fondamentali, quali le due ore per l’allattamento, le ferie e i permessi – sono convinte che la situazione di estrema vulnerabilità sia un invito, spesso anche esplicito, al licenziamento e che non ci sia da parte dell’azienda una reale volontà di migliorare la loro condizione. Una volontà che manca a tutti i livelli. Lo dimostra un accordo sindacale che non tiene conto della realtà concreta delle lavoratrici madri, malgrado i dati Istat  mostrino come nel 2020 il 98% di chi ha perso il posto di lavoro siano donne. «Nonostante tutte le battaglie che abbiamo fatto come donne, alla fine la realtà è ancora quella per cui se fai dei figli devi rinunciare a lavorare e stare a casa, perché le istituzioni non ci permettono di essere sia lavoratrici che madri», fa notare ancora Liuba.

Ma se la pandemia da un lato ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online, come la Yoox, dall’altro ha mostrato chiaramente il lato oscuro del nostro sistema produttivo basato sulla disuguaglianza. Per questo stavolta non basterà qualche immagine patinata caricata online per trattenere la vernice che sta cadendo a pezzi e che rivela le contraddizioni di una società in cui sfruttamento e negazione dei diritti umani non sono fenomeni circoscritti, ma elementi sistemici. 

Di Giuditta Pellegrini 

Le ragazze lavoratrici della Jakala non mollano

Prosegue la lotta delle lavoratrici della cooperativa Helios, che lavora nei magazzini Jakala di Nichelino, con sui ha un contratto in subappalto. Martedì scorso c’è stato un folto presidio di fronte alla sede della cooperativa Helios in piazza Derna 227. Una delegazione di lavoratrici e sindacalisti è stata ricevuta dai rappresentanti di Helios, che hanno rifiutato ogni confronto ed hanno annunciato l’invio di contestazioni alle lavoratrici lasciate a casa senza stipendio o emarginate per le loro lotte. Le lettere sono arrivate pochi giorni dopo. Nel frattempo Jakala ha fissato un incontro con le lavoratrici di Helios per la prossima settimana. Le lavoratrici sono decise a non mollare.

La vicenda Jakala è peraltro emblematica della condizione lavorativa di settori sempre più ampi di lavoratori e lavoratrici, costretti alla precarietà, all’assenza di tutele e garanzie, a salari da fame, in un sistema di appalti e subappalti, che di fatto sono la forma del caporalato del terzo millennio.
Ce ne ha parlato Stefano Capello della Flaica Cub

Ascolta la diretta:

 

La coop Helios è un’azienda che lavora nel campo del confezionamento in subappalto per un’altra cooperativa, la Santa Maria, che, a sua volta, lavora per Jakala, un marchio importante in questo paese con un fatturato di 135 milioni di euro.
La Jakala ha dei capannoni a Nichelino dove lavorano le dipendenti della Helios e della Santa Maria. Le lavoratrici confezionano merci che vengono poi spedite in tutta Italia.
Il clima nell’azienda è pesantissimo: le addette al confezionamento sono inquadrate al livello più basso del CCNL Multiservizi, uno tra i peggiori dei molti contratti presenti in Italia. Le lavoratrici vengono pagate a giornata e quando vengono sospese non ricevono alcuna retribuzione. Essere sospese non è molto difficile, basta una parola di troppo, una richiesta, una lamentela. Cosi è successo ad una lavoratrice che prima è stata sospesa senza stipendio, poi trasferita a 35 chilometri di distanza per dovendosi occupare da sola del figlio di 6 anni. La stessa sorte poteva toccare ad un’altra lavoratrice che per paura di ripercussioni non ha denunciato un infortunio dovuto al sollevamento di carichi pesanti. Ora ha un’ernia fuori posto e l’ansia di dover rientrare a lavorare.
All’inizio di marzo le lavoratrici hanno manifestato per rivendicare condizioni di lavoro dignitose e salari accettabili: la FLAICA CUB Torino ha avviato una vertenza legale: “Non abbiamo nessuna intenzione di lasciare sole queste lavoratrici sottoposte al ricatto di dover scegliere tra la propria vita e il lavoro”.

