30/03/21
Domanda: E i medici obiettori di coscienza...?
29/03/21
Costruiamo dovunque la nuova assemblea donne/lavoratrici
28/03/21
Un'altra leader indigena assassinata in Colombia da questo mortifero sistema capitalista
D’altra parte, i consigli indigeni e le riserve Nasa del Putumayo hanno denunciato che continuano gli sradicamenti forzati nel loro territorio, fatto che secondo loro “non riconosce la loro autonomia territoriale, l’ancestralità e il diritto alla consultazione per entrare nel territorio”.
L’organizzazione zonale indigena Putumayo (Ozip) ha espresso solidarietà ai parenti della leader e al popolo Kamentsá: “Dichiariamo dinanzi alla comunità nazionale e internazionale un richiamo all’allerta per l’integrità e la protezione di donne, bambini e ragazze appartenenti alle popolazioni indigene del dipartimento di Putumayo. Ribadiamo la nostra preoccupazione e indignazione per questi atti di sterminio fisico e culturale che aumentano ogni giorno”, hanno detto in una nota. Allo stesso modo, l’organizzazione ha affermato che questi atti “sono il prodotto della mancanza di garanzie da parte del governo” e che il caso rappresenta una maggiore serietà, tenendo conto che l’11 marzo 2021 il ministro dell’Interno, Daniel Palacios Martínez, e Il Governatorato di Putumayo ha partecipato al tavolo territoriale delle garanzie per il lavoro dei leader sociali e dei processi comunitari. Per l’organizzazione, l’omicidio mostra che non ci sono stati risultati, affermando: “Riteniamo lo Stato colombiano responsabile della continuità della violenza nei territori, a causa della sua omissione nel dovere legale di garante dei diritti umani e della sua riluttanza a rispettare ordini, sentenze e altre disposizioni legali per la protezione delle popolazioni indigene”.
Solidarietà con il centro delle donne di Vienna e info da compagne egiziane
27/03/21
L'Aquila 27 marzo: Erdogan assassino, siamo tutte turche!
Dall'intervento del MFPR AQ al presidio di oggi:
Ora il fascista Erdogan dice basta, si può rottamare. E’ chiaro che tale Convenzione era una nota di disturbo, anche se rimasta da sempre nel cassetto.
Siamo tutte coscienti che la Convenzione non possa fermare la violenza, ma il ritiro della Turchia dall'accordo ha un significato politico chiaro e preciso: si vuole un governo sempre più conservatore ed autoritario, e se pensiamo al contesto internazionale tutto ciò e gravissimo, proprio l'anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica, mentre il governo della Polonia aveva annunciato di uscirne.
Le associazioni di donne e gruppi femministi in Turchia si sono immediatamente ribellate al ritiro della Turchia dalla Convenzione, perché ritirare la firma dalla Convenzione di Istambul significa legittimare femminicidi, stupri, attacco ai diritti delle donne.
Secondo l’Oms, il 38% delle donne turche ha subito violenza almeno una
volta, quattro donne su 10 hanno subito abusi fisici o sessuali, tre su 10 si
sposano ancora minorenni.
Nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidi e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. Inoltre nei primi mesi del 2021 ci sono stati 65 femminicidi, al 33% delle ragazze non viene permesso di frequentare la scuola e all’11% delle donne non è permesso lavorare.
Da anni in Turchia il governo del fascista Erdogan impone un’immagine dei ruoli di genere che buona parte delle donne considera l’ennesimo esempio di patriarcato di Stato: prendersi cura della casa e dei figli, soprattutto farli i figli, almeno tre, per il bene della nazione e della famiglia patriarcale, che "rischia la dissoluzione a causa dell’avanzata della propaganda Lgbtqi - che Erdogan definisce terroristi - che puntano a distruggere la fabbrica sociale"
Il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul significa via libera a tutte le politiche e pratiche più reazionarie, sessiste contro le donne. Significa legittimare femminicidi, stupri, attacchi ai diritti delle donne, sostegno a partiti e forze più conservatrici e integraliste, in linea con la politica generale di Erdogan di massima repressione dei diritti umani, dei diritti delle donne.
Ma in Turchia le donne sono scese immediatamente in piazza con le bandiere
viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”, e noi qui a L’Aquila
con questa piccola, ma importante iniziativa, vogliamo dire che non sono sole: Siamo
tutte donne turche e siamo al fianco di tutte le donne che in ogni parte del
mondo combattono contro questo schifoso sistema capitalistico e patriarcale!
