di Tamar Pitch
La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro  libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o  almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è  problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti  che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione  vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne  simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò  che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità  delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più  volte.
In questo, ahimé, non vi è nulla di nuovo. Tutti i  nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i  fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi,  rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono  continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è  essenziale, così come, complementarmente, l'esclusione degli «altri»  (maschi) dall'accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e  omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e  risultati della nazione.
A differenza dello stato moderno, concepito  come prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela  dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico,  se non addirittura naturale (in ragione dei «legami di sangue»), che si  pone prima dello stato e da esso deve essere rappresentata e difesa. La  nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è  l'essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario,  ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e  storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di  storia, di tradizione: e di «sangue». Se, dal punto di vista storico,  molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto  dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In  linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto.  La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato  prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un  corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la  nazione invece sì.
Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini,  votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui  dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere  l'iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la  mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In  primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla  possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e  fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la  continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a  questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono  mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non  farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà  della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene  della nazione».
Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello  alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza»  (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo  liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di  liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di  nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le  tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in  primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e  il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità,  l'identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà  femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli  fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui  ricorrere in tempi bui.
Ciò che questi soggetti collettivi (nazione,  patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto  unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel  senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta  è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo  criticato lo stato e il diritto moderno, l'idea di libertà e il  paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto  neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur  stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato  un ostacolo per noi e per la nostra libertà.
A ben vedere, ambedue,  stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel  pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una  idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto,  natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo  strette tra un'ideologia dominante che definisce la libertà personale  come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal  corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le  altre e un'ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la  tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un  tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una  qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È  questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?
 
 
 
Nessun commento:
Posta un commento