20/10/21

Braccianti in piazza a Latina contro lo sfruttamento e per sanatoria e documenti. Ma le lavoratrici indiane subiscono il doppio sfruttamento, un inferno di violenze e ricatti sessuali e....

....anche contro questa condizione bisogna lottare!

Per sabato è stata convocata una manifestazione dei braccianti a Latina. Sfruttamento significa profitti per i padroni ed estrema povertà per i lavoratori immigrati aggravata dalle leggi razziste. Ma, nel gradino più basso dei rapporti schiavisti di produzione nelle campagne italiane, c'è la condizione delle lavoratrici indiane che numerose inchieste/denunce hanno portato alla luce. L'ultima quella che riproponiamo di seguito. Le lotte dei braccianti immigrati si deve fare anche contro questa condizione di sfruttamento sessista e razzista!

da Campagne in Lotta

I LAVORATORI TORNANO IN PIAZZA PER CHIEDERE LO SBLOCCO DELLA SANATORIA E DOCUMENTI X TUTT: SABATO 23 OTTOBRE IN PIAZZA A LATINA!...

Come comitato lavoratori delle campagne supportiamo e diffondiamo la mobilitazione lanciata dalla comunità indiana e bengalese per il 23 ottobre prossimo alle 10 di fronte alla Prefettura di Latina.

La sanatoria 2020 si è rivelata fin da subito una presa in giro e ha alimentato ricatti e business a danno di tantissimi lavoratori e lavoratrici. Il 12 aprile scorso molte sono state le manifestazioni in diverse città d'Italia per chiedere lo sblocco della sanatoria e documenti per tutti/e. Le mobilitazioni continuano, per questo ci uniamo all'appello dei lavoratori di Latina e alle lotte di chi è colpito da leggi razziste e requisiti impossibili, di chi rischia continuamente di perdere il permesso o non riuscire a rinnovarlo, di chi lo aspetta da mesi, di chi non riesce ad ottenerlo. 

E' importante essere numerosi/e, perché la lotta per i documenti è la lotta di tutt!

SOLO LA LOTTA PAGA! DOCUMENTI PER TUTT!

La condizione delle lavoratrici indiane

da il Domani art. di Marco Omizzolo del 18 agosto 2021 :

Akhila, ad esempio, è una bracciante di origine indiana. È sposata e lavora in un'azienda tra le province di Latina e Roma: «...Io, come anche altre donne, non parlavo italiano e all'azienda questo non piaceva. I capi decisero di imporci l'uso dell'italiano durante l'orario di lavoro, ossia anche per dieci o dodici ore al giorno, e se trasgredivamo, ossia se iniziavamo a parlare nella nostra lingua d'origine, ci multavano. La multa era di 10 euro per noi lavoratrici immigrate e 20 euro se invece a trasgredire erano le donne che avevano messo a capo delle squadre di lavoro. Forse era un modo per abbassarci ulteriormente la paga, oppure per subordinarci. Non lo so. Io sono stata multata diverse volte, soprattutto nei primi mesi. Quando lavori per 40 euro e dieci ti vengono tolti perché hai parlato nella tua lingua di origine con una tua collega connazionale, ci resti male. Lavorare in agricoltura è molto faticoso e anche pericoloso e parlare la nostra lingua non dovrebbe essere un problema. È la nostra cultura».

