L’attività di sportello per i diritti che come Antigone Campania portiamo avanti nel carcere femminile di Pozzuoli è considerata attività “fondamentale”, e per questo continua nonostante le restrizioni della zona rossa. In queste ultime settimane abbiamo incontrato diverse ragazze al primo ingresso in carcere. Se già normalmente tra i detenuti si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna o all’evoluzione di disturbi preesistenti, in questa fase assistiamo ancora più frequentemente allo svilupparsi di forme di depressione che sembrano scaturire non solo dalla situazione di detenzione, ma anche dalle ulteriori restrizioni dovute alla pandemia, come la sospensione di alcune attività e prima tra tutte l’interruzione dei colloqui con i familiari. Da questo punto di vista, rispetto ai padri detenuti, le detenute madri sembrano vivere con maggiore difficoltà il distacco dai figli, che riescono a sentire o vedere solo saltuariamente. Ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità sono le conseguenze più immediate. All’inizio della carcerazione, in particolare, i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi; se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia, spesso aggravate dal terrore di essere allontanate definitivamente dai propri figli.
Molte tra le centottantuno persone attualmente detenute a Pozzuoli sono madri private della responsabilità genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione del tribunale dei minori. Alcuni casi risultano più complicati, soprattutto quando queste madri sono straniere e hanno difficoltà a comprendere quanto scritto sui provvedimenti che le riguardano.
P. è una donna di origini nigeriane e la sua è una delle tante storie di maternità negata per chi fa ingresso in carcere. Madre di un bambino che rappresenta il suo unico legame col mondo esterno e che non vede da almeno due anni, vede notificarsi un provvedimento dal tribunale dei minori e si rivolge a noi perché non ne comprende il contenuto. Quando la incontriamo, P. stringe tra le mani la decadenza della responsabilità genitoriale, inoppugnabile perché il termine per porre reclamo, di appena dieci giorni, è già decorso. In seguito alla condanna di sei anni di reclusione per sua madre, e alla sospensione della responsabilità genitoriale, suo figlio T. è stato affidato temporaneamente a una coppia di coniugi, che ne hanno ottenuto ora l’affido definitivo.
P. non riesce a rassegnarsi a un provvedimento che segna la fine del rapporto con suo figlio. Se è vero che – non avendo familiari in Italia – aveva prestato consenso all’affido temporaneo di T., pensava di poter continuare a sentirlo e a vederlo durante i colloqui e i permessi premio, fino al momento in cui, una volta fuori, sarebbero potuti tornare insieme. Gli affidatari hanno iniziato invece a farle sentire sempre meno la voce di T. al telefono, a non portare il piccolo ai colloqui, a non lasciarglielo vedere durante i permessi. Nonostante gli anni di distacco imposti dagli affidatari, dal tribunale e dal sistema carcerario, T. aveva espresso la richiesta di conservare il rapporto con sua madre, ma ora le parole del provvedimento di decadenza mettono fine a ogni speranza di ricongiungimento. Non sarà P. a poter spiegare, un giorno, a suo figlio, i motivi della sua lontananza. Al momento delle sue dimissioni dal carcere non ci sarà lui ad attenderla, ma un provvedimento di espulsione dal paese.
Nel provare a consolare P., le sue compagne di le spiegano che è questo il destino delle madri in carcere, in particolar modo di quelle migranti. La storia è comune anche a E., nigeriana, che in carcere ci ha già trascorso dieci anni su ventuno totali da scontare. Suo figlio, ormai maggiorenne, è stato adottato, lei ha prestato il suo consenso perché gli affidatari gli avrebbero garantito un buon futuro e gli avrebbero permesso di restare in contatto con lei. I due si vedono durante i colloqui e talvolta a riescono a sentirsi, ma per il suo ventunesimo compleanno E. aveva sperato di fargli una sorpresa: sarebbe uscita in permesso e sarebbe andata a trovarlo.
La sua speranza di sentirsi madre per qualche giorno è stata però disattesa: E. è condannata per un reato ostativo e nonostante la liberazione anticipata non ha trascorso in carcere il tempo considerato necessario dalla legge per accedere al beneficio. Sebbene i calcoli del magistrato non tornino né a lei né a noi, il termine per fare reclamo è, ancora una volta, già decorso, ed E. deve rinunciare a vedere suo figlio e a poter festeggiare con lui il suo compleanno.
Sul piano civilistico, la privazione della responsabilità genitoriale deriva dalla fisiologica assenza del genitore recluso, che raramente riesce ad ottemperare ai suoi obblighi. La possibilità di esercitare i suoi diritti-doveri è confinata infatti nei rari colloqui e nelle conversazioni telefoniche, tenuti per lo più in presenza di terzi e in un ambiente inadeguato (questo perché gli spazi destinati all’affettività sono inesistenti nella maggior parte degli istituti di pena, e i luoghi in cui si svolge la vita detentiva costituiscono un trauma, in primis per il minore). Tuttavia, l’azione educativa di genitori consapevoli passa attraverso l’attenzione e la sollecitudine con la quale questi si occupano dei loro figli, e sotto quest’aspetto la relazione madre-figlio va preservata. Un approccio che propone la totale deresponsabilizzazione delle persone detenute andrebbe sostituito quindi con un altro basato sull’assunzione di responsabilità e la formazione all’interno del nucleo familiare. La dimensione affettiva connessa alla maternità dovrebbe essere considerata elemento di trattamento e punto di partenza nel processo di risocializzazione all’interno del carcere. La sua assenza, al contrario, non può che produrre una destrutturazione del contesto familiare.
La possibilità, per le madri detenute, di continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale prendendo decisioni centrali per la vita e la cura della loro prole, dovrebbe essere inoltre fondamentale alla luce del principio di rieducazione della pena. La negazione del rapporto familiare, invece, in virtù di un automatismo legislativo, risponde a una logica meramente retributiva della stessa, oltre a costituire la violazione di un diritto garantito indistintamente ai liberi e ai ristretti. Ogni qualvolta in cui lo Stato non predispone gli strumenti che consentono al detenuto di continuare a essere genitore, si verifica una violazione di questo diritto.
Dal momento, in sostanza, che nel nostro ordinamento la tutela del minore ha un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti altri per preservare il rapporto madre-figlio e incrementare l’utilizzo di quelli esistenti. Le misure alternative alla detenzione appositamente introdotte per le madri in carcere ricevono infatti allo stato una scarsissima applicazione, a causa dei requisiti particolarmente rigorosi previsti, e i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere sono attivi soltanto in pochi istituti. Percorsi virtuosi di questo genere si avvalgono del lavoro di psicologi che seguono il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio, la famiglia e con i servizi territoriali, per sostenere la relazione genitoriale anche attraverso il supporto durante le visite. Alla stessa logica risponde l’intento di creare spazi destinati all’interazione tra genitori e figli diversi da quelli in cui si tengono i colloqui ordinari. I fatti (e i dati), tuttavia, ci dicono che l’attenzione dell’istituzione carceraria rispetto a queste tematiche così delicate è ancora minima. (paola cisternas navarro / manuela mascolo)
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