26/03/21
Sul presidio di ieri al consolato turco a Milano: "...solo la lotta delle donne potrà impedire di riportare indietro la ruota della storia..."
Giovedì 25 marzo si è tenuto il presidio promosso dall’assemblea naz. donne/lavoratrici di Milano davanti al consolato turco. Siamo state accolte da un numero esagerato di polizia quattro furgoni blindati posizionati in modo da non poter avvicinarci alla sede del Consolato, uno schieramento di forze a dir poco esagerato.
Appello alle lavoratrici e lavoratori della scuola
Propaganda antiabortista al Niguarda di Milano - impediamola!
La direzione del Niguarda permette la propaganda antibortista davanti ai suoi cancelli proprio il giorno dopo l'ennesimo pronunciamento del Consiglio d'Europa contro l'Italia per le gravi carenze nel garantire il diritto d'aborto: il numero sempre crescente degli obiettori di coscienza, la lentezza nel diffondere l'aborto farmacologico, i vergognosi tentativi di bloccarlo da parte di alcune regioni, Umbria, Marche, Abruzzi, rendono sempre più precario il principio di autodeterminazione della donna. L'obiezione di coscienza dei ginecologi è un assurdo: si privilegia la libertà di scelta (coscienza???) del medico, in base ai suoi principi personali rispetto alla libertà di scelta della diretta interessata: la donna. Che cosa succederebbe se un insegnante si rifiutasse di insegnare alle donne perché in base ai suoi principi è meglio che le donne rimangano ignoranti?
L'obiezione di coscienza è un'altra forma di violenza sulle donne così come tutti gli ostacoli messi sul cammino dell'accesso all'aborto
Essere a favore o contro l'aborto non è una questione d'opinione: chi è contro l'aborto è contro il principio di autodeterminazione della donna, ed è profondamente odioso prevaricare, imporsi sui corpi e sulle menti altrui.
Sappiamo tuttavia che la negazione del principio di autodeterminazione non è altro che un aspetto della doppia oppressione e del doppio sfruttamento della donna, in aumento in questo periodo di pandemia. Questo è il brodo culturale su cui crescono i femminicidi.
Ci meraviglia perciò che la direzione di un ospedale prestigioso come il Niguarda si presti a operazioni di questo genere e conceda spazi a chi vuol cancellare le poche conquiste che le donne hanno fatto in questi anni.
Abbiamo ricevuto la segnalazione da donne/lavoratrici che, recandosi al Niguarda, hanno sentito di subire un’ odiosa violenza e umiliazione
Ci riserviamo di promuovere delle iniziative nei prossimi giorni per difendere la dignità e i diritti delle donne
Inviamo la foto che ci è stata rigirata
Assemblea nazionale donne/lavoratrici – le compagne di Milano
25/03/21
Oggi presidio al Consolato turco a Milano - sfidando la massiccia presenza della polizia
Oggi presidio davanti il consolato turco - blindatissimo - promosso come assemblea nazionale donne/lavoratrici.
Abbiamo toccato con mano la necessità dell'iniziativa sia dalle parole di un migrante turco che ci ha ringraziate per aver voluto manifestare la solidarietà e il sostegno alle donne turche in lotta; sia dai cenni di assenso dei passanti che hanno letto con attenzione i cartelli esposti, ma anche da una migrante che ha voluto fotografare lo striscione che ha condiviso la solidarietà espressa.
le compagne di Milano del MFPR
O il lavoro o la vita
La pandemia ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online ma ha mostrato il lato oscuro del sistema produttivo, soprattutto per le donne. Il caso della Yoox di Bologna
«Non ci lasciano quella che si può chiamare una vita», è quanto affermano in un comunicato dal sito del coordinamento migranti le operaie dell’azienda Yoox, colosso di moda online con sede a Bologna, che protestano da mesi per un lavoro dignitoso. Si oppongono a turni disumani non spezzati dalla pausa pranzo e sono diventate un simbolo della battaglia per i diritti delle donne lavoratrici.
Come spesso accade nei comparti del tessile, le lavoratrici sono in larga maggioranza donne (il 70% dell’intera azienda, ma la quasi la totalità nel reparto controllo qualità da cui è partita la protesta), di cui una gran parte madri (circa 500 su un totale di 1.437 dipendenti, gestiti oggi dalle società Mmp e Lis Group) che, infatti, denunciano in particolare come i turni non permettono loro di portare i figli a scuola o di passarci del tempo. Una realtà opposta a quella suggerita dall’azienda tramite immagini sul proprio sito di un mondo ideale fatto di bambine e bambini felici di diverse nazionalità e donne realizzate e alla moda.
