Dalle interviste a lavoratrici che lavorano nelle aziende ortofrutticole
Sono infuriata come una belva, il padrone ci tratta da schiave, manca solo il frustino e le catene. In questo periodo estivo, per proteggere la frutta tutte le porte devono essere chiuse, non deve passare uno spiraglio d'aria, la temperatura è altissima, non si respira; anche per via delle mascherine alcune donne perdono i sensi. Poi così sudate come siamo, dobbiamo andare nella cella frigorifera dove rischi di prenderti come minimo una broncopolmonite.
Ci è vietato bere lo si può fare solo nell'ora di pausa. I rumori delle macchine sono assordanti ci forniscono i tappi ma non li possiamo mettere perché sennò non sentiamo gli ordini e quindi siamo tutte mezze sorde.
Ora si sta lavorando l'uva la quale è trattata con l'antimuffa che è composta da anidride solforosa,. Questo prodotto chimico lo respiriamo per 10 ore al giorno e ci porta bruciore agli occhi e alla gola.
Ci fanno prendere carichi che dovrebbero prendere gli uomini e a fine giornata come se nn bastasse, dobbiamo pulire l'impianto e i cessi..
Qui tutte soffrono di una patologia la più comune sono le vene varicose e le ernie. Ma quando qualcuna di noi accusa dolori forti ci deve pensare due volte a mettersi in malattia perché i giorni della malattia il padrone li conta come assenze e se si supera un certo numero non ti rinnovano il contratto. Ci tengono col cappio alla gola visto che il contratto scade ogni 2 mesi.
Si lavora 7giorni su 7, e se prima era facoltativo scendere la domenica ora è obbligatorio lavorare. Dopo un'anno di patemi, sacrifici e dolori, arriva la tanto attesa disoccupazione e quando vai a prelevare trovi anche la beffa, ti accorgi mancano €500 per “contributo volontario”. Ma contributo a chi? Non si sa, ma la cosa che più mi fa indiavolare èil "volontario”. Ma chi!? Io non avrei mai dato questo permesso, mi sento derubata. Tutte noi vediamo il padrone come un vampiro che ci succhia continuamente il sangue, la linfa vitale.
Non se ne può più. Ma tutte hanno paura di agire o reagire per non perdere il lavoro.
Sento che la mia vita non è più mia, vivo per lavorare. La giornata comincia col buio e finisce col buio, lavoro circa 10 ore al giorno e anche più.
Si lavora come schiavi, il padrone ci sta sempre col fiato sul collo. Fino al termine della giornata non si sente altro che: "forza, più veloci", gli manca solo il frustino. Questo tormentone ci fa lavorare male, siamo sempre in fibrillazione, perché dolori e stanchezza non contano, dobbiamo dare il massimo.
Ora ci si è messo anche il fatto che non conta più il numero di casse che imballi ma il tempo che ci metti per imballare.
Non ci sono mense, si mangia nei container, non ci sono distributori di bibite,acqua o caffè perché il padrone ritiene che si perde tempo.
In più adesso per la questione Covid hanno preso tante precauzioni come il distanziamento (e per questo vogliono licenziare), tutto è stato sigillato con la plastica. C’è l’uso di mascherine, ma se già nell'azienda la temperatura era elevatissima ora è l'inferno, ci sentiamo venire meno, ma devi pensare a produrre sempre più, devi essere efficente attenta e veloce.
La mia vita si svolge solo lavoro letto, letto lavoro. Non ho più una vita sociale, non so più cosa sia farsi una passeggiata o andare al parrucchiere.
Finita la giornata lavorativa poi devi andare negozio per negozio a comprare il necessario, devi fare il bucato, devi cucinare per il giorno dopo. Ha volte mi addormento con la faccia nel piatto così col camice come sono tornata e mi sveglio già pronta per cominciare un'altra giornata.
Ripeto quell'azienda è un vero inferno, si lavora oltre i limiti e tutto per il profitto del padrone. Troppe, esageratamente troppe, sono le ore lavorative senza avere neanche il diritto ad un giorno di riposo.
Siamo stanche, avvilite, secondo me ci potremmo definire "guerriere".
Dalle lavoratrici del commercio: turni massacranti e salari da fame
Vivo a L’Aquila e lavoro nella GDO, settore bricolage, quindi non di generi considerati inizialmente essenziali. I nostri negozi quindi sono rimasti chiusi dal 13 marzo per un mese, attingendo alle ferie e ai permessi residui, poi siamo andate in cassa integrazione, che ci hanno pagato col contagocce ed ancora adesso ci sono lavoratrici che attendono l’intera integrazione salariale. I contratti a tempo determinato non sono stati rinnovati e quando abbiamo riaperto i negozi, ci siamo trovate a dover dividere il carico di lavoro, aumentato per il perdurare del lockdown, con meno unità.
Nel commercio della filiera alimentare le cose sono andate in parte diversamente. Qui le lavoratrici, come quelle di altri settori ritenuti essenziali in questa situazione di emergenza sanitaria, hanno continuato a lavorare anche durante il lockdown per un misero salario, per garantire l’approvvigionamento di beni di prima necessità alla popolazione. Lo hanno fatto, e lo fanno, in una condizione di forte rischio per la loro salute e per quella dei propri familiari.