Irina è un fiume in piena. Non ha mai denunciato perché dice di non credere nella giustizia italiana: «Ho visto donne e uomini indiani o bangladesi, ad esempio, cadere da quelle serre ed essere soccorsi con un bicchierino di caffè....tutto qui...un bicchiere di caffè e poi devi continuare a lavorare come prima. Non ti mettono mai in sicurezza, non ti fanno mai lavorare in sicurezza. Non gli conviene...Anche perché sanno che i controlli non si fanno. Io in quindici anni circa non ho mai visto controlli in azienda. Certo, so che in giro li fanno ora, soprattutto dopo lo sciopero di qualche anno fa, ma sono ancora pochi e a volte sono controlli anche telefonati...». La sua non è una confessione ma uno sfogo: «Ho avuto problemi di salute mentale molto gravi. Sono andata varie volte dal medico che mi ha fatto vari certificati. Qualche volta mi ha detto che rischiavo anche un infarto. Altre volte invece avevo crisi da stress da lavoro intensivo che mi destabilizzava completamente. Se pensi che quando fuori calava il sole noi lavoravamo al buio, senza luce. Questo era un disagio estremo. Non avevi più il senso della giornata e ti disorientava. Entravi in azienda alle 06.00 col buio e uscivi alle 22.00 ancora con il buio. E inoltre dalle 16.00 in poi lavoravi di fatto al buio. Era come un carcere, te l'ho detto».....«Il caporale che ci governava si. Con me non andava d'accordo. Ci trattava come bestie. Pensa che poteva capitare di lavorare dalle 06.00 del mattino fino alle 24.00 e poi di tornare a lavorare la mattina seguente. Ma in questo caso arrivavamo stanche, molto stanche, e ci offendeva dicendoci che avevamo lavorato male il giorno precedente e che quella mattina non eravamo presentabili. Ho sentito dire da lui ad alcune ragazze che puzzavano o che non erano belle e che l'azienda invece ci teneva alla loro presenza. Capisci? Dovevamo essere ai loro ordini, dire sempre signor si, lavorare come schiave ed essere anche belle...C'erano anche frasi razziste, senza dubbio. Contro di me no, ma le ho sentite contro le donne indiane ad esempio...del tipo indiana di m***a. 

roma.repubblica.it

"Io sono una pecora, loro i leoni". Stupri e umiliazioni, l'incubo delle nuove schiave nel Basso Lazio costrette a lavorare tra i veleni

di Clemente Pistilli

Una ricerca shock, getta nuova luce sul girone delle braccianti in provincia di Latina. "Se non cedi alle loro richieste ti lasciano morire di fame"

16 OTTOBRE 2021

Sottopagate, costrette a mangiare in piedi, a evitare anche di andare in bagno e soprattutto a cedere il loro corpo ai padroni. Al gradino più basso dello schiavismo che tristemente impera in troppe aziende dell'agro pontino ci sono le donne di nazionalità indiana.

Il lavoro nei campi è un inferno per i sikh, come ormai emerso da numerose inchieste e processi a Latina, ma il girone più profondo è riservato alle mogli dei braccianti. Una realtà nascosta quella portata ora alla luce da Marco Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni presso l'Università La Sapienza di Roma e sociologo Eurispes, e scandagliata in un'indagine condotta nell'ambito della campagna internazionale #OurFoodOurFuture di WeWorld, un'organizzazione impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambine e bambini in 25 Paesi del mondo.

Gli abusi sessuali, stando all'indagine portata avanti da Omizzolo, sono all'ordine del giorno in troppe aziende agricole dell'agro pontino. "Ho un figlio, la vita non è facile per una donna con un bambino e senza marito in un paese straniero, lavorando come bracciante a tempo determinato. Non è un problema solo di denaro. La gente vede una  donna straniera sola con un bambino e pensa che sei una facilmente disponibile, aperta ad incontro occasionale, propensa a tutto. Invece io cerco di essere seria e di pensare a mio figlio e queste voci cerco di non ascoltarle", ha riferito al sociologo Sunita, una bracciante di 32 anni.

Ancora: "Si tratta di indiani e italiani che pensano che in quanto sola, io sia una pecora e loro i leoni. Ma fino a quando sono parole, diciamo che non mi curo di loro. Il problema è quando ti chiamano al telefono, ti mandano audio o video coi quali ti invitato esplicitamente, magari perché ubriachi, a stare con loro. Lo trovo davvero brutto". Il messaggio che viene inviato alle braccianti è chiaro: se vogliono ottenere una proroga del contratto, necessaria pure per il permesso di soggiorno, o un piccolo aumento devono sottostare alle voglie di caporali e padroni.