A dare inizio alla protesta sono state le impiegate più anziane, che assunte circa dieci anni fa con il turno centrale, se lo sono viste spezzare in due: dalle 5.30 il primo turno e fino alle 22.30 quello serale. La sostituzione è avvenuta durante il cambio di appalto che ha interessato l’azienda nel gennaio del 2020, apparentemente per la necessità di distanziamento dovuta alla diffusione del Covid-19, ma secondo le dirette interessate seguendo un’idea già ventilata, tanto che trenta operaie avevano deciso di licenziarsi per l’impossibilità di conciliare la loro vita con i nuovi orari e accedere così almeno all’indennità mensile di disoccupazione.
«Noi madri ci siamo trovate di fronte a una scelta e abbiamo capito che se non avessimo lottato per i nostri diritti ci saremmo licenziate tutte», ricorda l’operaia Liuba Furtuna, attivista in Si Cobas. «Abbiamo provato a mettere insieme la vita quotidiana, i bambini, la scuola e il lavoro, ma non ci si riesce. L’azienda ha consigliato di farci aiutare dai nostri mariti, non comprendendo che sono operai come noi, che a loro volta hanno dei turni» continua Liuba, raccontando le storie di sopravvivenza con cui le famiglie cercano di ovviare alla situazione. Come quella della collega il cui marito corriere prende i figli da scuola e se li tiene in macchina fino a che non finisce di lavorare, o di chi ha dovuto lasciare la casa perché impossibilitata ad arrivare a lavoro a quell’ora.
Una situazione che si aggrava per le donne migranti che costituiscono circa la metà dei lavoratori totali. «Quando sei una migrante purtroppo dipende tutto dal tuo permesso di soggiorno – spiega ancora Liuba –, il quale è raggiungibile solo se hai un lavoro e una casa, e quest’ultima a sua volta dipende da un lavoro e un permesso di soggiorno. In questo circuito, se perdi una cosa hai perso tutto. È per questo che noi migranti subiamo molto di più lo sfruttamento e la discriminazione, perché siamo più ricattabili».
L’8 marzo è stato firmato un accordo tra azienda e sindacati confederali che ha introdotto la possibilità di richiedere il turno centrale per dipendenti con figli fino a un anno di età; il lavoro a tempo parziale per i genitori di quelli da 1 a 3 anni e 5 giorni aggiuntivi all’anno di congedo per malattia dei bambini dai 3 ai 5 anni. Le lavoratrici lo hanno accolto con molta delusione.
«In quell’accordo non c’è nulla che venga in aiuto a noi madri – spiega Laila Driouch, anche lei impiegata da un decennio alla Yoox – Il turno centrale concesso solo a chi ha bambini fino a un anno di età è del tutto inutile, perché quello è il tempo che di solito le madri passano in maternità. Per questo noi chiediamo invece quel tipo di turno almeno per chi ha figli fino a 11 anni. Inoltre crediamo che il part time, tra l’altro già ottenibile anche prima dell’accordo, non possa essere una soluzione, perché significa ridurre la retribuzione a una cifra davvero irrisoria. Abbiamo delle mamme che sono le sole a lavorare in famiglia, alcune sono single, e con quello stipendio non riuscirebbero neanche a pagare l’affitto. Se queste condizioni persistono saremo costrette a licenziarci». La situazione è precipitata ulteriormente con la chiusura delle scuole, quando in molte, non potendosi permettere una baby sitter, si sono messe in malattia o in congedo non pagato.
Le operaie impiegate da più tempo – le stesse che nel 2014 si erano battute per l’acquisizione di diritti fondamentali, quali le due ore per l’allattamento, le ferie e i permessi – sono convinte che la situazione di estrema vulnerabilità sia un invito, spesso anche esplicito, al licenziamento e che non ci sia da parte dell’azienda una reale volontà di migliorare la loro condizione. Una volontà che manca a tutti i livelli. Lo dimostra un accordo sindacale che non tiene conto della realtà concreta delle lavoratrici madri, malgrado i dati Istat mostrino come nel 2020 il 98% di chi ha perso il posto di lavoro siano donne. «Nonostante tutte le battaglie che abbiamo fatto come donne, alla fine la realtà è ancora quella per cui se fai dei figli devi rinunciare a lavorare e stare a casa, perché le istituzioni non ci permettono di essere sia lavoratrici che madri», fa notare ancora Liuba.
