Pubblichiamo
ampi stralci di questo importante testo di denuncia dell’Usb che
riprende la lettera di denuncia scritta da delegate dell’Usb in
occasione del 25 novembre dell’anno scorso alla Litizzetto, a cui
l’attrice non rispose, non accettando la proposta di queste donne di
girare uno spot che parli dell’altra realtà delle donne che lavorano
nelle Coop, ma rispose subito l’azienda
ORA E’ TEMPO
DI NON CHIEDERE, DI NON DELEGARE AD ALTRE, MA DI PORTARE NOI
DIRETTAMENTE CON FORZA, CON LA LOTTA LA VERA REALTA’ DI SFRUTTAMENTO,
DISCRIMINAZIONE, UMILIAZIONI, OPPRESSIONE CHE SI VIVE IN QUESTI POSTI,
TANTO PROPAGANDATI IN TV E TANTI CARI (NEL SENSO DI LORO GUADAGNI) AD
ESPONENTI DELLA “SINISTRA” – QUESTO E’ ANCHE LO SCIOPERO DELLE DONNE DEL
25 NOVEMBRE DI QUEST’ANNO! A QUESTE DELEGATE, ALLE LAVORATRICI DELLE COOP, A TUTTE LE COMMESSE, DALLE GRANDI CATENE AI PICCOLI NEGOZI, DICIAMO IL 25 NOVEMBRE
SCIOPERIAMO! DICIAMO AI PADRONI “PROVATE VOI A STARE ANCHE UN GIORNO SENZA LE DONNE”
NON E’
FACILE MA DOBBIAMO COMINCIARE! AL SINDACATO NAZIONALE USB A CUI ABBIAMO
GIA’ RIVOLTO L’APPELLO A INDIRE PER QUEL GIORNO A LIVELLO NAZIONALE E IN
TUTTI I SETTORI LO SCIOPERO DELLE DONNE (ma che tuttora non ha
risposto) RINNOVIAMO ANCHE A NOME DI QUESTE LAVORATRICI E DI TANTE ALTRE
LA RICHIESTA DI ESSERE COERENTE CON LA SUA IMPORTANTE DENUNCIA
CONTRO QUESTO DOPPIO ATTACCO ALLE LAVORATRICI NON BASTANO GLI SCIOPERI GENERALI, OCCORRE LO SCIOPERO DELLE DONNE!
Contattateci: scioperodonne: Anchioscioperodonne@inventati.org
L’assemblea delle lavoratrici, precarie, disoccupate, compagne del 18 e 19 ottobre a Roma
Dal sito USB – Commercio
“Lo sai cosa si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno?”
Su quasi due milioni di lavoratori del commercio quasi l’80% sono
donne. USB invita a discutere delle questioni vere che impattano
pesantemente sulla vita di queste lavoratrici: salario, precarietà,
part-time, discrezionalità e libertà.
In ballo ci sono innanzitutto le condizioni salariali. Finalmente
scopriamo che tutti, fulminati sulla via di Damasco, riconoscono che in
Italia esiste un problema di bassi salari. La forma contrattuale più
usata nel commercio è quella part time, ma le multinazionali del
commercio non ci dicono che il part-time non è quasi mai una libera
scelta della lavoratrice, è l’unica possibilità che le viene offerta per
essere assunta. La possibilità di migliorare questa condizione è remota
e spesso non passa attraverso il merito o l’anzianità, il risultato è
un salario che si aggira sui 600 – 700 euro mensili. Chi fa il part-time
ha bisogno di svolgere una seconda occupazione per mettere insieme un
salario appena sufficiente, ma questo è reso impossibile
dall’organizzazione del lavoro messa in atto dalle aziende. I turni
delle lavoratrici spesso vengono esposti il venerdì o il sabato della
settimana precedente e variano in continuazione a seconda delle esigenze
commerciali e non nel rispetto dei tempi di vita e della cura delle
famiglie. A volte, sempre per le esigenze dell’impresa, i turni vengono
cambiati per telefono nella stessa giornata. Può succedere che i
part-time beneficino di incrementi dell’orario di lavoro, ma nessuno
dice che si tratta di aumenti di ore contrattuali temporanei e
discrezionali. La speranza di poter ottenere questi incrementi
costituisce uno degli strumenti preferiti dalle aziende per mantenere
sotto ricatto chi lavora. Ed è questa discrezionalità e ricattabilità
che le donne subiscono quotidianamente, questo clima diffuso che incide
nella vita di relazione e sulla salute di queste lavoratrici.
Il lavoro precario, altra forma contrattuale che favorisce la
possibilità dei datori di lavoro di poter “ricattare” le lavoratrici, è
una condizione molto diffusa per le donne del commercio. Perché assumere
ex novo dipendenti da formare e senza esperienza e lasciare a casa
persone che da anni danno il loro apporto all’impresa con
professionalità ed esperienza? La risposta a questa domanda è
inquietante: non le chiamano perché non vogliono rischiare che si
avvicinino troppo ai 36 mesi di lavoro, validi per l’assunzione
obbligatoria per legge. E’ il modo che le aziende del commercio hanno
escogitato per aggirare la legge dell’assunzione obbligatoria dopo 36
mesi: ti sfrutto per qualche anno e poi ti saluto, sostituendoti con
altri precari. Proprio quelle aziende che si riempiono la bocca con la
parola “legalità”, trovano il modo di farsi beffa di una legge che
tutela i lavoratori dal cancro della precarietà. Un meccanismo
effettivamente ingegnoso di un settore che si conferma all’avanguardia
nel trovare nuove forme per lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori.
