Nell'intervento al Convegno del 18 aprile su pandemia/salute/lotte proletarie, l'Assemblea donne/Lavoratrici ha rilanciato il lavoro d’inchiesta per far uscire dall'invisibilità le tante lavoratrici migranti del settore agricolo. Pubblichiamo di seguito un articolo di Luca Rondi, utile per orientarsi in questa direzione
Dagli insediamenti informali del foggiano alle serre del ragusano, passando per la pianura calabrese. A migliaia di donne invisibili è negato l’accesso ai diritti. E il sistema anti-tratta fatica a “intercettare” le violenze multiple e a farsi carico delle vulnerabilità
di Luca Rondi
Da chi cerca di fornire loro un supporto vengono definite una “presenza silente”. Sono le migliaia di donne braccianti che vivono una dimensione di vulnerabilità che le porta ad essere esposte al grave sfruttamento. Dagli insediamenti informali del foggiano alle serre del ragusano, passando per la pianura calabrese. Il silenzio che accompagna la loro condizione le fa diventare invisibili: “La dimensione di informalità -spiega Letizia Palumbo, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia- colpisce tutti i lavoratori ma soprattutto le donne che sono gravate anche dal carico del lavoro di cura. La mancanza dell’accesso ai diritti sociali è un fattore che le espone particolarmente a dinamiche di sfruttamento e abusi”.
Lo sfruttamento multiplo è diffuso negli insediamenti informali della provincia di Foggia. I più popolosi sono l’ex Pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, il Gran Ghetto di Rignano Scalo, il Ghana House di Borgo Tre titoli, a questi si aggiungono numerose masserie occupate a macchia di leopardo in un raggio di 50 chilometri dal centro cittadino. Non luoghi in cui le donne sono appunto una “presenza silente”.
Lo racconta Erminia Rizzi, operatrice legale e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che interviene negli insediamenti informali dai primi anni 2000. “In questi tre campi la presenza di donne è numericamente significativa. Premesso che tutti coloro che vivono negli insediamenti sono in una condizione di vulnerabilità e fragilità, le donne sono spesso vittime di un doppio sfruttamento: quello lavorativo prevalentemente in ambito agricolo, quello sessuale da parte di chi gestisce i proventi della prostituzione. A questo si aggiunge una condizione di violenza di genere ‘sistemica’. Lo sfruttamento e la violenza diventano così multiplo e trasversale”.
Gli insediamenti registrano una presenza fissa di circa 2mila persone che cresce a partire da febbraio fino a raggiungere le 6.500 persone nel periodo estivo. “Rispetto a queste presenze è difficile dare una stima numerica della presenza femminile soprattutto perché, a differenza degli uomini, c’è molta mobilità. Salvo coloro che lavorano nei bar e ristoranti interni al campo, le altre vengono trasferite frequentemente in altri insediamenti anche fuori Regione”. La condizione di sfruttamento delle donne, spesso, non emerge. “Questo perché devono mantenere un profilo basso, per il forte rischio di violenza a cui sono sottoposte. Sviluppano in taluni casi forme di disagio psicologico per le situazioni che vivono. La condizione di vita delle donne all’interno degli insediamenti informali è particolarmente difficile e la condizione precaria di vita e l’esclusione sociale ne favoriscono lo sfruttamento e situazioni di violenza”.
Il sistema anti-tratta fatica a “intercettare” questa violenza. Su tutto il territorio nazionale, tra il 2017 e il 2019, sono state identificate come vittime di sfruttamento lavorativo nel settore agricolo (come forma di sfruttamento principale) solamente 37 donne, contro le 3.123 vittime di sfruttamento sessuale. Il sistema sembra non rispondere alle esigenze di chi cerca di sganciarsi dall’interno dei campi. “Queste donne chiedono una protezione immediata che le riconosca come persone capaci di decidere e non solo come vittime. Spesso il complessivo sistema dei servizi non è in grado di dare risposte soddisfacenti per loro”.
Se i servizi faticano ad entrare in questi insediamenti -in cui le nazionalità maggiormente presenti sono quella nigeriana, ghanese e gambiana-, anche con riferimento agli insediamenti informali abitati da donne comunitarie l’accesso è difficile. Il 14 marzo 2021 la Corte d’Assise di Foggia ha condannato quattro cittadini di origine romena per riduzione e mantenimento in schiavitù, induzione e sfruttamento della prostituzione minorile e sequestro di persona. I fatti risalgono al 2018 quando una giovane minorenne aveva richiesto aiuto scappando da uno dei tanti “non luoghi”. Era stata sequestrata dalla famiglia, portata in un campo tramite un uomo conosciuto in città e poi costretta a prostituirsi anche a gravidanza inoltrata. “C’è sicuramente una responsabilità penale individuale ma anche una responsabilità sociale. Come è possibile che nessuno abbia mai incontrato questa ragazzina? Nessuno l’ha mai intercettata? -si chiede Rizzi-. Una storia terrificante che dà la misura di quel che succede: un contesto peggiorato con la pandemia”.