Ma se la pandemia da un lato ha fatto lievitare il fatturato delle aziende di vendita online, come la Yoox, dall’altro ha mostrato chiaramente il lato oscuro del nostro sistema produttivo basato sulla disuguaglianza. Per questo stavolta non basterà qualche immagine patinata caricata online per trattenere la vernice che sta cadendo a pezzi e che rivela le contraddizioni di una società in cui sfruttamento e negazione dei diritti umani non sono fenomeni circoscritti, ma elementi sistemici.
Di Giuditta Pellegrini
Le ragazze lavoratrici della Jakala non mollano
Prosegue la lotta delle lavoratrici della cooperativa Helios, che lavora nei magazzini Jakala di Nichelino, con sui ha un contratto in subappalto. Martedì scorso c’è stato un folto presidio di fronte alla sede della cooperativa Helios in piazza Derna 227. Una delegazione di lavoratrici e sindacalisti è stata ricevuta dai rappresentanti di Helios, che hanno rifiutato ogni confronto ed hanno annunciato l’invio di contestazioni alle lavoratrici lasciate a casa senza stipendio o emarginate per le loro lotte. Le lettere sono arrivate pochi giorni dopo. Nel frattempo Jakala ha fissato un incontro con le lavoratrici di Helios per la prossima settimana. Le lavoratrici sono decise a non mollare.
La vicenda Jakala è peraltro emblematica della condizione lavorativa di settori sempre più ampi di lavoratori e lavoratrici, costretti alla precarietà, all’assenza di tutele e garanzie, a salari da fame, in un sistema di appalti e subappalti, che di fatto sono la forma del caporalato del terzo millennio.
Ce ne ha parlato Stefano Capello della Flaica Cub
Ascolta la diretta:
La coop Helios è un’azienda che lavora nel campo del confezionamento in subappalto per un’altra cooperativa, la Santa Maria, che, a sua volta, lavora per Jakala, un marchio importante in questo paese con un fatturato di 135 milioni di euro.
La Jakala ha dei capannoni a Nichelino dove lavorano le dipendenti della Helios e della Santa Maria. Le lavoratrici confezionano merci che vengono poi spedite in tutta Italia.
Il clima nell’azienda è pesantissimo: le addette al confezionamento sono inquadrate al livello più basso del CCNL Multiservizi, uno tra i peggiori dei molti contratti presenti in Italia. Le lavoratrici vengono pagate a giornata e quando vengono sospese non ricevono alcuna retribuzione. Essere sospese non è molto difficile, basta una parola di troppo, una richiesta, una lamentela. Cosi è successo ad una lavoratrice che prima è stata sospesa senza stipendio, poi trasferita a 35 chilometri di distanza per dovendosi occupare da sola del figlio di 6 anni. La stessa sorte poteva toccare ad un’altra lavoratrice che per paura di ripercussioni non ha denunciato un infortunio dovuto al sollevamento di carichi pesanti. Ora ha un’ernia fuori posto e l’ansia di dover rientrare a lavorare.
All’inizio di marzo le lavoratrici hanno manifestato per rivendicare condizioni di lavoro dignitose e salari accettabili: la FLAICA CUB Torino ha avviato una vertenza legale: “Non abbiamo nessuna intenzione di lasciare sole queste lavoratrici sottoposte al ricatto di dover scegliere tra la propria vita e il lavoro”.
Jakala che ha risposto con una nota: “In merito a quanto verificatosi davanti al capannone di Jakala SpA a Nichelino, riteniamo doverose alcune precisazioni. Ci preme anzitutto esprimere rammarico per l’accaduto ed evidenziare che Jakala SpA non era in alcun modo a conoscenza di quanto dichiarato durante la protesta ed è del tutto estranea ai rapporti lavorativi che fanno capo alla Cooperativa Helios, verso la quale è stato rivolto lo sciopero. Tale cooperativa opera nel magazzino a Nichelino in qualità di sub – fornitore di un’altra Cooperativa , con la quale la nostra società intrattiene un rapporto contrattuale diretto. In qualità di committente, Jakala SpA non può interferire nei rapporti di lavoro tra fornitori/sub – fornitori ed i dipendenti di questi, se non nei limiti disposti dalla legge e dagli accordi contrattuali . Come ogni altro fornitore con il qual e Jakala SpA ha rapporti, la Cooperativa Helios è tenuta ad uniformarsi ai principi etici da noi applicati e rispetto ai quali pretendiamo totale aderenza. Ci impegniamo pertanto ad approfondire quanto accaduto, in un’ottica di vicinanza e collaborazione con tutte le persone che a vario titolo collaborano con la nostra realtà”.
