25/03/21

O il lavoro o la vita


La pandemia ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online ma ha mostrato il lato oscuro del sistema produttivo, soprattutto per le donne. Il caso della Yoox di Bologna

«Non ci lasciano quella che si può chiamare una vita», è quanto affermano in un comunicato dal sito del coordinamento migranti le operaie dell’azienda Yoox, colosso di moda online con sede a Bologna, che protestano da mesi per un lavoro dignitoso. Si oppongono a turni disumani non spezzati dalla pausa pranzo e sono diventate un simbolo della battaglia per i diritti delle donne lavoratrici. 

Come spesso accade nei comparti del tessile, le lavoratrici sono in larga maggioranza donne (il 70% dell’intera azienda, ma la quasi la totalità nel reparto controllo qualità da cui è partita la protesta), di cui una gran parte madri (circa 500 su un totale di 1.437 dipendenti, gestiti oggi dalle società Mmp e Lis Group) che, infatti, denunciano in particolare come i turni non permettono loro di portare i figli a scuola o di passarci del tempo. Una realtà opposta a quella suggerita dall’azienda tramite immagini sul proprio sito  di un mondo ideale fatto di bambine e bambini felici di diverse nazionalità e donne realizzate e alla moda. 

A dare inizio alla protesta sono state le impiegate più anziane, che assunte circa dieci anni fa con il turno centrale, se lo sono viste spezzare in due: dalle 5.30 il primo turno e fino alle 22.30 quello serale. La sostituzione è avvenuta durante il cambio di appalto che ha interessato l’azienda nel gennaio del 2020, apparentemente per la necessità di distanziamento dovuta alla diffusione del Covid-19, ma secondo le dirette interessate seguendo un’idea già ventilata, tanto che trenta operaie avevano deciso di licenziarsi per l’impossibilità di conciliare la loro vita con i nuovi orari e accedere così almeno all’indennità mensile di disoccupazione.

«Noi madri ci siamo trovate di fronte a una scelta e abbiamo capito che se non avessimo lottato per i nostri diritti ci saremmo licenziate tutte», ricorda l’operaia Liuba Furtuna, attivista in Si Cobas. «Abbiamo provato a mettere insieme la vita quotidiana, i bambini, la scuola e il lavoro, ma non ci si riesce. L’azienda ha consigliato di farci aiutare dai nostri mariti, non comprendendo che sono operai come noi, che a loro volta hanno dei turni» continua Liuba, raccontando le storie di sopravvivenza con cui le famiglie cercano di ovviare alla situazione. Come quella della collega il cui marito corriere prende i figli da scuola e se li tiene in macchina fino a che non finisce di lavorare, o di chi ha dovuto lasciare la casa perché  impossibilitata ad arrivare a lavoro a quell’ora.

Una situazione che si aggrava per le donne migranti che costituiscono circa la metà dei lavoratori totali. «Quando sei una migrante purtroppo dipende tutto dal tuo permesso di soggiorno – spiega ancora Liuba –, il quale è raggiungibile solo se hai un lavoro e una casa, e quest’ultima a sua volta dipende da un lavoro e un permesso di soggiorno. In questo circuito, se perdi una cosa hai perso tutto. È per questo che noi migranti subiamo molto di più lo sfruttamento e la discriminazione, perché siamo più ricattabili».

L’8 marzo è stato firmato un accordo tra azienda e sindacati confederali  che ha introdotto la possibilità di richiedere il turno centrale per dipendenti con figli fino a un anno di età; il lavoro a tempo parziale per i genitori di quelli da 1 a 3 anni e 5 giorni aggiuntivi all’anno di congedo per malattia dei bambini dai 3 ai 5 anni. Le lavoratrici lo hanno accolto con molta delusione.

«In quell’accordo non c’è nulla che venga in aiuto a noi madri – spiega Laila Driouch, anche lei impiegata da un decennio alla Yoox – Il turno centrale concesso solo a chi ha bambini fino a un anno di età è del tutto inutile, perché quello è il tempo che di solito le madri passano in maternità. Per questo noi chiediamo invece quel tipo di turno almeno per chi ha figli fino a 11 anni. Inoltre crediamo che il part time, tra l’altro già ottenibile anche prima dell’accordo, non possa essere una soluzione, perché significa ridurre la retribuzione a una cifra davvero irrisoria. Abbiamo delle mamme che sono le sole a lavorare in famiglia, alcune sono single, e con quello stipendio non riuscirebbero neanche a pagare l’affitto. Se queste condizioni persistono saremo costrette a licenziarci». La situazione è precipitata ulteriormente con la chiusura delle scuole, quando in molte, non potendosi permettere una baby sitter, si sono messe in malattia o in congedo non pagato. 

Le operaie impiegate da più tempo – le stesse che nel 2014 si erano battute per l’acquisizione di diritti fondamentali, quali le due ore per l’allattamento, le ferie e i permessi – sono convinte che la situazione di estrema vulnerabilità sia un invito, spesso anche esplicito, al licenziamento e che non ci sia da parte dell’azienda una reale volontà di migliorare la loro condizione. Una volontà che manca a tutti i livelli. Lo dimostra un accordo sindacale che non tiene conto della realtà concreta delle lavoratrici madri, malgrado i dati Istat  mostrino come nel 2020 il 98% di chi ha perso il posto di lavoro siano donne. «Nonostante tutte le battaglie che abbiamo fatto come donne, alla fine la realtà è ancora quella per cui se fai dei figli devi rinunciare a lavorare e stare a casa, perché le istituzioni non ci permettono di essere sia lavoratrici che madri», fa notare ancora Liuba.

Ma se la pandemia da un lato ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online, come la Yoox, dall’altro ha mostrato chiaramente il lato oscuro del nostro sistema produttivo basato sulla disuguaglianza. Per questo stavolta non basterà qualche immagine patinata caricata online per trattenere la vernice che sta cadendo a pezzi e che rivela le contraddizioni di una società in cui sfruttamento e negazione dei diritti umani non sono fenomeni circoscritti, ma elementi sistemici. 

Di Giuditta Pellegrini 

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