"Ti dicono che se vuoi il rinnovo del contratto allora devi dare qualcosa in cambio, oppure essere carina con loro, seguirli dietro le serre, nei bagni o dietro il capannone”, ha dichiarato Shergill. Un'altra lavoratrice: "Non importava se eri sposata o meno, se acconsentivi o meno. Se il padrone ti chiedeva direttamente o tramite un caporale di andare a letto con lui dovevi andare a basta. Questo valeva sia per le indiane che per le rumene. Allora avevi solo due possibilità: accettare e continuare a lavorare, oppure rifiutare e scappare. Dovevi lasciare tutto, anche i documenti negli uffici, e andare via, magari tornare a casa".

Così Sunita: "Se cedi una volta, come io stessa ho visto, poi ti stanno addosso tutti i giorni. Ti passano dietro e ti dicono certe cose all’orecchio, oppure si strusciano, ridono di te davanti ai colleghi che poi ti vedono come una facile e disponibile ed hai finito di vivere. Anche io ho ricevuto queste attenzioni".

La comunità indiana in provincia di Latina è la seconda più numerosa d'Italia. I sikh sono diventati i nuovi schiavi e per le donne va anche peggio. Lo ha confermato al sociologo anche una bracciante italiana, Paola: "Vedevo come venivano trattate le braccianti immigrate. Erano sempre le ultime della fila, sempre sfruttate, a volte anche maltrattate verbalmente. Il padrone aveva una scala di precedenze, secondo la quale al primo posto venivano i braccianti italiani, anche perché qualcuno era suo amico, poi le braccianti italiane come me, poi i lavoratori immigrati uomini e infine le donne straniere, e nello specifico in primis rumene e poi, per ultime, quelle del Bangladesh”.

Alle lavoratrici di nazionalità indiana vengono riservati gli ultimi posti nei furgoni utilizzati per raggiungere le campagne, i peggiori, e non viene dato loro neppure un posto dove sedere per consumare il pasto. “Avevamo lavorato per circa 6 mesi e il padrone italiano ci diede un solo pagamento in contanti di 300 euro. Solo che noi senza soldi non possiamo vivere. Puoi aspettare il pagamento di un mese, massimo due, non sei mesi continui. Non siamo animali. Siamo donne”, ha raccontato Akhila.

La paga media? 3 euro l'ora. “Io in busta paga ho sempre un terzo circa delle giornate effettivamente lavorate. Le lavoratrici italiane sempre qualche giorno in più”, ha specificato Sunita. Akhila: “In un’azienda, i capi decisero di imporci l’uso dell’italiano durante l’orario di lavoro, ossia anche per dieci o dodici ore al giorno, e se trasgredivamo, ossia se iniziavamo a parlare nella nostra lingua d’origine, ci multavano. La multa era di 10 euro per noi lavoratrici immigrate e 20 euro se invece a trasgredire erano le donne che avevano messo a capo delle squadre di lavoro".

Ma c'è anche di peggio e riguarda i veleni che le braccianti sono costrette a maneggiare prive di qualsiasi protezione. “I veleni per me erano un grosso problema - ha riferito una lavoratrice a Omizzolo - non avevo il patentino per i veleni. Prima della minaccia di sciopero quel lavoro lo faceva un capo italiano esperto. Poi lo hanno fatto fare a me, ma stavo molto male. Respiravo quegli odori fortissimi e ogni volta mi sentivo male. Avevo dolori allo stomaco, agli occhi e a volte mi gocciolava il naso. La notte poi non riuscivo più a dormire perché ero molto stressata".

"Una volta un lavoratore si è tagliato un dito. Il capo gli ha messo un po’ d’acqua, un fazzoletto e lo ha accompagnato a casa chiedendogli di non andare al pronto soccorso”, ha aggiunto Pallavi. 

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