L’ipocrisia di chi lascia il lavoro sporco alle cooperative/ombra che si occupano di reclutare manodopera flessibile e ricattabile ed a gestire gli eventuali conflitti.
Ne abbiamo parlato con Martina, lavoratrice della cooperativa Helios, lasciata a casa senza stipendio da dicembre
Ascolta la diretta:
Poliziotto stupratore a Savona
E' sempre troppo poco...!
Violenza sessuale di gruppo ad Albenga, 8 anni e 6 mesi all’ispettore di polizia Alberto Bonvicini
23/03/21
Londra, polizia ancora nella bufera per il caso Sarah Everard: svelati documenti su agenti e abusi sessuali
Le detenute di Pozzuoli e i diritti negati delle madri in carcere
L’attività di sportello per i diritti che come Antigone Campania portiamo avanti nel carcere femminile di Pozzuoli è considerata attività “fondamentale”, e per questo continua nonostante le restrizioni della zona rossa. In queste ultime settimane abbiamo incontrato diverse ragazze al primo ingresso in carcere. Se già normalmente tra i detenuti si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna o all’evoluzione di disturbi preesistenti, in questa fase assistiamo ancora più frequentemente allo svilupparsi di forme di depressione che sembrano scaturire non solo dalla situazione di detenzione, ma anche dalle ulteriori restrizioni dovute alla pandemia, come la sospensione di alcune attività e prima tra tutte l’interruzione dei colloqui con i familiari. Da questo punto di vista, rispetto ai padri detenuti, le detenute madri sembrano vivere con maggiore difficoltà il distacco dai figli, che riescono a sentire o vedere solo saltuariamente. Ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità sono le conseguenze più immediate. All’inizio della carcerazione, in particolare, i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi; se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia, spesso aggravate dal terrore di essere allontanate definitivamente dai propri figli.
Molte tra le centottantuno persone attualmente detenute a Pozzuoli sono madri private della responsabilità genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione del tribunale dei minori. Alcuni casi risultano più complicati, soprattutto quando queste madri sono straniere e hanno difficoltà a comprendere quanto scritto sui provvedimenti che le riguardano.
P. è una donna di origini nigeriane e la sua è una delle tante storie di maternità negata per chi fa ingresso in carcere. Madre di un bambino che rappresenta il suo unico legame col mondo esterno e che non vede da almeno due anni, vede notificarsi un provvedimento dal tribunale dei minori e si rivolge a noi perché non ne comprende il contenuto. Quando la incontriamo, P. stringe tra le mani la decadenza della responsabilità genitoriale, inoppugnabile perché il termine per porre reclamo, di appena dieci giorni, è già decorso. In seguito alla condanna di sei anni di reclusione per sua madre, e alla sospensione della responsabilità genitoriale, suo figlio T. è stato affidato temporaneamente a una coppia di coniugi, che ne hanno ottenuto ora l’affido definitivo.
P. non riesce a rassegnarsi a un provvedimento che segna la fine del rapporto con suo figlio. Se è vero che – non avendo familiari in Italia – aveva prestato consenso all’affido temporaneo di T., pensava di poter continuare a sentirlo e a vederlo durante i colloqui e i permessi premio, fino al momento in cui, una volta fuori, sarebbero potuti tornare insieme. Gli affidatari hanno iniziato invece a farle sentire sempre meno la voce di T. al telefono, a non portare il piccolo ai colloqui, a non lasciarglielo vedere durante i permessi. Nonostante gli anni di distacco imposti dagli affidatari, dal tribunale e dal sistema carcerario, T. aveva espresso la richiesta di conservare il rapporto con sua madre, ma ora le parole del provvedimento di decadenza mettono fine a ogni speranza di ricongiungimento. Non sarà P. a poter spiegare, un giorno, a suo figlio, i motivi della sua lontananza. Al momento delle sue dimissioni dal carcere non ci sarà lui ad attenderla, ma un provvedimento di espulsione dal paese.
