09/11/17

Ribellarsi è giusto! L'Aquila 24 novembre: Presidio al Tribunale e sotto il carcere per Nadia Lioce


A L’Aquila il 24 novembre si terrà la terza udienza del processo a Nadia Lioce, che la vede imputata per aver turbato la quiete di un carcere che l’ha sepolta viva.

In una cartolina il 26 dicembre dello scorso anno Nadia ci scriveva:
“… A giugno, come le altre volte in passato, l’ho sentita la manifestazione in corso. Un po’ meno però… Devo dire che, negli anni, e con il divieto per legge di comunicare che, volendo, si potrebbe concretizzare non solo in divieto di “parlare” – corroborato dalla minaccia sanzionatoria – ma pure di “ascoltare”, il momento dimostrativo fuori dal carcere crea un tale scompiglio nell’amministrazione penitenziaria da rendere la quotidianità socialmente asettica, ancor più surreale del solito. Che dire… naturalmente l’opuscolo “Donne e Resistenza” è arrivato, ma non mi è stato consegnato, data la vigenza della notoria disposizione, avverso la quale di recente ho fatto un ennesimo reclamo, in ogni caso te ne ringrazio. E per ora è tutto, saluto e auguro un anno nuovo migliore a te e alle altre compagne. Buon 2017
Nadia

Divieto di parlare, ascoltare, leggere, salutarsi, amare, sognare… vivere.
Ecco che cos’è il 41 bis, un coacervo di divieti e vessazioni permanenti, volte all’annientamento della persona, alla cancellazione della propria identità umana, sociale e politica.
Ma Nadia ha alzato la testa, ha osato ribellarsi a questo stato di cose e il 24 novembre probabilmente conosceremo anche altri aspetti di questa tortura, che Nadia ha denunciato con quella battitura, rompendo il silenzio di quell’impenetrabile regime che è il 41 bis.
Noi saremo lì quel giorno, a sostenere la sua protesta, a raccogliere il suo grido di dignità contro l’annientamento, contro l’ipocrisia di questo Stato borghese che si dice democratico, ma l’unica sicurezza che persegue è quella del sistema capitalistico, del profitto di pochi per la miseria e la morte di molti. E la persegue, con l’avanzare della crisi, sempre più a suon di manganello, dentro e fuori le carceri.

Il 24 novembre alle ore 9,30 saremo in presidio davanti al Tribunale de L’Aquila, in Via XX Settembre n. 68. Al termine dell’udienza, presumibilmente verso le 12, ci sposteremo sotto le mura del carcere “le Costarelle”, per salutarla (Deposito Irti-cicolani, SS 80 Dir, 4).

Per informazioni e supporto logistico scrivere a mfpraq@autistici.org – 328 7223675 (Luigia).
Per chi arriva in auto, si consiglia di lasciarla al parcheggio del centro commerciale “la Meridiana”, nei pressi del Tribunale. Per chi dovesse tardare e vuole raggiungerci nel prato antistante il carcere, consigliamo di lasciare il mezzo al parcheggio della coop di Sassa Scalo (ma meglio evitare di andare lì da soli)
Mappa per chi arriva dalla A24: https://goo.gl/maps/cjLHYb3VJ9m
Mappa per chi arriva da Pescara: https://goo.gl/maps/2ogfUX3oavq
Per chi arriva con l’autobus: scendere alla fermata Hotel Amiternum. Fino al tribunale sono 15 minuti a piedi. In caso di problemi telefonate al numero sopra.

Riportiamo, di seguito, parte dell’intervento fatto dall’avv.ta Carla Serra, l’8 aprile di questo anno a Firenze nel convegno “25 anni di 41 bis – 25 anni di tortura”, che affronta la non vita delle donne costrette al 41 bis nell’unica sezione femminile de L’Aquila:

“Come sempre quando si è chiamati ad analizzare un certo tipo di regime carcerario, esistono due diversi angoli prospettici da cui far partire l’osservazione: quello teorico-dogmatico dal lato della norma e quello concreto esperienziale vissuto all’interno della cella.
Evidentemente dopo tanti anni, per quanto riguarda la mia assistita Nadia Desdemona Lioce ormai 13 anni, di applicazione concreta e ininterrotta del regime speciale, si pone un problema per gli operatori del diritto di rivalutare, rivedere la norma alla luce del dato esperienziale cioè di quello che ha prodotto e delle sue ripercussioni sulla portata umana della pena, al fine di valutare oggi, la sua tenuta sul piano della legittimità e dirsi insomma chiaramente di cosa si tratta e che cosa realmente è, e che cosa si è consentito trovasse spazio nel nostro ordinamento.
Pertanto io non tratterò i profili formali teorici dogmatici della disciplina di questo trattamento, ma il mio intervento ha unicamente lo scopo di far conoscere all’esterno quella che è la reale vita quotidiana specificamente delle donne detenute in 41 bis nella sezione femminile di L’Aquila, perché si comprenda come negli anni questo regime abbia preteso di regolamentare – con una sommatoria di divieti spesso gratuiti e spesso censurati dagli stessi magistrati di sorveglianza chiamati di volta in volta a correggere gli straripamenti più gravi e intollerabili del 41 bis – ogni istante della vita quotidiana inserendosi anche nei momenti più intimi che dovrebbero essere davvero presidiati e preservati da ogni tipo di interferenza.
Questo regime nella sua estrinsecazione concreta è come se si componesse di due livelli, uno di essi è quello delle limitazioni imposte dalla norma – di cui la norma parla – l’altro più sotterraneo a tratti più sfuggente, è quello che si insinua nelle maglie più strette della vita quotidiana e quindi della persona.

