Dal lavoro a cottimo allo smart working
Lo smart working è una forma di lavoro a cottimo che agevola lo sfruttamento. Occorre impedire che anche dopo l’epidemia venga esteso indiscriminatamente e senza il controllo dei lavoratori organizzati.
- di Ascanio Bernardeschi
- 01/01/2021
- Economia e Lavoro
Karl Marx, nella sezione VI del libro primo del Capitale [1], dedicata al salario, inserisce il capitolo 19 sul salario a cottimo. È interessante seguire alcuni passaggi perché certi contenuti sono riferibili non solo a questa specifica forma di retribuzione ma anche più in generale a una specifica forma del rapporto di lavoro e a una modalità lavorativa di grande attualità.
Una prima considerazione sul cottimo è che “la qualità del lavoro è qui controllata dall’opera stessa, la quale deve possedere bontà media […] Esso offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro” (p. 605).
Viene meno quindi la necessità di assoldare dei controllori: “siccome qui la qualità e l’intensità del lavoro sono controllate dalla forma dello stesso salario, si rende superflua buona parte della sorveglianza del lavoro. Questa forma costituisce quindi la base […] di un sistema di sfruttamento e di oppressione […] Questo sistema si chiama in Inghilterra in modo caratteristico «sweating system» (sistema del sudore)”.
Ciò nonostante il lavoratore può essere indotto suo malgrado a condividere gli obiettivi di produttività: “Dato il
salario a cottimo, è naturalmente interesse personale dell’operaio impegnare la propria forza-lavoro con maggiore intensità possibile, il che facilita al capitalista un aumento del grado normale dell'intensità. Ed è allo stesso modo nell’interesse personale dell’operaio prolungare la giornata lavorativa” (pp.606-7).Un altro vantaggio del lavoro a cottimo è che esso da un lato tende a provocare un illusorio “sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la loro concorrenza fra di loro e degli uni contro gli altri”(607-8). È ovvio che questa concorrenza è a sua volta un fattore che agevola l’approfondimento dell’intensità del lavoro e dello sfruttamento.
In ragione delle suddette considerazioni “risulta che il salario a cottimo è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico” (tutti i corsivi sono di Marx). Cioè è la modalità che permette più agevolmente la valorizzazione del capitale attraverso lo sfruttamento intenso del lavoro. La modalità della valorizzazione è chiaramente quella del plusvalore assoluto (aumento della durata e dell’intensità del lavoro), non proprio moderna ma che comunque convive quasi sempre con quella del plusvalore relativo (aumento della produttività attraverso la razionalizzazione del processo produttivo).
Tutto questo spiega il perché il capitale ha sempre cercato di affiancare al salario a tempo il salario a cottimo nella misura massima possibile. Infatti, sempre Marx afferma che le due forme di salario a tempo e salario a cottimo “esistono l’una accanto all’altra nel medesimo tempo e nelle medesime branche d’industria” (p.603).
Il lavoro a domicilio è una variante del lavoro a cottimo ancora più redditizia. Infatti ai medesimi vantaggi per il capitalista si aggiunge quello di non dover mettere a disposizione locali, di non sostenere le spese per la loro gestione e talvolta neppure per gli strumenti di lavoro, come avveniva, diffusamente diversi decenni fa (e in diverse zone, particolarmente del Sud Italia, ancora oggi) con tante lavoratrici, spesso al nero, delle imprese di confezioni, lavoratrici che spesso dovevano essere dotate di macchina da cucire propria. Ma di esempi se ne potrebbero fare molti altri nel campo dell’assemblaggio, della decorazione e in genere della manifattura, anche senza considerare il lavoro super sfruttato, perfino dei bambini, nel terzo mondo.
In Italia il modello economico è stato a lungo, e in gran parte lo è tuttora, caratterizzato da una diffusa presenza di medie, piccole e piccolissime imprese capitalistiche, spesso marginali, che sopravvivono grazie all’evasione fiscale e al supersfruttamento del lavoro, in un mix di paternalismo e dispotismo.
Sono eloquenti gli esempi che per primi mi vengono in mente dei distretti di Prato, per averci lavorato direttamente, o del Nord-Est per averne letto gli smisurati elogi. In tali ambiti il lavoro a domicilio e a cottimo, con un’elevata componente di “nero”, costituivano (e costituiscono) una parte rilevante del lavoro complessivo.
Tali forme sono sopravvissute anche alle importanti conquiste della classe lavoratrice degli anni Sessanta e Settanta e, se sono state in parte e per un certo periodo ridimensionate, non è certo per la maggiore modernità, coscienziosità o bontà dei capitalisti, ma grazie ai mutati rapporti di forza che si sono tradotti in maggiori poteri di controllo operaio dentro le fabbriche e in una legislazione che tutelava in maggior misura il lavoro.