Nel provare a consolare P., le sue compagne di le spiegano che è questo il destino delle madri in carcere, in particolar modo di quelle migranti. La storia è comune anche a E., nigeriana, che in carcere ci ha già trascorso dieci anni su ventuno totali da scontare. Suo figlio, ormai maggiorenne, è stato adottato, lei ha prestato il suo consenso perché gli affidatari gli avrebbero garantito un buon futuro e gli avrebbero permesso di restare in contatto con lei. I due si vedono durante i colloqui e talvolta a riescono a sentirsi, ma per il suo ventunesimo compleanno E. aveva sperato di fargli una sorpresa: sarebbe uscita in permesso e sarebbe andata a trovarlo.
La sua speranza di sentirsi madre per qualche giorno è stata però disattesa: E. è condannata per un reato ostativo e nonostante la liberazione anticipata non ha trascorso in carcere il tempo considerato necessario dalla legge per accedere al beneficio. Sebbene i calcoli del magistrato non tornino né a lei né a noi, il termine per fare reclamo è, ancora una volta, già decorso, ed E. deve rinunciare a vedere suo figlio e a poter festeggiare con lui il suo compleanno.
Sul piano civilistico, la privazione della responsabilità genitoriale deriva dalla fisiologica assenza del genitore recluso, che raramente riesce ad ottemperare ai suoi obblighi. La possibilità di esercitare i suoi diritti-doveri è confinata infatti nei rari colloqui e nelle conversazioni telefoniche, tenuti per lo più in presenza di terzi e in un ambiente inadeguato (questo perché gli spazi destinati all’affettività sono inesistenti nella maggior parte degli istituti di pena, e i luoghi in cui si svolge la vita detentiva costituiscono un trauma, in primis per il minore). Tuttavia, l’azione educativa di genitori consapevoli passa attraverso l’attenzione e la sollecitudine con la quale questi si occupano dei loro figli, e sotto quest’aspetto la relazione madre-figlio va preservata. Un approccio che propone la totale deresponsabilizzazione delle persone detenute andrebbe sostituito quindi con un altro basato sull’assunzione di responsabilità e la formazione all’interno del nucleo familiare. La dimensione affettiva connessa alla maternità dovrebbe essere considerata elemento di trattamento e punto di partenza nel processo di risocializzazione all’interno del carcere. La sua assenza, al contrario, non può che produrre una destrutturazione del contesto familiare.
La possibilità, per le madri detenute, di continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale prendendo decisioni centrali per la vita e la cura della loro prole, dovrebbe essere inoltre fondamentale alla luce del principio di rieducazione della pena. La negazione del rapporto familiare, invece, in virtù di un automatismo legislativo, risponde a una logica meramente retributiva della stessa, oltre a costituire la violazione di un diritto garantito indistintamente ai liberi e ai ristretti. Ogni qualvolta in cui lo Stato non predispone gli strumenti che consentono al detenuto di continuare a essere genitore, si verifica una violazione di questo diritto.
Dal momento, in sostanza, che nel nostro ordinamento la tutela del minore ha un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti altri per preservare il rapporto madre-figlio e incrementare l’utilizzo di quelli esistenti. Le misure alternative alla detenzione appositamente introdotte per le madri in carcere ricevono infatti allo stato una scarsissima applicazione, a causa dei requisiti particolarmente rigorosi previsti, e i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere sono attivi soltanto in pochi istituti. Percorsi virtuosi di questo genere si avvalgono del lavoro di psicologi che seguono il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio, la famiglia e con i servizi territoriali, per sostenere la relazione genitoriale anche attraverso il supporto durante le visite. Alla stessa logica risponde l’intento di creare spazi destinati all’interazione tra genitori e figli diversi da quelli in cui si tengono i colloqui ordinari. I fatti (e i dati), tuttavia, ci dicono che l’attenzione dell’istituzione carceraria rispetto a queste tematiche così delicate è ancora minima. (paola cisternas navarro / manuela mascolo)
22/03/21
Erdogan: via libera alle politiche e pratiche più reazionarie - Un contributo
Alle lavoratrici, alle compagne, alle studentesse: per una nuova assemblea donne/lavoratrici diffondete e comunicate la vostra partecipazione!
Con le donne turche in lotta - il 24 presidio a Milano
India - avanza la lotta delle lavoratrici domestiche - un contributo
COVID-19 HA MESSO A NUDO LE LOTTE E LO SFRUTTAMENTO CHE LE LAVORATRICI DOMESTICHE DEVONO AFFRONTARE
Fonte: People’ Dispatch – 21/03/16, di Satarupa Chakraborty*; trad. di G. L.