Il numero delle lavoratrici che lasciano il lavoro dopo la maternità continua ad aumentare: nel 2022 siamo arrivati quasi a quota 45.000. In più del 60 per cento dei casi è determinante la responsabilità del lavoro di cura, un tema che tocca appena il 7 per cento degli uomini: i dati arrivano dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro
In base alla Relazione annuale sulle Convalide delle dimissioni lavoratrici madri e lavoratori padri presentata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro il 5 dicembre, cresce sempre di più il numero di lavoratrici che lasciano il lavoro dopo la maternità.
Nel 2022 hanno dato le dimissioni nei primi tre anni di vita del bambino o della bambina 44.699 donne, mentre la stessa scelta ha riguardato solo 16.692 uomini nella stessa condizione. Nonostante siano in aumento anche le dimissioni dei padri, rispetto all’anno precedente il divario di genere si è fatto più ampio: le mamme sono il 72,8 per cento, i papà il 27,2 per cento. Ma il vero divario è nelle motivazioni alla base dell’interruzione dei rapporti di lavoro: per le donne pesa la responsabilità del lavoro di cura e la carenza di servizi come gli asili nido, per gli uomini è legata al passaggio a un’altra azienda. Il report traccia un quadro che conferma ruoli e stereotipi di genere: il lavoro extrafamiliare è maschile, quello legato ai carichi di famiglia è femminile. Ed è anche in questo schema che vanno ricercate le ragioni di una presenza delle donna ancora troppo debole sul mercato del lavoro.
Cresce il numero di lavoratrici che lasciano il lavoro dopo la maternità: quasi 45.000 nel 2022
Sulla base delle regole previste dal Testo Unico a tutela della maternità e paternità, perché la conclusione del rapporto di lavoro sia efficace, l’INL è chiamato a convalidare le dimissioni o la risoluzione consensuale presentate nei primi tre anni di vita del bambino o della bambina o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento. Nella relazione annuale tutti i dati raccolti dall’Ispettorato anno per anno: in linea generale, il 2022 ha registrato un record dal 2011 sia per le donne che per gli uomini. Dopo la maternità o la paternità, hanno lasciato il lavoro 61.391 genitori, oltre 10.000 in più dell’anno precedente. Quello che aumenta è anche la differenza tra le donne e gli uomini che lasciano il lavoro: se nel 2021 il divario era in diminuzione, nel 2022 torna a crescere con punte dell’88 per cento nel Mezzogiorno e dati in aumento anche nell’Italia del Nord.
Cresce il numero di lavoratrici che lasciano il lavoro dopo la maternità: quasi 45.000 nel 2022I dati più rilevanti, però, per un Paese che ha bisogno di favorire allo stesso tempo occupazione femminile e natalità non sono strettamente quantitativi, ma sono legati alle motivazioni che portano a consegnare le dimissioni.
Perché le donne lasciano il lavoro nei primi tre anni di vita dei bambini e delle bambine? Nel 63,6 per cento delle motivazioni fornite, la causa sta nella difficoltà di conciliare le attività lavorative con la cura dei figli e delle figlie per la scarsa disponibilità dei servizi come gli asili nido o per ragioni legate alle aziende.
Se la stessa domanda viene posta agli uomini, le risposte cambiano radicalmente: nel 78,9 per cento le dimissioni sono legate al passaggio ad un’altra azienda. Tra le ragioni che spingono a lasciare il proprio impiego solo nel 7,1 per cento dei casi viene evidenziata la cura.
È questo il divario di genere su cui bisogna concentrarsi, anche perché c’è un aspetto meno manifesto che rende ancora più significativi i dati: prevedere il futuro è impossibile, ma le motivazioni indicate dalle donne segnano una frattura tra responsabilità familiari ed extrafamiliari e fanno supporre una fuoriuscita dal mondo del lavoro, quelle indicate dagli uomini segnano solo un momento di passaggio da un impiego all’altro.
Se occupazione femminile e natalità sono due temi centrali per lo sviluppo del paese, è da questi dati che bisogna partire.
Più della diffusione di una cultura aziendale improntata alla tutela della maternità e della paternità, che pure è necessaria, cruciale è il tema del potenziamento dei servizi.
Nel 41 per cento dei casi le donne che hanno lasciato il lavoro dopo la maternità hanno indicato la difficoltà legate al lavoro di cura in relazione alla mancanza dei servizi. L’assenza di partenti di supporto è in cima alla lista delle ragioni più specifiche all’interno di questo ambito, a conferma del fatto che l’Italia si fonda su un sistema di welfare familiare e che la stessa famiglia funge da ammortizzatore sociale.
A seguire hanno un peso i costi dell’asilo nido o delle baby sitter o la scarsità dei posti disponibili. Ed è proprio sul potenziamento dell’offerta dei servizi che si scardina il modello di assistenza familiare e che, anche dopo la pensione, continua a gravare principalmente sulle donne nel ruolo di nonne.
Nel frattempo il futuro lascia presagire novità che agiscono in direzioni contrarie: da un lato, in presenza di specifici requisiti, la Legge di Bilancio 2024 punta a potenziare il bonus asilo nido portandolo a un massimo di 3.600 euro per garantirne la gratuità, dall’altro la rimodulazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, anche a causa dei costi delle materie prime, sacrifica la creazione di 100.000 nuovi posti.
Si passa da 264.480 a 150.480 nuove disponibilità nelle strutture e l’obiettivo di superare o raggiungere il 33 per cento di copertura entro il 2026 si allontana sempre di più.
I dati dell’INL e la difficoltà di un cambio di paradigma lasciano supporre che la scelta tra maternità e lavoro interesserà le donne ancora per molto e per l’Italia aumentare le nascite e favorire l’occupazione resteranno prospettive alternative.
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