Una volta che si è invertita la tendenza e il capitale ha vinto alla grande la lotta di classe, le forme di sfruttamento “primordiali” sono tornate prepotentemente in campo, anche nella grande industria, magari dissimulate dietro rapporti di appalto di alcuni pezzi della “catena del valore”, talvolta a cooperative in cui l’autosfruttamento è la norma oppure a imprese minori. Così, ipocritamente, il grande capitale si mostra estraneo a problemi di coscienza legati all’eccesso di sfruttamento o alla carenza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Un altro ritorno ai primordi consiste nei rapporti contrattuali legalizzati ad hoc che, precarizzando i lavoratori, li ha resi maggiormente ricattabili e quindi più facilmente trascinabili verso l’intensificazione del lavoro. Un sottoprodotto non secondario di tutto ciò è la divisione del fronte del lavoro fra “garantiti” e precari, divisione a cui hanno largamente concorso i media. Naturalmente questa sporcizia viene sublimata attraverso anglicismi: outsourcing, overtime, jobs act...
Lo sviluppo delle tecnologie informatiche e telematiche ha esteso la possibilità di utilizzare il lavoro a domicilio, pure in questo caso riverniciato con l’anglicismo “smart working”, anche a lavorazioni “immateriali”, siano esse legate alla pura fase di circolazione del capitale (lavoro impiegatizio per lo più), o alla produzione immateriale vera e propria, o alle prestazioni del pubblico impiego. Ma non chiamiamolo lavoro a domicilio, e neppure telelavoro, santo cielo! E infatti Paola Capoferro, web content manager e redattore di “Digital360” si affretta a dichiarare su tale sito che “lo smart working non è il telelavoro” bensì un modello che “rafforza il concetto di collaborazione”. L’ufficio diventa “aperto” e il nuovo “spazio lavorativo” favorisce la creatività e “stimola nuove idee e quindi nuovo business”. Vi pare di sentire l’eco delle sviolinate verso la qualità totale, il modello Toyota ecc., che avrebbero responsabilizzato il lavoratore ecc. ecc.? In realtà quel modello passò per una grave sconfitta della classe lavoratrice, prima in Giappone e poi altrove.
L’aumento del grido di sfruttamento è confermato implicitamente dalla redattrice stessa citando l’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano il quale prevede che “l’adozione di un modello “maturo” di smart working può produrre un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore”. Partendo da questa previsione la Nostra aggiunge anche una proiezione: “a livello di Sistema Paese,” considerando il prevedibile numero di lavoratori smart, l’effetto dell’incremento della produttività media in Italia si può stimare intorno ai 13,7 miliardi di euro”. C’è da scommetterci che questi miliardi si tradurrebbero tutti in maggiori profitti!
L’epidemia da virus Sars-Cov-2 ha accelerato questo processo, lo ha reso in una certa misura necessario, tanto che viene accolto con notevole favore da una buona parte di lavoratori giustamente preoccupati di contaminarsi lavorando a fianco di colleghi, in ambienti in cui l’applicazione delle norme di prevenzione è spesso blanda, o di fronte al pubblico o dovendo recarsi al lavoro su mezzi pubblici inidonei alla prevenzione, o davanti a una scolaresca anch’essa trasportata da mezzi collettivi.
L’Osservatorio smart working da parte sua ha riferito che questa modalità lavorativa ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle Pmi, per un totale di 6,58 milioni di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani”. Si tratta, sempre secondo l’Osservatorio, di un numero decuplo rispetto ai 570mila rilevati nell’anno precedente! Di questi lavorano nelle grandi imprese, 2,11 milioni, nelle piccole e medie 1,13 milioni, nelle piccolissime (sotto i 10 addetti) 1,5 milioni e nella Pubblica Amministrazione 1,85 milioni.
Non attendiamoci però che finita l’emergenza “tutto tornerà come prima”. Il cambiamento piace ai rivoluzionari, ma non se si tratta di un cambiamento in peggio. E a capire come potrebbero andare le cose ci aiuta ancora l’Osservatorio il quale prevede gongolante, che a fronte dei “6,58 milioni di smart worker d’emergenza, nel new normal [che bello questo business english!] saranno 5,35 milioni i lavoratori agili”, cioè diminuiranno di poco e saranno ancora in numero di oltre 9 volte superiore a quello dei censiti nel 2019!
L’entusiasmo dell’Osservatorio è corroborato dal fatto che “lo smart working d’emergenza ha fatto superare pregiudizi, migliorare competenze digitali, ripensare i processi” e che quindi si va “verso un new normal del lavoro: quasi un terzo dei dipendenti farà lavoro agile”, mica staranno statici sul posto di lavoro domestico! E la cosa sarà ben accetta dalla maggioranza dei lavoratori in quanto “lo smart working è ormai entrato nella quotidianità degli italiani ed è destinato a rimanerci”. L’emergenza è stata quindi considerata provvidenziale perché “ha dimostrato come un modo diverso di lavorare sia possibile anche per figure professionali prima ritenute incompatibili” e ha introdotto una trasformazione che “in tempi normali avrebbe richiesto anni”. E pertanto si deve evitare di “disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio smart working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Anche questo continuo tornare sulla parola “flessibilità” meriterebbe gli scongiuri, perché lo stesso termine è stato usato in passato per introdurre figure contrattuali precarizzanti.