Jakala che ha risposto con una nota: “In merito a quanto verificatosi davanti al capannone di Jakala SpA a Nichelino, riteniamo doverose alcune precisazioni. Ci preme anzitutto esprimere rammarico per l’accaduto ed evidenziare che Jakala SpA non era in alcun modo a conoscenza di quanto dichiarato durante la protesta ed è del tutto estranea ai rapporti lavorativi che fanno capo alla Cooperativa Helios, verso la quale è stato rivolto lo sciopero. Tale cooperativa opera nel magazzino a Nichelino in qualità di sub – fornitore di un’altra Cooperativa , con la quale la nostra società intrattiene un rapporto contrattuale diretto. In qualità di committente, Jakala SpA non può interferire nei rapporti di lavoro tra fornitori/sub – fornitori ed i dipendenti di questi, se non nei limiti disposti dalla legge e dagli accordi contrattuali . Come ogni altro fornitore con il qual e Jakala SpA ha rapporti, la Cooperativa Helios è tenuta ad uniformarsi ai principi etici da noi applicati e rispetto ai quali pretendiamo totale aderenza. Ci impegniamo pertanto ad approfondire quanto accaduto, in un’ottica di vicinanza e collaborazione con tutte le persone che a vario titolo collaborano con la nostra realtà”.
L’ipocrisia di chi lascia il lavoro sporco alle cooperative/ombra che si occupano di reclutare manodopera flessibile e ricattabile ed a gestire gli eventuali conflitti.

Ne abbiamo parlato con Martina, lavoratrice della cooperativa Helios, lasciata a casa senza stipendio da dicembre

Ascolta la diretta:

 

Da Radio Blackout

Poliziotto stupratore a Savona

E' sempre troppo poco...!

Violenza sessuale di gruppo ad Albenga, 8 anni e 6 mesi all’ispettore di polizia Alberto Bonvicini

Condannato a quattro anni di carcere anche il carrozziere Franco Di Buono

Savona – Otto anni e 6 mesi ad Alberto Bonvicini, ispettore di polizia, e quattro al carrozziere Franco Di Buono: è la pesantissima sentenza del tribunale di Savona per l'accusa di violenza sessuale di gruppo avvenuta nell’agosto del 2014.   

23/03/21

Londra, polizia ancora nella bufera per il caso Sarah Everard: svelati documenti su agenti e abusi sessuali


Bufera sulla polizia metropolitana di Londra (Met) travolta da centinaia di denunce e segnalazioni per abusi sessuali e comportamenti impropri da parte di agenti contro donne che avrebbero dovuto proteggere, comprese alcune vittime di stupri. È stato l' Observer a rivelare il lato oscuro del corpo grazie a documenti riservati di cui è venuto in possesso.
Una pioggia di fascicoli declassificati in base alle leggi sulla libertà di informazione che aumentano la pressione sul Met, già nel mirino dell'opinione pubblica dopo i maltrattamenti alle donne durante la veglia di sabato scorso per il femminicidio di Sarah Everard, la donna di 33 anni rapita e uccisa a Londra mentre tornava a casa.
Per la morte di Sarah è stato arrestato Wayne Couzens, un agente del Met già accusato da un'altra donna, qualche settimana prima, di atti osceni in un fast food.
Tra il 2012 e il 2018, rivelano i documenti, sono state 594 le segnalazioni di reati e comportamenti impropri da parte di quegli stessi agenti che dovrebbero vigilare contro la violenza di genere. Di queste 119 sono state accolte e 63 hanno portato a licenziamento, pensionamento o dimissioni.
Ma, come ha notato Nazir Afzal, ex procuratore capo della corona per il nord-ovest dell'Inghilterra, «i procedimenti disciplinari non possono sostituire i procedimenti giudiziari». Anche perché i dettagli sono agghiaccianti e l'elenco di violenze perpetrate o desiderate apre seri interrogativi sul Met. Tra i casi segnalati quello di un poliziotto che avrebbe avuto rapporti sessuali con una vittima di stupro. La donna aveva accusato l'agente di avere «approfittato della sua vulnerabilità» e di avere «fatto sesso con lei in due occasioni»: l'ufficiale è stato successivamente licenziato.
Un altro agente è stato costretto a lasciare il Met con l'accusa di avere una «relazione sessuale con una residente di un rifugio per donne», un centro che accoglie le vittime delle violenze domestiche. Ma c'è anche un poliziotto, che poi si è dimesso, accusato di aver violentato le donne che aveva incontrato in una discoteca.
Dossier delicato, perché la settimana scorsa Downing Street ha svelato un piano di protezione per le donne che prevede la presenza di agenti in borghese nei nightclub, e che ha suscitato derisione e proteste da parte dei movimenti femministi che chiedono chi, a questo punto, protegga le donne dalla polizia. Non mancano i casi di abusi domestici nella vita privata come quello del poliziotto, poi licenziato, che «ha violentato sua moglie numerose volte in otto anni di matrimonio» . C'è anche chi ha caricato immagini oscene di bambini sul proprio telefonino e chi ha inviato post sull'app di messaggistica Kik nei quali confessa il suo desiderio di «violentare le donne nella foto e farle violentare da altri. Le immagini - si legge nel documento riportato dall'Observer - sembrano essere quelle di sua figlia e sua nipote».

