La scuola ai tempi del coronavirus
La chiusura delle scuole è stata una
delle prime limitazioni a carattere nazionale introdotta dalle direttive
governative. Un atto senza dubbio necessario. Forse persino tardivo. Una
limitazione che ha anticipato solo di pochi giorni il blocco di altri
settori, compreso quello recente del commercio. Si prova a rassicurare
le persone sostenendo che i servizi pubblici saranno universalmente
garantiti, ma nella realtà non siamo sicure sia così. La gestione
dell’emergenza sta ulteriormente accentuando l’accesso differenziato ai
servizi pubblici fondamentali. Basti pensare che si è messa in
“quarantena” la scuola per limitare la propagazione del virus, affinché
le persone bisognose di cure non affollassero un sistema sanitario
nazionale strutturalmente sottodimensionato e impreparato a gestire
questo evento. Si tratta di due comparti del welfare — la sanità e la
scuola — che in questi ultimi venti anni sono stati oggetto di continuo
definanziamento, impoverimento qualitativo, seguito da ondate di
privatizzazione. Quando parliamo dell’emergenza Covid–19 non
dimentichiamoci che stiamo parlando prima di tutto della tenuta
materiale del paese, dell’adeguatezza di istituzioni universali in grado
di assicurare la continuità e la qualità di relazioni sociali
fondamentali. Forse se in queste ore ci scopriamo così fragili, così
esposte al rischio, è perché questa emergenza ha solo svelato ciò che
era visibile ad occhi più attenti anche prima, ovvero la debolezza di
istituzioni plasmate negli anni dall’ideologia neoliberista.
La prospettiva ormai evidente di una
chiusura prolungata delle scuole rende necessario organizzare la
didattica a distanza, assicurare la continuità della formazione, rompere
la sospensione del tempo dettata dalla crisi. Con una precisazione
importante, però, senza la quale questa affermazione rischierebbe di
risultare astratta. La riorganizzazione della scuola già all’opera in
questi giorni e il richiamo alla «didattica a distanza» esortato
a–criticamente dalla Ministra Azzolina e dalle ultime direttive, non
hanno proprio nulla di neutrale e portano con sé una serie di
conseguenze rilevanti sulla trasmissione del sapere, sulla
trasformazione dell’apprendimento e sul lavoro dell’insegnante.
Dopo la prima direttiva del governo del 4
marzo, in parte corretta dalla seconda (DPCM dell’8 marzo) che ha reso
maggiormente vincolante il ricorso alla «didattica a distanza», si è
assistito ad una risposta nazionale disomogenea. In assenza di
indicazioni precise del Ministero e in mancanza di piattaforme
universali di e–learning accessibili da tutte le
scuole, hanno prevalso iniziative frettolose, parziali, spesso confuse,
diverse per ogni scuola e persino per ogni docente. Dirigenti dalla
vocazione autoritaria più spiccata, coltivata negli anni in cui la
retorica del preside–manager è andata a buon mercato, hanno finito per
prendere decisioni talvolta inadeguate. La necessità di rispondere
frettolosamente all’emergenza — anche solo per reagire a iniziative di
altri istituti del territorio, secondo una logica tipicamente
competitiva — si è tradotta in decisioni rilevanti che impattano sulla
didattica spesso senza consultare i collegi dei docenti, azzerando il
normale funzionamento democratico delle scuole. Converrebbe forse
chiedersi, se sono possibili soluzioni tecniche per la formazione online, perché non dovrebbero essere valide soluzioni per evitare tensioni autoritarie?
C’è da riflettere poi su come queste
risposte frammentarie siano in realtà tutt’altro che un effetto
collaterale di una politica emergenziale. Si è assistito ad una
esplosione di iniziative individuali di docenti per trovare le app
e le piattaforme didattiche più all’avanguardia, altri/e hanno reagito
assegnando compiti sul Registro Elettronico, il tutto accompagnato da
interminabili discussioni che stanno sovraccaricando le chat di ogni
insegnante. Di fatto la gestione dell’emergenza sta facendo ampiamente
leva su una presunta «missione naturale» individuale di scuole e docenti
attingendo tout court alle competenze di «auto-impresa», al
mito neoliberale della «resilienza», attorno cui in questi anni si è
riorientata fortemente la formazione del personale nelle scuole. Le
prese di iniziative singole, fuori da spazi decisionali collettivi, sono
esattamente il contrario della capacità di una istituzione di reagire
democraticamente ad una emergenza. Governare l’emergenza con un mix di
forme di controllo dall’alto e un rimando a dosi massicce di
spontaneismo a–critico dei singoli presidi o docenti, finisce per
rompere la garanzia della «scuola per tutte/i», poiché le risposte dei
singoli, anche se dettate da buona volontà, non potranno mai essere
all’altezza della complessità di un comparto di welfare che deve
continuare ad essere garantito e accessibile a tutte/i. Peraltro,
risulta assolutamente non trascurabile che, tanto le indicazioni
contenute nell’ambiente online per la didattica a distanza aperto
dall’INDIRE quanto quelle promosse dal progetto “Solidarietà digitale”
del Ministero per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione,
rimandano all’uso di piattaforme private dei più rilevanti colossi
economici globali — Google, Microsoft o Amazon — senza dimostrare alcuna
attenzione alle delicate questioni della privacy e della
proprietà dei dati, nonché alle implicazioni pedagogiche che
l’inserimento di tali piattaforme comporterebbe nella scuola pubblica.