Il sistema retributivo è ancora formalmente a tempo, nel senso che ha una cadenza temporale, ma il lavoratore deve produrre determinati risultati se vuole continuare a percepire la retribuzione stabilita e per raggiungerli può lavorare anche per un tempo superiore a quello dall’orario normale (che bellezza la flessibilità!). Il cottimo è solo occultato nella forma ma resta nella sostanza.
Naturalmente – ci mancherebbe! – “bisogna mettere al centro le persone con le loro esigenze, i loro talenti e singolarità, strutturando piani di formazione, coinvolgimento e welfare che aiutino le persone a esprimere al meglio il proprio potenziale”, afferma il responsabile scientifico dell’Osservatorio. E anche il ministero del Lavoro, in un suo spot, elogia i vantaggi di questa innovazione organizzativa.
È interessante un altro dato fornito dall’Osservatorio: “la grande maggioranza degli smart worker rileva un effetto positivo del lavoro da remoto sulle performance dell’organizzazione: il 73% ritiene buona o ottima la propria concentrazione nelle attività lavorative, per il 76% è aumentata l’efficacia, per il 72% l’efficienza e per il 65% ha portato innovazione nel lavoro”. Sappiamo che le statistiche basate non su elementi oggettivi ma su percezioni soggettive dichiarate nelle interviste risentono molto di come le domande vengono formulate, di come vengono classificate le risposte, oltre che delle percezioni stesse, non necessariamente aderenti alla realtà dei fatti. Pertanto non è da escludere che le suddette percentuali siano un po’ esagerate. Ma è innegabile che la maggior parte dei lavoratori si mostra favorevole a questo cambiamento. Lo conferma anche una ricerca del Forum PA il quale indica che “il 93,6% dei dipendenti pubblici vorrebbe continuare a lavorare in smart working se gli venisse offerta la possibilità una volta tornati alla normalità”. La ragione sta nell’apparenza di una maggiore autonomia del lavoratore – come del resto avviene con il cottimo primordiale – unita, immagino, al terrore di tornare nei luoghi di lavoro in condizioni non sicure. Ma è altrettanto evidente l’autosfruttamento insito in questi rapporti di lavoro.
Siamo troppo pessimisti e poco aperti all’innovazione? Allora facciamo parlare Mariano Corso, professore di Leadership e Innovazione al Politecnico che in un tweet riproduce una sua precedente dichiarazione postata su Linkedin: “Leggere la parola diritto associata a quella di smart working è per me una sofferenza. Lo smart working non è welfare, ma un accordo libero e reversibile tra lavoratore e impresa, un gioco a somma positiva che non dovrebbe essere mai presentato come concessione o diritto”. Che lor signori aborrano il termine “diritto”, anzi ne soffrano, non è una novità e non ci dobbiamo stupire se per loro a maggior ragione non se ne debba parlare in questo momento in cui intendono portare a compimento l’opera, già in avanzato stato di realizzazione, di smantellamento dei diritti. Ma la cosa che va sottolineata è che si va verso “accordi” tra lavoratore (singolo) e impresa. È ben noto che la ratio delle norme che tutelano i lavoratori, tanto detestate dai “moderni” giuslavoristi, sta nel fatto che il rapporto fra lavoratore singolo e impresa è fortemente asimmetrico, in ragione dello squilibrio tra le forze contrattuali delle due parti. Chi difenderà il lavoratore quando dovrà prendere singolarmente “accordi” con l’impresa? Più probabilmente più che ad accordi saremo di fronte al consueto dispotismo del capitale.
Una cosa che non sono riuscito a rintracciare in tutta questa business-oriented literature sono i possibili disagi del lavoro a domicilio, anche se non dobbiamo chiamarlo così, in presenza, per esempio, di minori, in locali inadeguati perché non erano stati progettati per questa necessità, magari contendendo le risorse informatiche con i figli che debbono praticare la didattica a distanza, e così via.
Altro elemento da prendere in attenta considerazione è l’isolamento dei lavoratori. Ciascuno a casa sua, i lavoratori non si parlano, non socializzano, non si organizzano per la lotta di classe che solo il capitale pare voler ingaggiare.
L’emergenza sta modificando profondamente il modo di vivere di tutti e pare proprio che una volta terminata davvero tutto non torni come prima. Il rischio è che il capitale, in cerca affannosa di profitti, spesso minati dalle conseguenze dell’epidemia, colga questa opportunità per aprire un capitolo nuovo nei rapporti di lavoro, assestando un altro colpo alla classe lavoratrice. È per questo che fin da ora i lavoratori dovranno attrezzarsi a lottare per riconquistare i più elementari diritti e per ripartire più equamente i carichi di lavoro attraverso una riduzione dell’orario e un controllo dei ritmi lavorativi..."
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