Espressione del primo sono le limitazioni dei colloqui, l’utilizzo del vetro divisorio durante il colloquio con i familiari, le limitazioni dei pacchi ecc., i vari divieti nella socialità, il divieto di corrispondenza e la sua censura, tutte le privazioni relative al cibo, dal non poter cucinare nella propria cella fino a giungere all’individuazione di alcuni cibi non inseriti nel vitto e che il detenuto in 41 bis non può mai consumare, mangiare.
Ma accanto e in modo più pervasivo si inseriscono una serie di ulteriori e più vessatori divieti che privano di umanità l’esistenza quotidiana delle detenute, perché comprimono i diritti fondamentali, incidendo su un piano che opera prima e oltre il diritto, che attiene alla sfera dei diritti naturali e delle prerogative intangibili che spettano all’uomo come persona e che discendono dalla sua stessa natura ed intima essenza, come il diritto di parlare, di leggere, di scrivere, di curare la propria salute.
Questo secondo livello è evidentemente quello maggiormente invasivo, nella misura in cui è affidato alla potestà dell’amministrazione penitenziaria, di un organo quindi che ha come unico fine, unica funzione “la sicurezza”, di privare e limitare i diritti dei detenuti con una sorta di diritto d’arbitrio non sindacabile nemmeno dall’autorità giudiziaria, che conduce inesorabilmente, come afferma da tempo la mia assistita: “ alla progressiva degradazione delle condizioni dei detenuti a regime speciale atteso che la sicurezza dell’istituto sarebbe sempre priorità assoluta a cui tutto il resto è subordinabile”.
Ciò produce come risultato, quello di utilizzare, anche nel ragionamento sulla reale natura di questo regime, come limite massimo, accettabile dallo stato democratico, di questo processo di riduzione-degradazione, l’esistenza fisica della persona, per cui quello che non la colpisce in maniera diretta e immediatamente percepibile, è accettabile, è praticabile.
Perché, non è che se non mi colpisci fisicamente , in modo diretto e visibile, tu non stia comunque minando la mia esistenza fisica, perché questo tipo di vessazioni rivela la sua natura di aggressione anche all’esistenza fisica, a posteriori magari tra 20 anni, insomma una forma di tortura invisibile.
Perché non può non parlarsi di tortura invisibile a fronte di un divieto del diritto di parlare, posto che all’interno della sezione 41 bis femminile a differenza delle sezioni maschili in tutta Italia, dove i gruppi cosiddetti di socialità sono costituiti da 4 persone, ogni gruppo è composto da 2 sole persone e quindi a ciascuna è fatto divieto di parlare con le altre, tranne che con la propria compagna di gruppo.
Quando una disposizione mi obbliga a parlare soltanto con un’altra persona per tutti i gg. della mia vita, sicuramente per anni come sta succedendo, evidentemente sta minando la mia esistenza anche fisica.
In questo stesso solco non possono che vedersi tutte le altre limitazioni e vessazioni, quale il non poter avere in cella più di 3 libri contemporaneamente, e quindi la limitazione al diritto di leggere, di conoscere, di informarsi, quindi di pensare, e le interferenze praticate dall’amministrazione penitenziaria durante le visite mediche, “con agenti penitenziari che presenziavano o che potevano vedere e sentire quel che avveniva durante la visita medica e che addirittura rispondevano alle domande del medico al posto della paziente”, interferenze che avevano determinato la Lioce, a rifiutare di sottoporsi a visite mediche pur sussistendone l’esigenza e nonostante le prescrizioni sanitarie, fino all’intervento del Magistrato che ha dichiarato la illegittimità delle dette modalità di controllo nella visita, imponendo all’amministrazione penitenziaria di rispettare le prescrizioni enunciate dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura.
Non può non convenirsi sul fatto che questo regime visto dall’atto della cella e non più da quello della norma, abbia una evidente natura segregativa e “violenta” che incide tanto pervasivamente fino ad annullarla del tutto, anche su quel minimo di vita di relazione che il detenuto può e deve intrattenere con la popolazione carceraria, che menoma ogni forma di estrinsecazione della personalità umana, che mira ad annientare l’identità stessa dell’individuo detenuto.
Pertanto e qui lascio aperta la domanda e mi chiedo e vi chiedo se possa questo regime dirsi compatibile con i principi costituzionali, e prima ancora con il significato autentico di una civiltà giuridica una pena che tende ad annientare l’individuo nella sua identità sociale e nella salute fisica e mentale.”


Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario

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