Ma qui vorrei aprire una parentesi, una breve premessa, su come in questa società capitalistica lavori di merda, pagati e tutelati di merda e trattati di merda, come il lavoro nel commercio o nelle pulizie siano stati tutto ad un tratto ritenuti “essenziali”, di fronte a una crisi economico-pandemica che ha messo e mette a repentaglio da un lato la nostra sopravvivenza, dall’altro la sopravvivenza dello stesso sistema che ci opprime, partendo dalla constatazione che le due cose non sono affatto “l’altra faccia della medaglia”, che non siamo tutti nella stessa barca, che i nostri bisogni sono scientificamente e ineluttabilmente opposti, antagonisti. Come quello della sicurezza sul lavoro.
Prima che tutta l’Italia venisse considerata zona rossa, molte lavoratrici del commercio si sono viste vietare dall’azienda l’uso delle mascherine per non “allarmare i clienti”, perché primario deve essere solo lavorare per il profitto, non la sicurezza delle lavoratrici e delle loro famiglie.
Le lavoratrici del commercio hanno continuato a lavorare con turni massacranti, percependo salari da fame, (il bonus dei 100 euro per chi ha lavorato a marzo è una vergogna), con la consapevolezza di essere tutte costantemente esposte al rischio reale di contrarre il virus, perché i dispositivi di protezione o sono arrivati in ritardo e per lo più inadeguati, o non sono arrivati affatto, e si sono dovute arrangiare da sole usando gli swiffer o con mascherine fai da te. Molte aziende hanno detto alle lavoratrici di usare foulards.
La mancanza di informazione e la confusione su quanto stesse accadendo e su quali fossero le misure da adottare per la tutela, sia delle lavoratrici che dei clienti, ha contribuito ad accrescere nelle lavoratrici il senso di precarietà e paura. A ciò si è aggiunta l’assoluta assenza di trasparenza da parte di alcune aziende nel comunicare al personale quando un lavoratore si ammalava a causa del virus: l’importante è raggiungere l’obbiettivo, mandare avanti la vendita di beni per aumentare il fatturato.
Al LIDL di Genova ripetevano come un mantra “State tranquilli non succede niente, continuiamo a lavorare”. Poi quando tutta Italia è diventata zona rossa si sono ritrovate con 100-150 persone all’interno delle filiali e nessun servizio di guardianaggio.
Al Carrefour, come al LIDL e in diverse altre aziende le lavoratrici hanno lamentato la mancanza di un servizio di sanificazione adeguato. In altre aziende sono state le stesse commesse a dover provvedere alla sanificazione, anche dei bagni dei clienti, con quello che trovavano in negozio.
L’onere dell’attuazione delle misure preventive è stato dunque scaricato, nella maggioranza dei casi, interamente sulle spalle di lavoratrici e lavoratori, anche in mancanza di indicazioni chiare sugli standard da attuare.
Allo stress per la paura di contrarre il virus si è aggiunto quello dovuto ai carichi di lavoro, enormemente aumentati durante il lockdown. In molti punti vendita, dove non c’era il servizio di guardianaggio, dovevano badare loro anche alle entrate contingentate, intimare ai clienti di rispettare le distanze di sicurezza e di indossare le mascherine, cosa che ha posto e pone le lavoratrici in una situazione di stress continuo.
Se si considera che anche nel commercio dei generi considerati di prima necessità, le aziende hanno approfittato della pandemia riducendo il costo del personale, molte colleghe si sono trovate a far fronte a una situazione estremamente caotica praticamente da sole, con i supermercati presi d’assalto, come in una guerra.
Quello del carico di lavoro scaricato su poche lavoratrici e lavoratori in un'ottica di massimizzazione dei profitti durante l’emergenza si tratta di un processo sistematico di intensificazione dei tempi di lavoro già in atto da almeno 12-13 anni, da quando cioè è iniziata l’apertura domenicale e festiva e la soppressione della pausa per il pranzo. Questo processo si è andato ad aggravare con l’emergenza covid, dove le aziende, per supplire alla mancanza di personale, hanno saturato i tempi di lavoro delle lavoratrici strutturate e hanno assunto lavoratori e lavoratrici interinali. Queste persone, ancor meno tutelate, sottoposte ad una forma di ricatto tra salute e lavoro e senza alcuna formazione professionale e sulla sicurezza sono letteralmente carne da macello.
Le lavoratrici strutturate possono almeno mettersi in malattia, le precarie non hanno scelta, figuriamoci se ad essere precarie sono le immigrate, che durante il lockdown neanche potevano tornare nei loro paesi di provenienza se lo avessero voluto!
Oltre il problema dei turni c’è il problema della distribuzione delle competenze nei punti vendita. Le lavoratrici più anziane vengono di solito lasciate in cassaintegrazione perché corrono e caricano meno delle giovani. Ma lasciare una lavoratrice per otto ore consecutive in cassa a contatto con il maneggio contanti piuttosto che a contatto con il pubblico ne aumenta enormemente l’esposizione al rischio covid, oltre che allo stress correlato alla mansione specifica.
Se in alcuni supermercati le lavoratrici si sono messe in malattia come forma di autotutela, in altri ci sono stati esempi di sospensione autonoma dal lavoro per rischio biologico, e in altri ancora scioperi per la salute e sicurezza sul lavoro. Iniziative rimaste per lo più isolate, ma che andrebbero valorizzate, perché la condizione delle lavoratrici del commercio è anche strettamente correlata a quella che vivono le operaie della logistica, delle fabbriche, e delle pulizie in generale.
E questa “interconnessione” - che il virus ha chiaramente messo in evidenza sotto il profilo biologico dell’infettività dei locali e delle merci prodotte, lavorate, immagazzinate, vendute, oltre che consumate - noi dobbiamo trovarla sotto il profilo sociale e della lotta.
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