Non si placano intanto le proteste contro il Police bill, la legge proposta dalla ministra degli Interni britannica Priti Patel per aumentare i poteri della polizia e limitare fortemente il diritto di manifestare. La manifestazione di Bristol è stata, finora, la più conflittuale, ma non è stata l’unica. Da oltre una settimana (dalla violenta repressione dei presidi femministi per Sara Everard) sono numerose le iniziative di mobilitazione contro la repressione e contro il Police bill, promosse principalmente da collettivi femministi, ma anche dai movimenti antirazzisti, da ecologisti e ambientalisti, organizzazioni della sinistra radicale, gruppi anarchici. Ora, anche grazie alle proteste, l’iter del disegno di legge è stato sospeso, le prossime letture in Parlamento e la votazione sono state rimandate a dopo Pasqua (ovvero dopo la prima settimana di aprile 2021).





Le detenute di Pozzuoli e i diritti negati delle madri in carcere

Da napolimonitor

L’attività di sportello per i diritti che come Antigone Campania portiamo avanti nel carcere femminile di Pozzuoli è considerata attività “fondamentale”, e per questo continua nonostante le restrizioni della zona rossa. In queste ultime settimane abbiamo incontrato diverse ragazze al primo ingresso in carcere. Se già normalmente tra i detenuti si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna o all’evoluzione di disturbi preesistenti, in questa fase assistiamo ancora più frequentemente allo svilupparsi di forme di depressione che sembrano scaturire non solo dalla situazione di detenzione, ma anche dalle ulteriori restrizioni dovute alla pandemia, come la sospensione di alcune attività e prima tra tutte l’interruzione dei colloqui con i familiari. Da questo punto di vista, rispetto ai padri detenuti, le detenute madri sembrano vivere con maggiore difficoltà il distacco dai figli, che riescono a sentire o vedere solo saltuariamente. Ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità sono le conseguenze più immediate. All’inizio della carcerazione, in particolare, i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi; se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia, spesso aggravate dal terrore di essere allontanate definitivamente dai propri figli.

Molte tra le centottantuno persone attualmente detenute a Pozzuoli sono madri private della responsabilità genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione del tribunale dei minori. Alcuni casi risultano più complicati, soprattutto quando queste madri sono straniere e hanno difficoltà a comprendere quanto scritto sui provvedimenti che le riguardano.

P. è una donna di origini nigeriane e la sua è una delle tante storie di maternità negata per chi fa ingresso in carcere. Madre di un bambino che rappresenta il suo unico legame col mondo esterno e che non vede da almeno due anni, vede notificarsi un provvedimento dal tribunale dei minori e si rivolge a noi perché non ne comprende il contenuto. Quando la incontriamo, P. stringe tra le mani la decadenza della responsabilità genitoriale, inoppugnabile perché il termine per porre reclamo, di appena dieci giorni, è già decorso. In seguito alla condanna di sei anni di reclusione per sua madre, e alla sospensione della responsabilità genitoriale, suo figlio T. è stato affidato temporaneamente a una coppia di coniugi, che ne hanno ottenuto ora l’affido definitivo.

