Torino, carabiniere condannato a 7 anni e mezzo: nel 2013 stuprò una donna disabile.
La notizia viene riportata oggi
da alcuni quotidiani torinesi: il Tribunale di Ivrea ha condannato
Michele Doccini, militare dell’arma di 39 anni, a una pena di 7 e anni e
mezzo con l’accusa di violenza sessuale.
La vicenda risale a 4 anni fa, quando una donna disabile residente in un paese alle porte di Torino si reca in caserma per sporgere denuncia nei confronti del convivente che la maltratta. A redigere la denuncia è Doccini, che in seguito – con la scusa di voler riaccompagnare a casa la donna e di accertare che il convivente non sia nell’appartamento – la violenta dentro casa sua. Allo stupro seguono poi le minacce alla donna per farla desistere dal denunciare l’accaduto. Quando la vicenda viene a galla, come spesso accade il carabiniere viene trasferito e destinato ad altro incarico nel tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto e far scemare l’attenzione sulle accuse.
Emblematiche di questa schifosa vicenda sono alcune parole riferite dalla donna durante il processo: “Mi disse più volte che tanto lui era un carabiniere e che tutti avrebbero creduto alla sua versione dei fatti e non alla mia". Se quella di vedere screditata e inquisita la propria versione dei fatti è purtroppo una dinamica troppo frequente che le donne che denunciano una violenza subìta vivono sulla propria pelle, in questo caso il senso di impunità conferito dal fatto di indossare una divisa rende questa dinamica ancora più odiosa e disgustosa.
I carabinieri, i poliziotti, i militari stuprano e commettono violenza sulle donne. E lo fanno potendo contare su questo senso di impunità, legittimati nel ruolo di intoccabili e di difensori delle donne da una narrazione mainstream che vorrebbe le donne sempre e solo come soggetti deboli da tutelare, moltiplicando la presenza delle forze dell’ordine per le strade. E quando una donna prova a rompere questa narrazione si aziona la macchina del fango nei suoi confronti, per ripristinare subito le divise nel loro ruolo di tutori senza macchia: nel migliore dei casi si grida alle mele marce, nel peggiore il dito dell’inquisizione mediatica, politica e giudiziaria si rivolge contro la donna criminalizzando i suoi comportamenti. Sono tante le vicende che ce lo dimostrano: da quello delle studentesse stuprate dai carabinieri a Firenze (ne abbiamo scritto qui e qui), a quella di Maya, picchiata mentre si trovava in un commissariato torinese in stato di fermo (vedi qui e qui).
Non crediamo che la violenza sulle donne necessiti di gerarchizzazioni o distinzioni fallaci, abbiamo più volte scritto che si tratta di un fenomeno strutturale e pervasivo e che come tale va combattuto. Ma queste vicende ci ricordano che quando a commettere una violenza è un uomo in divisa abbiamo bisogno di gridare con ancora più forza per rompere il velo dell'impunità, e ricordare che la lotta per liberarci dalla violenza di genere non passa certo per questi porci in divisa.
La vicenda risale a 4 anni fa, quando una donna disabile residente in un paese alle porte di Torino si reca in caserma per sporgere denuncia nei confronti del convivente che la maltratta. A redigere la denuncia è Doccini, che in seguito – con la scusa di voler riaccompagnare a casa la donna e di accertare che il convivente non sia nell’appartamento – la violenta dentro casa sua. Allo stupro seguono poi le minacce alla donna per farla desistere dal denunciare l’accaduto. Quando la vicenda viene a galla, come spesso accade il carabiniere viene trasferito e destinato ad altro incarico nel tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto e far scemare l’attenzione sulle accuse.
Emblematiche di questa schifosa vicenda sono alcune parole riferite dalla donna durante il processo: “Mi disse più volte che tanto lui era un carabiniere e che tutti avrebbero creduto alla sua versione dei fatti e non alla mia". Se quella di vedere screditata e inquisita la propria versione dei fatti è purtroppo una dinamica troppo frequente che le donne che denunciano una violenza subìta vivono sulla propria pelle, in questo caso il senso di impunità conferito dal fatto di indossare una divisa rende questa dinamica ancora più odiosa e disgustosa.
I carabinieri, i poliziotti, i militari stuprano e commettono violenza sulle donne. E lo fanno potendo contare su questo senso di impunità, legittimati nel ruolo di intoccabili e di difensori delle donne da una narrazione mainstream che vorrebbe le donne sempre e solo come soggetti deboli da tutelare, moltiplicando la presenza delle forze dell’ordine per le strade. E quando una donna prova a rompere questa narrazione si aziona la macchina del fango nei suoi confronti, per ripristinare subito le divise nel loro ruolo di tutori senza macchia: nel migliore dei casi si grida alle mele marce, nel peggiore il dito dell’inquisizione mediatica, politica e giudiziaria si rivolge contro la donna criminalizzando i suoi comportamenti. Sono tante le vicende che ce lo dimostrano: da quello delle studentesse stuprate dai carabinieri a Firenze (ne abbiamo scritto qui e qui), a quella di Maya, picchiata mentre si trovava in un commissariato torinese in stato di fermo (vedi qui e qui).
Non crediamo che la violenza sulle donne necessiti di gerarchizzazioni o distinzioni fallaci, abbiamo più volte scritto che si tratta di un fenomeno strutturale e pervasivo e che come tale va combattuto. Ma queste vicende ci ricordano che quando a commettere una violenza è un uomo in divisa abbiamo bisogno di gridare con ancora più forza per rompere il velo dell'impunità, e ricordare che la lotta per liberarci dalla violenza di genere non passa certo per questi porci in divisa.
Da Infoaut
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