Sottopagate, costrette a mangiare in piedi, a evitare anche di andare in bagno e soprattutto a cedere il loro corpo ai padroni. Al gradino più basso dello schiavismo che tristemente impera in troppe aziende dell'agro pontino ci sono le donne di nazionalità indiana.

Il lavoro nei campi è un inferno per i sikh, come ormai emerso da numerose inchieste e processi a Latina, ma il girone più profondo è riservato alle mogli dei braccianti. Una realtà nascosta quella portata ora alla luce da Marco Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni presso l'Università La Sapienza di Roma e sociologo Eurispes, e scandagliata in un'indagine condotta nell'ambito della campagna internazionale #OurFoodOurFuture di WeWorld, un'organizzazione impegnata da 50 anni a garantire i diritti di donne, bambine e bambini in 25 Paesi del mondo.

Gli abusi sessuali, stando all'indagine portata avanti da Omizzolo, sono all'ordine del giorno in troppe aziende agricole dell'agro pontino. "Ho un figlio, la vita non è facile per una donna con un bambino e senza marito in un paese straniero, lavorando come bracciante a tempo determinato. Non è un problema solo di denaro. La gente vede una  donna straniera sola con un bambino e pensa che sei una facilmente disponibile, aperta ad incontro occasionale, propensa a tutto. Invece io cerco di essere seria e di pensare a mio figlio e queste voci cerco di non ascoltarle", ha riferito al sociologo Sunita, una bracciante di 32 anni

Ancora: "Si tratta di indiani e italiani che pensano che in quanto sola, io sia una pecora e loro i leoni. Ma fino a quando sono parole, diciamo che non mi curo di loro. Il problema è quando ti chiamano al telefono, ti mandano audio o video coi quali ti invitato esplicitamente, magari perché ubriachi, a stare con loro. Lo trovo davvero brutto". Il messaggio che viene inviato alle braccianti è chiaro: se vogliono ottenere una proroga del contratto, necessaria pure per il permesso di soggiorno, o un piccolo aumento devono sottostare alle voglie di caporali e padroni.

"Ti dicono che se vuoi il rinnovo del contratto allora devi dare qualcosa in cambio, oppure essere carina con loro, seguirli dietro le serre, nei bagni o dietro il capannone”, ha dichiarato Shergill. Un'altra lavoratrice: "Non importava se eri sposata o meno, se acconsentivi o meno. Se il padrone ti chiedeva direttamente o tramite un caporale di andare a letto con lui dovevi andare a basta. Questo valeva sia per le indiane che per le rumene. Allora avevi solo due possibilità: accettare e continuare a lavorare, oppure rifiutare e scappare. Dovevi lasciare tutto, anche i documenti negli uffici, e andare via, magari tornare a casa".

Così Sunita: "Se cedi una volta, come io stessa ho visto, poi ti stanno addosso tutti i giorni. Ti passano dietro e ti dicono certe cose all’orecchio, oppure si strusciano, ridono di te davanti ai colleghi che poi ti vedono come una facile e disponibile ed hai finito di vivere. Anche io ho ricevuto queste attenzioni".

La comunità indiana in provincia di Latina è la seconda più numerosa d'Italia. I sikh sono diventati i nuovi schiavi e per le donne va anche peggio. Lo ha confermato al sociologo anche una bracciante italiana, Paola: "Vedevo come venivano trattate le braccianti immigrate. Erano sempre le ultime della fila, sempre sfruttate, a volte anche maltrattate verbalmente. Il padrone aveva una scala di precedenze, secondo la quale al primo posto venivano i braccianti italiani, anche perché qualcuno era suo amico, poi le braccianti italiane come me, poi i lavoratori immigrati uomini e infine le donne straniere, e nello specifico in primis rumene e poi, per ultime, quelle del Bangladesh”.

Alle lavoratrici di nazionalità indiana vengono riservati gli ultimi posti nei furgoni utilizzati per raggiungere le campagne, i peggiori, e non viene dato loro neppure un posto dove sedere per consumare il pasto. “Avevamo lavorato per circa 6 mesi e il padrone italiano ci diede un solo pagamento in contanti di 300 euro. Solo che noi senza soldi non possiamo vivere. Puoi aspettare il pagamento di un mese, massimo due, non sei mesi continui. Non siamo animali. Siamo donne”, ha raccontato Akhila.

La paga media? 3 euro l'ora. “Io in busta paga ho sempre un terzo circa delle giornate effettivamente lavorate. Le lavoratrici italiane sempre qualche giorno in più”, ha specificato Sunita. Akhila: “In un’azienda, i capi decisero di imporci l’uso dell’italiano durante l’orario di lavoro, ossia anche per dieci o dodici ore al giorno, e se trasgredivamo, ossia se iniziavamo a parlare nella nostra lingua d’origine, ci multavano. La multa era di 10 euro per noi lavoratrici immigrate e 20 euro se invece a trasgredire erano le donne che avevano messo a capo delle squadre di lavoro".

Ma c'è anche di peggio e riguarda i veleni che le braccianti sono costrette a maneggiare prive di qualsiasi protezione. “I veleni per me erano un grosso problema - ha riferito una lavoratrice a Omizzolo - non avevo il patentino per i veleni. Prima della minaccia di sciopero quel lavoro lo faceva un capo italiano esperto. Poi lo hanno fatto fare a me, ma stavo molto male. Respiravo quegli odori fortissimi e ogni volta mi sentivo male. Avevo dolori allo stomaco, agli occhi e a volte mi gocciolava il naso. La notte poi non riuscivo più a dormire perché ero molto stressata".

"Una volta un lavoratore si è tagliato un dito. Il capo gli ha messo un po’ d’acqua, un fazzoletto e lo ha accompagnato a casa chiedendogli di non andare al pronto soccorso”, ha aggiunto Pallavi. Le autorità invitano da tempo i lavoratori sfruttati a denunciare, ma neppure questo è semplice. Lo ha spiegato bene Pino Cappucci, segretario generale Flai-Cgil Roma e Lazio: “Siamo di fronte a un doppio abuso, quello lavorativo e quello sessuale, e, inoltre, a un doppio ricatto che pongono le donne in una condizione di maggior fragilità con la paura di denunciare sia lo sfruttamento che le violenze subite. La paura e la vergogna impediscono una esposizione e una denuncia concreta".

Drammi che spingono WeWorld a chiedere alla Commissione europea di presentare senza ulteriori ritardi una legge che obblighi le aziende a rispettare i diritti umani e l’ambiente lungo le catene di approvvigionamento globali per prodotti commercializzati in Europa attraverso un processo di due diligence.