Il problema, dunque, non è in sé il protagonismo volontario dei docenti
esercitato in questa fase, che non escludiamo risponda anche ad un
desiderio di partecipazione mosso da un bisogno di solidarietà e di
comunicare con i/le propri studenti. Il problema è semmai che queste
“energie spontanee” rischiano, loro malgrado, di condensare i processi
appena descritti.
Perché, ancora, pensiamo che questa
specifica modalità di favorire le iniziative individuali sia inadeguata?
Perché se in astratto la «didattica a distanza» è una risorsa valida
per le/gli studentesse/i, allo stesso tempo non possiamo accettare
questa esaltazione retorica dell’uso delle tecnologie, come una nuova
tecno–utopia capace di risolvere ogni problema. La scuola in rete per
definizione rompe il gruppo classe o crea almeno una barriera spaziale
tra le/gli allieve/i e docenti, che non è per nulla neutrale. Introdurre
queste tecniche senza contestualmente ripensare le forme della
didattica cooperativa crea nuove criticità. Non tutte le tecnologie
disponibili sono in grado di risolvere i problemi complessi del processo
di insegnamento/apprendimento. Pensiamo ad esempio ai/alle bambini/e
della scuola primaria, oppure a quelli con particolari bisogni educativi
speciali (i cosiddetti BES). Un uso non attento di alcune tecniche
rischia di negare di fatto l’accesso alla scuola ad alcune fasce.
Pensiamo, invece, ai/alle ragazzi/e che vivono in situazioni di
svantaggio socio–economico, che sono tantissimi/e nelle periferie in cui
lavoriamo, che magari non possiedono dispositivi informatici adeguati o
hanno uno scarso accesso alla rete. Come si fa con loro? Come si fa
davvero ad assicurargli la scuola? La didattica in rete presuppone anche
un diverso coinvolgimento delle famiglie nei tempi di formazione,
soprattutto nella scuola primaria e alle medie. Ma non tutte le famiglie
sono in grado di seguire le/i figlie/i allo stesso modo, sia perché
molti non hanno l’alfabetizzazione necessaria per usare le tecnologie,
sia perché questo sovraccarico di lavoro di cura sulle famiglie mal si
coniuga con le misure che il governo sta prendendo per le
lavoratrici/lavoratori (es. dallo smart working, alla
continuità della produzione in molti settori). Ancora una volta, quindi,
non si può trascurare che l’introduzione confusa dell’e–school
rischia di avere notevoli effetti di classe, amplificando i fenomeni di
diseguaglianza sociale nell’accesso al diritto allo studio.
Come in un gioco di specchi, il ricorso
de–regolamentato a queste tecnologie di rete, investe anche il nostro
lavoro. Non bisogna negare che la gran parte di noi docenti è
impreparata all’uso delle piattaforme didattiche, perché non è mai stata
dedicata loro una formazione specialistica adeguata e gratuita e perché
anche le scuole sono in larga parte impreparate, nonostante il “Piano
nazionale scuola digitale” sia stato ampiamente dedicato ai problemi del
digital divide. L’emergenza ha comportato negli ultimi giorni
un notevole sforzo di autoformazione da parte dei/delle docenti. Ore
intere passate a capire il funzionamento di piattaforme mai usate, nuove
funzioni del Registro Elettronico mai abilitate, ore a scambiarsi
consigli informali via chat tra docenti. In altri termini ore aggiuntive
di lavoro che stanno producendo l’estensione dell’orario lavorativo e
una dilatazione dei tempi di attenzione e disponibilità. Un sovraccarico
ancor più gravoso se si pensa ai docenti con più classi, soprattutto
nelle scuole medie.
La storia ci insegna che il governo delle
emergenze introduce trasformazioni tutt’altro che temporanee. Quello
che si è introdotto per tamponare singoli eventi presto diventa lo
standard o almeno un precedente capace di condizionare la gestione
futura. L’emergenza del coronavirus in queste settimane ne svela
un’altra, dall’origine più lunga. Se si è arrivati a discutere di
tecnologie e di dotazioni delle scuole solo ora è perché negli ultimi
trenta anni, proprio come nella sanità, le politiche dei governi hanno
sempre confermato la logica dei tagli alla spesa pubblica, impoverendo
la qualità dei servizi. E se la scuola ai tempi del coronavirus ci desse
l’opportunità di riaprire una discussione sul funzionamento delle
scuole e sulla qualità dell’insegnamento?
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