P. non riesce a rassegnarsi a un provvedimento che segna la fine del rapporto con suo figlio. Se è vero che – non avendo familiari in Italia – aveva prestato consenso all’affido temporaneo di T., pensava di poter continuare a sentirlo e a vederlo durante i colloqui e i permessi premio, fino al momento in cui, una volta fuori, sarebbero potuti tornare insieme. Gli affidatari hanno iniziato invece a farle sentire sempre meno la voce di T. al telefono, a non portare il piccolo ai colloqui, a non lasciarglielo vedere durante i permessi. Nonostante gli anni di distacco imposti dagli affidatari, dal tribunale e dal sistema carcerario, T. aveva espresso la richiesta di conservare il rapporto con sua madre, ma ora le parole del provvedimento di decadenza mettono fine a ogni speranza di ricongiungimento. Non sarà P. a poter spiegare, un giorno, a suo figlio, i motivi della sua lontananza. Al momento delle sue dimissioni dal carcere non ci sarà lui ad attenderla, ma un provvedimento di espulsione dal paese.

Nel provare a consolare P., le sue compagne di le spiegano che è questo il destino delle madri in carcere, in particolar modo di quelle migranti. La storia è comune anche a E., nigeriana, che in carcere ci ha già trascorso dieci anni su ventuno totali da scontare. Suo figlio, ormai maggiorenne, è stato adottato, lei ha prestato il suo consenso perché gli affidatari gli avrebbero garantito un buon futuro e gli avrebbero permesso di restare in contatto con lei. I due si vedono durante i colloqui e talvolta a riescono a sentirsi, ma per il suo ventunesimo compleanno E. aveva sperato di fargli una sorpresa: sarebbe uscita in permesso e sarebbe andata a trovarlo. 

La sua speranza di sentirsi madre per qualche giorno è stata però disattesa: E. è condannata per un reato ostativo e nonostante la liberazione anticipata non ha trascorso in carcere il tempo considerato necessario dalla legge per accedere al beneficio. Sebbene i calcoli del magistrato non tornino né a lei né a noi, il termine per fare reclamo è, ancora una volta, già decorso, ed E. deve rinunciare a vedere suo figlio e a poter festeggiare con lui il suo compleanno.

Sul piano civilistico, la privazione della responsabilità genitoriale deriva dalla fisiologica assenza del genitore recluso, che raramente riesce ad ottemperare ai suoi obblighi. La possibilità di esercitare i suoi diritti-doveri è confinata infatti nei rari colloqui e nelle conversazioni telefoniche, tenuti per lo più in presenza di terzi e in un ambiente inadeguato (questo perché gli spazi destinati all’affettività sono inesistenti nella maggior parte degli istituti di pena, e i luoghi in cui si svolge la vita detentiva costituiscono un trauma, in primis per il minore). Tuttavia, l’azione educativa di genitori consapevoli passa attraverso l’attenzione e la sollecitudine con la quale questi si occupano dei loro figli, e sotto quest’aspetto la relazione madre-figlio va preservata. Un approccio che propone la totale deresponsabilizzazione delle persone detenute andrebbe sostituito quindi con un altro basato sull’assunzione di responsabilità e la formazione all’interno del nucleo familiare. La dimensione affettiva connessa alla maternità dovrebbe essere considerata elemento di trattamento e punto di partenza nel processo di risocializzazione all’interno del carcere. La sua assenza, al contrario, non può che produrre una destrutturazione del contesto familiare.

La possibilità, per le madri detenute, di continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale prendendo decisioni centrali per la vita e la cura della loro prole, dovrebbe essere inoltre fondamentale alla luce del principio di rieducazione della pena. La negazione del rapporto familiare, invece, in virtù di un automatismo legislativo, risponde a una logica meramente retributiva della stessa, oltre a costituire la violazione di un diritto garantito indistintamente ai liberi e ai ristretti. Ogni qualvolta in cui lo Stato non predispone gli strumenti che consentono al detenuto di continuare a essere genitore, si verifica una violazione di questo diritto.

