La drammatica situazione in cui
versano i lavoratori dei call-center in Italia è tornata alla ribalta dopo il
licenziamento in blocco dei 1.666 lavoratori di Almaviva, società privata che
viveva principalmente di commesse pubbliche
“esternalizzate”.
In quest’articolo vogliamo
soffermarci sulla situazione delle telecomunicazioni. Dopo la privatizzazione
(sarebbe meglio dire svendita) di Telecom del 1997 è stato possibile acquistare
reti telefoniche e antenne da parte di altri gestori, interessate a porre a
profitto ciò che con i soldi pubblici si era riuscito a costruire, ossia una
rete telefonica che fornisse il servizio pressoché ovunque nel nostro
paese.
Le aziende che hanno approfittato
di questa occasione sono diverse (Wind, Vodafone, Fastweb, la stessa Telecom
privatizzata ecc). Ciò che balza subito all’orecchio di chiunque abbia una rete
internet e/o telefonica è che quando si chiama il servizio clienti per segnalare
un problema o per chiedere informazioni nella stragrande maggioranza dei casi si
viene trasferiti all’estero dove rispondono operatori che non hanno una buona
conoscenza della lingua italiana.
I pochi “privilegiati” che ancora
rispondono dall’Italia sono operatori che lavorano in settori prevalentemente
amministrativi: dalla vendita di servizi alla riscossione degli
insoluti.
E’ lecito dunque domandarsi perché
le aziende che erogano un servizio in Italia decidano di trasferire la loro
assistenza clienti all’estero.
La
ragione è chiaramente di ordine economico. Queste aziende erogano tutte lo
stesso servizio e dunque la concorrenza si fa sull’abbattimento del costo finale
per l’utente. Per abbattere i costi, stanti le necessarie spese tecnologiche e
di manutenzione degli impianti, si scarica sul lavoro la riduzione dei costi.
Per farlo si approfitta della situazione di dumping sociale dell’Unione europea,
ossia il fatto che nell’Unione non esiste un unico regime di tassazione e quindi
l’azienda può decidere di spostarsi dove il costo del lavoro è più basso e
quindi sono più ampi i margini di profitto. Per chiarezza va detto che la
maggior parte di queste aziende ha esternalizzato in Albania, paese che, pur non
facendo parte dell’Unione, ha accordi commerciali che gli consentono di offrire
condizioni di particolare favore ai padroni di aziende. Tutto ciò reso ancora
più conveniente dalla pressoché totale assenza del sindacato conflittuale e
dall’assenza di regolamentazione della giornata lavorativa (con turni che
possono arrivare fino a 16 ore), delle ferie, delle malattie, dei permessi,
oltre che dal clima pressoché intimidatorio in cui si è costretti a lavorare, e
dalle retribuzioni nette che oscillano tra i 200-250 euro per un part-time e
400-450 per un full time.
E
veniamo all’altra faccia di questa triste medaglia, ossia i “fortunati” che
hanno un padrone che li sfrutti in Italia, anziché in Albania. Ebbene il caso
Almaviva ci mostra come con il progredire della crisi i lavoratori siano sempre
più costretti nella morsa del ricatto padronale che peggiora le condizioni di
lavoro e di salario; e in caso di mancato accordo tra azienda e sindacato o nel
caso venga opposta una resistenza da parte dei lavoratori alla situazione
descritta, l’azienda minaccia di prendere e spostare tutto altrove. In ogni caso
anche qualora decidesse di restare in Italia, sistematicamente l’azienda
pretende condizioni lavorative non troppo dissimili da quelli albanesi:
precariato diffuso (in Albania sono pressoché assenti forme di stabilizzazione
del personale), bassi salari (perché dove si delocalizza si guadagna meno della
metà e dunque non ci si può lamentare), assenza pressoché totale del sindacato
(se non quello complice che benedice tutti gli accordi peggiorativi come i
migliori possibili data la situazione economica) e il video-controllo a distanza
o diretto dei lavoratori.
Questo
meccanismo è favorito dal fatto che la maggior parte di questi lavoratori non
lavora direttamente per l’azienda per la quale fornisce il servizio di
assistenza clienti, ma per altre aziende più piccole che hanno ottenuto la
commessa e che sono legate a obiettivi e costi sempre più stringenti e alla
possibilità di licenziare la gran parte dei suoi dipendenti e collaboratori data
la pressoché totale abolizione dell’articolo 18 operata dal governo Renzi con il
Jobs Act. Ma la catena dei subappalti spesso non si ferma al primo passaggio, in
un sistema di scatole cinesi da cui è difficile risalire a quello che è il
principale committente.
Dopo
la parte analitica è venuto il momento di provare ad abbozzare il che fare per
cercare di migliorare questa situazione.
Proprio
per la situazione descritta antecedentemente una lotta che mobiliti i lavoratori
di questo settore sul piano nazionale potrà essere vincente solo sul breve
periodo, potendo il padronato decidere più o meno a suo piacimento dove spostare
la produzione.
Piuttosto
bisogna ragionare sull’internazionalizzazione delle lotte, coscienti che come
proletari non abbiamo che le catene da perdere (in questo caso specifico
rappresentato simbolicamente dalle cuffie) in un contesto in cui solo attraverso
tale strumento è possibile reagire alla transnazionalizzazione del capitale.
Questo consente inoltre di evitare le retoriche razziste di coloro che vogliono
contrapporre la buona qualità del lavoro degli italiani con quella degli
operatori stranieri o di chi denuncia il furto del lavoro di quest’ultimi ai
danni dei lavoratori autoctoni.
E
quindi ciò significa cercare di entrare in contatto con le realtà che negli
altri paesi lavorano e lottano nello stesso settore, solidarizzare con le lotte
quando si verificano e costruire nel frattempo almeno un piano nazionale di
rivendicazioni.
Un
piano che abbia al centro la stabilizzazione del personale precario ma
soprattutto come obiettivo strategico l’internalizzazione di tutti i servizi,
pubblici e privati, presso gli enti o le aziende per le quali essi vengono
erogati.
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