Una ricerca realizzata da Crea-PB e Action Aid Italia sottolinea come nel 2017 su 324 interruzioni di gravidanza di donne di nazionalità romena condotte in Puglia, 119 state realizzate nel foggiano. Un segno della condizione di vulnerabilità anche delle donne comunitarie di cui le istituzioni non si fanno carico adeguatamente. “La risposta agli insediamenti non può essere solo di tipo repressivo -continua Rizzi- con sgomberi senza alternative e senza rimuovere le cause, che sono legate alla mancanza di accoglienza, alla mancata inclusione sociale e abitativa, al permesso di soggiorno, all’accesso al lavoro regolare e con tutte le tutele previste, che portano questi luoghi, la grave discriminazione e lo sfruttamento a continuare ad esistere”.
La situazione di violenza e sfruttamento multiplo non si concentra solo nella provincia di Foggia. In generale, la condizione delle donne nel settore agricolo è precaria anche se sfugge alle analisi quantitative. Nel 2020 i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) evidenziano come, con riferimento alle condotte di caporalato e sfruttamento lavorativo, solo il 10% delle vittime identificate sono donne. Da un lato, incide lo scarso controllo nel settore dell’agricoltura, dall’altra “l’invisibilità” della presenza femminile. Sempre Crea-PB e Action Aid segnalano che, nelle aree di Cerignola e Ginosa in Puglia, il lavoro agricolo femminile a tempo determinato è tre volte superiore a quanto riportato dai dati Inps 2017.
“Denuncio da tempo la difficoltà nel reperire dati qualitativi e quantitativi inerenti la presenza delle braccianti in Italia -continua Palumbo, curatrice di un capitolo del V rapporto Caporalato e Agromafie di Flai Cgil dedicato alla condizione delle donne nel settore agricolo-. Si dovrebbe lavorare per far sì che a livello di metodologia di raccolta dei dati ci fosse un’attenzione specifica alla dimensione di genere. Così come, in termini di ispezioni, servirebbe una maggiore formazione, rivolta a tutto il personale incaricato della vigilanza e del contrasto, dedicata all’analisi di genere dello sfruttamento lavorativo in settori come l’agricoltura, e finalizzata al riconoscimento sia degli indici di sfruttamento sia delle forme discriminazione di genere, comprese la disparità salariale e le violenze e molestie sessuali”. I dati diventano importanti per leggere un fenomeno in cui il tema centrale è la vulnerabilità. Vulnerabilità “situazionale”, sottolinea Palumbo, legata anche al carico di lavoro di cura che si aggiunge e favorisce l’abuso e lo sfruttamento di violenza. Vulnerabilità che, spesso, nelle aule dei tribunali dove transitano accuse di tratta, riduzione in schiavitù e grave sfruttamento non trova ancora l’interpretazione corretta.
“Salvo qualche pronuncia lungimirante, spesso la lettura dei tribunali è ancora poco attenta alla complessità di questo concetto che non è riconducibile solamente a precise caratteristiche individuali. La vulnerabilità è determinata anche dal contesto in cui la persona è situata, dalla sua posizione nella società e nelle relazioni di potere. Va considerata, quindi, anche sotto il profilo dell’intersezionalità, tenendo conto dell’intreccio di molteplici e diversi fattori quali il genere, la nazionalità, la condizione sociale, l’età, che generano e/o amplificano situazioni di vulnerabilità”.
Anche l’attenzione politica non è adeguata. L’ultimo Piano nazionale d’azione contro la tratta (Pna), avente una durata di tre anni, è scaduto nel 2016 e non è ancora stato rinnovato. “L’attenzione della politica non è sufficiente -conclude Palumbo-. La parità di genere è la bandierina che ormai troviamo ovunque: si pubblicizzano politiche di intervento che poi, spesso, sono vuote di contenuto. Occorre integrare la prospettiva di genere in maniera trasversale e sostenere iniziative e azioni che permettano alle lavoratrici di confrontarsi su bisogni ed esperienze di violazioni di diritti e abusi, e sostenerle perché diventino portatrici di istanze da indirizzare ai tavoli politici”.
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