Dal momento, in sostanza, che nel nostro ordinamento la tutela del minore ha un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti altri per preservare il rapporto madre-figlio e incrementare l’utilizzo di quelli esistenti. Le misure alternative alla detenzione appositamente introdotte per le madri in carcere ricevono infatti allo stato una scarsissima applicazione, a causa dei requisiti particolarmente rigorosi previsti, e i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere sono attivi soltanto in pochi istituti. Percorsi virtuosi di questo genere si avvalgono del lavoro di psicologi che seguono il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio, la famiglia e con i servizi territoriali, per sostenere la relazione genitoriale anche attraverso il supporto durante le visite. Alla stessa logica risponde l’intento di creare spazi destinati all’interazione tra genitori e figli diversi da quelli in cui si tengono i colloqui ordinari. I fatti (e i dati), tuttavia, ci dicono che l’attenzione dell’istituzione carceraria rispetto a queste tematiche così delicate è ancora minima. (paola cisternas navarro / manuela mascolo)

22/03/21

Erdogan: via libera alle politiche e pratiche più reazionarie - Un contributo

La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale che fu promosso dal Consiglio d’Europa nel 2011 ed entrò in vigore nel 2014 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. 
All' articolo 3, definisce la violenza di genere come una forma di discriminazione e individua una serie di abusi come specifica violenza contro le donne: violenza psicologica e fisica, stupro, molestie, stalking, matrimonio forzato, mutilazione genitale femminile, aborto forzato e sterilizzazione forzata, delitti d’onore. L’accordo è noto come Convenzione di Istanbul perché fu ratificato nella città turca e perché la Turchia fu il primo paese a firmarlo, quando già Erdogan era presidente.

Negli anni successivi alla ratifica, Erdogan aveva citato spesso la Convenzione come dimostrazione dei presunti avanzamenti della Turchia nell’ambito della parità di genere, ma unicamente per ottenere credito in Europa. 

La Convenzione è stata firmata da 45 paesi in tutto il mondo più l’Unione Europea. L’anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica della Convenzione, mentre il governo della Polonia aveva annunciato l’intenzione di uscirne. I governi di Polonia e Ungheria sono entrambi  populisti e  
fascisti.

Nel suo rapporto, la piattaforma KCDP sottolinea che coloro che si sentono “disturbati” dall’uguaglianza di genere affermano che la Convenzione di Istanbul metterebbe in pericolo o distruggerebbe le strutture familiari tradizionali e la coesione familiare.
Nonostante il tasso elevato di femminicidio.

Secondo l’Oms, il 38% delle turche ha subito violenza almeno una volta, mentre secondo un rapporto dello stesso governo turco risalente al 2014 quattro donne su 10 hanno subito abusi fisici o sessuali, tre su 10 si sposano ancora minorenni,
nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidio e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. Inoltre nei primi mesi del 2021 ci sono stati 65 femminicidio
al 33% delle ragazze non viene permesso di frequentare la scuola e all’11% delle donne di lavorare.

Da anni in Turchia il governo del fascista Erdogan dipinge un’immagine dei ruoli di genere che buona parte delle donne considera l’ennesimo esempio di patriarcato di Stato: prendersi cura della casa e dei figli, soprattutto farli i figli, almeno tre, per il bene della nazione, che "rischia ogni giorno a causa dell’avanzata della propaganda Lgbtqiterroristi che puntano a distruggere la fabbrica sociale" (lo ha ribadito  su Twitter il vice presidente Fuat Oktay.

Erdogan ora ha annunciato che la Turchia ritirerà la firma dalla Convenzione e questo significa via libera a tutte le politiche e pratiche più reazionarie, sessiste contro le donne, legittimare femminicidi, stupri, attacco ai diritti delle donne, sostegno a partiti e forze più conservatrici e integraliste. In linea con la politica generale di massima repressione di diritti, lotte, di Erdogan.

Le donne sono scese immediatamente in piazza, le maggiori manifestazioni di protesta sono avvenute a Istanbul, Ankara e Smirne, sulla costa occidentale , con le bandiere viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”.

