Dopo l'oscena sentenza di Torino e il comunicato MFPR di solidarietà alla donna sopravvissuta allo stupro, torniamo sulla vicenda con un articolo tratto dalla coordinamenta femminista e lesbica, che, al contrario del comunicato di D.I.R.E. (che traccia un profilo psicologico e personale della vittima abbastanza intimo e lo fà "nell'assoluto rispetto della magistratura"), disegna un chiaro profilo politico della giudice che ha emesso tale sentenza contro la donna.
Questa sentenza conferma che la violenza sessuale è strutturale in questo sistema sociale. Le sue “leggi”, i suoi “valori” sono quelli borghesi e sono quelli che pesano nei Tribunali, è l'intero sistema borghese che deve essere rovesciato e messo in discussione sempre, altro che "rispetto della magistratura"!
Il tribunale di Torino ha assolto in questi giorni un uomo accusato di violenza sessuale perché “il fatto non sussiste”. Nelle motivazioni si legge che la donna non avrebbe «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona». La vittima ha detto solo “basta”, non ha chiesto aiuto, non ha urlato.
Ora non solo la donna che ha sporto la denuncia dovrà accettare il
fallimento della sua causa, ma dovrà rispondere anche di calunnia,
perché la prima sezione penale presieduta dalla giudice Diamante Minucci
ha trasmesso gli atti al pubblico ministero non ritenendo “verosimile”
la sua versione dei fatti. Non c’è assolutamente percezione di come si
possa reagire alla violenza sessuale, di cosa sia in effetti la violenza
sessuale e di come le donne siano sempre soggetti in difficoltà
psicologica, fisica e culturale di fronte alla violenza che viene loro
inflitta perché costruite secondo un canone in cui l’abitudine alla
soggezione e la paura del giudizio portano persino all’incapacità di
reazione. Tutto ciò è ormai da anni patrimonio del movimento femminista
ed è stato elaborato in riflessioni di tutti i tipi.
Ma la sentenza non è dovuta al fatto che la magistratura non è
abbastanza educata a riconoscere la violenza di genere, o al fatto che
non vengono fatti corsi di formazione adeguati per giudici, magistrati,
poliziotti, forze varie così dette dell’ordine. Non è il risultato di
un’arretratezza culturale riguardo alla violenza sulle donne che ne
impedisce la percezione e la valutazione da cui deriverebbe la
necessità, come va propagandando la socialdemocrazia femminile, di
rapportarsi con lo Stato e di renderlo adeguatamente edotto rispetto a
questa violenza.
E’ semplicemente dovuto al fatto che la ruolizzazione sessuata e la
soggezione delle donne sono parte integrante del modello
economico-politico-sociale. E non si può pensare di scardinare il ruolo
sessuato che fa parte di una organizzazione del lavoro piramidale,
gerarchica e meritocratica coltivando una visione di tutela categoriale.
Il fatto che il giudice sia una donna è esemplare. Questo sistema
coltiva ed incentiva l’emancipazione come mezzo di promozione
personale, spinge le donne affinché si mettano al servizio del potere e
assumano la scala di valori neoliberista e patriarcale. E l’assunzione
dei valori dominanti è necessariamente a tutto campo. La giudice che ha
emesso questa sentenza è la stessa che ha condannato nel maggio del 2014
dei militanti NoTav a pesanti pene per banalità avvenute al cantiere di
Chiomonte ed è la stessa che ha presieduto la corte che sempre a Torino
ha inflitto undici condanne da nove mesi a un anno e due mesi ai
militanti che avevano manifestato contro il comizio di Salvini nel marzo
2015. Ed è la stessa che ha condannato nel gennaio di quest’anno a un
anno e dieci mesi di reclusione una madre per maltrattamenti sui sette
figli, su denuncia del marito.
In una società come la nostra fondata sulla violenza,
sull’ineguaglianza, sullo sfruttamento, la socialdemocrazia ha portato
in dote la capacità di imbellettarsi, e uno di questi belletti dovrebbe
essere l’attenzione alla violenza sulle donne, ma nulla può essere
scisso dal contesto in cui vive e di cui si nutre. L’esperienza ci ha
insegnato che le donne nelle istituzioni si sono messe, insieme ai
maschi, al servizio del sistema. L’emancipazionismo usato come fine e
non come mezzo ha stravolto il percorso di liberazione, confondendo
piani che avrebbero dovuto essere solo strumentali, con piani di rottura
dell’ordine sessista e classista stabilito, riportando la lotta
femminista a modalità funzionali a questo sistema, anzi facendone un
fiore all’occhiello del sistema stesso.
Un abisso divide l’insieme donne in questo momento storico e anche se
l’oppressione che subiamo è trasversale allo spazio e al tempo e
attraversa tutte le classi e le frazioni di classe, ci sono donne che
scelgono strade di liberazione e altre che scelgono di perpetuare il
dominio patriarcale e di contribuire a opprimere le altre donne e tutti
gli oppressi.
La sentenza di Torino esplicita, ancora una volta e in maniera evidente chi si colloca da una parte e dall’altra dell’abisso.
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