Altri aspetti importanti sono quelli relativi al lavoro in nero, al
sommerso, alla somministrazione, ai finti appalti di manodopera, agli
stage “creativi”, insomma a tutte quelle “anomalie” contrattuali che
hanno come perno la precarietà e che rendono ancora più deboli e
sottopagate le donne del commercio, lasciando mano libera a chi le
sfrutta.
Chi vive la realtà di un supermercato o di un ipermercato sa benissimo
che è difficoltoso anche poter andare in bagno ed è spesso necessario
chiedere il permesso. L’esigenza fisiologica viene considerata parte
integrante dell’organizzazione del lavoro e del potere datoriale. E “denunciare, protestare o anche solo discutere le decisioni che ti riguardano non è affatto facile”. Questo
è il clima che si vive nei luoghi del commercio, l’organizzazione del
lavoro rispecchia quella delle istituzioni totali (carceri, manicomi,
caserme), passa cioè per l’organizzazione formale e centralmente
amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne ed il controllo
operato dall’alto sui soggetti-membri. Un gruppo di delgate ed iscritte
USB della Coop ha denunciato questo clima da caserma in una ”lettera aperta” inviata
a Luciana Littizzetto, testimonial della Coop, nella giornata contro la
violenza sulle donne, ma moltissimi altri esempi testimoniano la nostra
analisi. C’è la storia di una “cassiera ferita”di Leroy merlin, c’è la cassiera di Panorama ed il «diritto alla pipì» negato, c’è il “racconto” di una ex addetta alle vendite nella multinazionale Lidl, ci sono le cassiere della Carrefour che potevano fare “pipì solo ogni quattro ore”per direttiva, c’è “l’intervista a Beatrice”, cassiera Ipercoop in provincia di Torino, c’è la “lettera aperta” della bella addormentata alla Coop, che si è poi incatenata davanti la sede dell’associazione di categoria, ci sono le cinque ex precarie coop che “si raccontano”, c’è il “sorriso amaro” delle
cassiere della Coop, che hanno il premio aziendale in base
all’attitudine a sorridere, … Ma poi ci sono anche tante storie che
sentiamo ogni giorno nelle nostre stanze sindacali e tantissime
altre che purtroppo non ascolta nessuno, storie di ordinarie vessazioni
vissute nella solitudine e nel dolore.
Le donne del commercio, come le donne di tutti gli altri settori,
lavorano di più per guadagnare di meno e non ricoprono quasi mai ruoli
apicali nelle aziende. Il principale fondamento delle pari opportunità
sarebbe l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione nel
rispetto dei Diritti dell’individuo. In particolare, quando si parla di
Pari Opportunità di Genere, s’intende la necessità di permettere e
garantire alle donne di fare scelte e compiere azioni, sia nella vita
privata che nella vita professionale, senza alcun tipo di diseguaglianza
di genere, rendendosi conto delle mille potenzialità, creatività,
abilità e motivazioni che le donne possono apportare alle società. Nella
realtà molte donne del commercio hanno dichiarato di aver perso il
lavoro a causa di una gravidanza, e la lettera di dimissioni in bianco è
la modalità più diffusa con cui le leggi a tutela della madre
lavoratrice vengono aggirate. Molte donne del commercio lamentano di
subire molestie e atteggiamenti vessatori da parte dei “capi”, che
spesso sono maschi. Ma allora a cosa servono le commissioni paritetiche
contrattuali e i vari consiglieri di parità provinciali, regionali e chi
più ne ha più ne metta? A creare stipendi per i soliti noti? La
battaglia per le pari opportunità è una battaglia di civiltà e non può
certamente restare un enunciato.
Ultima questione, ma non per ultima, la possibilità degli esercizi
commerciali e dei grandi ipermercati di tenere aperto sempre, anche
durante le domeniche e i festivi, che è stata recepita subito da tutti i
soggetti interessati, creando un vantaggio e una comodità apparenti per
“l’homo consumens” e, nel contempo, gravissimi problemi per i
lavoratori, che non hanno più tempo per se stessi e per le proprie
famiglie, aggiungendo un ennesimo tassello al puzzle di precarietà,
basso salario, difficoltà nella vita di relazione e degli ormai
pochissimi diritti per oltre due milioni addetti del settore ed in
particolare per le donne. In un paese che fa i suoi continui richiami
alla “sacralità” della famiglia e dove i servizi pubblici non sono
attivi spesso neanche il sabato, ed in un settore dove l’80% degli
occupati sono di sesso femminile, si evidenzia una forte contraddizione.
Come può una donna che lavora nel commercio, dove la flessibilità è un
elemento imprescindibile e straordinari, festivi obbligatori, orari che
cambiano ogni giorno, ferie non concordate sono la normalità, rendere
conciliabili i tempi di vita e di cura della famiglia con il proprio
lavoro?
Salario, abbattimento della precarietà, possibilità di passare dal
part-time al tempo pieno, contenimento della discrezionalità delle
direzioni e contrattazione dei tempi e dei turni, e, non ultimo, libertà
di parola e di critica, queste sono le questioni in campo. Questioni
difficilmente aggirabili che non si risolvono con il consenso dei
sindacati compiacenti ma con la disponibilità al dialogo vero con tutte
le parti, compresa USB che non ha nessuna intenzione di inchinarsi alla
filosofia delle aziende del commercio.
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