Alle lavoratrici, alle compagne, alle studentesse: per una nuova assemblea donne/lavoratrici diffondete e comunicate la vostra partecipazione!

il 9 aprile vi sarà una nuova assemblea donne/lavoratrici, on line, dalle ore 17 su "8 MARZO E POI"
per una informazione, valutazione dell'8 marzo
per socializzare quanto sta avvenendo dopo l'8 marzo, soprattutto le nuove lotte delle lavoratrici
alcune proposte di iniziative unitarie che stanno emergendo da queste lotte e da una iniziale inchiesta che si sta facendo in alcune fabbriche e posti di lavoro. 
E' inoltre importante decidere una campagna in risposta all'attacco al diritto di sciopero della Commissione garanzia sciopero - col divieto di sciopero per tutta la scuola.
Nell'assemblea decideremo anche gli altri appuntamenti per la formazione rivoluzionaria delle donne
insieme a proposte di materiali per dare voce alle lotte delle lavoratrici, alle battaglie contro gli attacchi al diritto d'aborto, i femminicidi, la solidarietà internazionale (vedi Turchia).

Se ci sono altre proposte comunicatele e comunicate la vostra partecipazione scrivendo a

Ricordiamo che delle tre assemblee nazionali fatte nei mesi scorsi abbiamo fatto 2 dossier che raccolgono tutti gli interventi. Chi ancora non li ha può richiederli a mfpr.naz@gmail.com - li invieremo in Pdf.

(PS. Questa volta impediremo in partenza a maschi porci e fascisti di inserirsi nell'assemblea)

Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe
MFPR



Con le donne turche in lotta - il 24 presidio a Milano


In Turchia il governo di Erdogan ha ritirato l’adesione alla Convenzione di Istanbul e subito si sono diffuse numerose manifestazioni di donne in tutto il paese.
Non possiamo stare zitte, dobbiamo mobilitarci e far sentire anche la nostra voce ed esprimere la nostra solidarietà a tutte le donne turche per non lasciarle sole.
La violenza contro le donne è un problema diffuso in Turchia e il governo sta mettendo in pericolo la vita di milioni di donne.
La Convenzione obbliga i governi ad adottare una legislazione che contrasti la violenza domestica e abusi come la violenza coniugale e le mutilazioni genitali femminili. Secondo i conservatori turchi, minerebbe l'unità familiare, incoraggiando il divorzio e dando spazio nella società alla comunità Lgbt...
Facciamoci sentire… A Milano stiamo organizzando il presidio presso il Consolato turco, in via Antonio Canova  mercoledì 24 ….
Portiamo cartelli e striscioni per e con le donne turche,
LOTTA  UNA, LOTTANO TUTTE

Assemblee nazionali delle donne/lavoratrici
Per contatti: mfpr.mi1@gmail.com

India - avanza la lotta delle lavoratrici domestiche - un contributo

COVID-19 HA MESSO A NUDO LE LOTTE E LO SFRUTTAMENTO CHE LE LAVORATRICI DOMESTICHE DEVONO AFFRONTARE

Fonte: People’ Dispatch – 21/03/16, di Satarupa Chakraborty*; trad. di G. L.

Dal rapporto dell’Economic and Political Weekly risulta che in India ci siano più di 50 milioni di lavoratori domestici, una forza lavoro costituita per oltre il 75% da donne (le stime ufficiali del governo sono di 3,9 milioni, ci cui 2,6 milioni donne.)

A Bangalore, capitale del Karnataka, uno stato dell’India meridionale, ci sono circa 400.000 lavoratori domestici, una grossa quota della forza lavoro della città.
Il loro lavoro non è tuttavia riconosciuto, e così sono privati dei diritti lavorativi, di condizioni di impiego regolari e del rispetto, un fatto che è emerso con ancora maggiore evidenza dall’inizio della pandemia.
Kajita (28 anni) e Noor (45 anni) sono lavoratrici giunte dal Bengala occidentale a Bangalore, metropoli di 8,5 milioni di abitanti.
Abitano in una baraccopoli nell’area di Thubarahalli, a est della città, celata dagli edifici che stanno sorgendo in un quartiere di lusso che collega i due maggiori centri Information Technology (IT), Marathahalli e Whitefield.
Prima che il lockdown nazionale fosse annunciato nel marzo 2020, Kajita iniziava la sua giornata di lavoro alle 4:45 e tornava a casa dopo le 21. Lavorava per più di 15 ore al giorno in 10 famiglie. Noor andava a lavorare alle 5:45 del mattino e tornava verso le 18:30.