La sottoscritta Nadia Lioce ha presentato opposizione al decreto
penale di condanna n.29/2016 ritenendo di poter qualificare le azioni,
addebitatele come di disturbo delle altre detenute, come tradizionali
azioni di protesta verso l’amministrazione penitenziaria (battitura
delle sbarre), e di poter argomentare come non potesse ritenere di aver
arrecato un disturbo alle altre detenute, non avendo udito lamentele; né
che tali azioni arrecassero un tale disturbo, essendo state
storicamente accettate e/o condivise dalle detenute della sezione
femminile 41 bis dell’istituto de L’Aquila, come in generale lo sono
per tutti i detenuti.
Gli eventi in oggetto –di battitura delle sbarre- sono quelli del
25/08/2015, 27/08/2015, 29/08/2015, 31/08/2015, 04/09/2015 e 07/09/2015,
quali segmento di una protesta durata dal 27 marzo 2015 al 30 settembre
2015, con una frequenza analoga a quella citata (documentata dalle
sanzioni irrogate le cui notifiche sono state depositate agli atti), e
forme identiche (battitura con bottiglietta di plastica del cancello) e
durata (mezz’ora), per un totale di episodi superiore alla cinquantina,
in un regime di prigionia “speciale” quale, essendo segregativo nella
natura e nello scopo è ordinariamente ben poco conosciuto. Eppure per
poter contestualizzare i fatti è necessario poterne distinguere le
caratteristiche, per cui la sottoscritta cercherà di tratteggiarle per
come si sono andate determinando storicamente, pur nella consapevolezza
che il salto esistente tra la vita civile e le condizioni della
prigionia speciale in particolare, complessificando la rappresentazione
in parole della sua concretezza, possa non essere colmato dal proprio
tentativo e lasciarne incompleta la comprensione.
Ma è tanto più necessario quanto più è rilevabile una certa ambiguità
aleggiante sulle regole che attengono alla prigionia speciale, sulla
quale si tornerà in seguito con degli esempi.
Il 41 bis nasce negli anni ’90, ma come antesignano ha quello che si
chiamava “articolo 90”, che veniva applicato ai prigionieri politici, e
non solo, ed era parte anche di una più vasta trasformazione
dell’istituzione carceraria in direzione della differenziazione in più
circuiti detentivi (bassa, media, alta sicurezza – politici e non) e
della normalizzazione di sistemi premiali; oltre che inquadrato in
ragioni politiche la cui trattazione esula da queste precisazioni.
Entrambi finalizzati a segregazione dall’esterno e controllo interno
della popolazione detenuta, all’origine concepiti come regimi di
prigionia speciale rispondenti ad un’emergenza, ovvero ad una situazione
a termine, non strutturale – l’art. 90 fu addirittura abrogato una
volta ritenuta esaurita l’emergenza rivoluzionaria – che in quelle
condizioni politiche lo rendeva compatibile con i principi
costituzionali.
Il 41 bis conserva –all’origine– questa giustificazione nelle forme
applicative ma, non sussistendo più le condizioni politiche generali dei
decenni precedenti, in se stesso può nascere per restare come forma di
prigionia speciale “normalizzata”.
Almeno in una prima fase viene concretamente gestito con applicazioni
di durata limitata della misura che la legge prevedeva potessero essere
anche di 3 – 6 mesi e con proroghe non automatiche, e sia
l’amministrazione che la giurisprudenza le concepiva revocabili;
successivamente la legge aumentò la durata della singola applicazione a 1
o 2 anni e poi ancora, così che attualmente la durata della prima
applicazione è imposta a 4 anni, quasi 10 volte più che all’origine,
mentre le proroghe sono di un biennio e sono automatiche nella sostanza.
Se fino al 2009 esisteva una teorica possibilità di revoca della
misura, in sede ministeriale o giurisdizionale, in quanto l’onere di
provare la sussistenza di motivi di applicazione era in capo al
proponente o al decisore, con le modifiche apportate questa teorica
possibilità non esiste più (che non significa che non ci sia stata più
alcuna revoca da allora, ma un conto è la regola, un altro il caso
particolare).[1]
Precedentemente la detenzione speciale consisteva nella separazione
delle sezioni o dei reparti di 41 bis da quelli ordinari (comuni, A.S.,
EIVC); nella limitazione dei rapporti con l’esterno ai colloqui con il
vetro con familiari entro il 3° grado per una o due volte al mese decise
dal ministero oppure dal tribunale di sorveglianza territoriale in sede
di reclamo, quando la competenza a decidere dei reclami al 41 bis era
dei tribunali di sorveglianza locali; limitazioni dei “pacchi” di
vestiario e cibi mensili a 2 per 10 kg totali; limitazione delle
telefonate a 1 o 2 a familiari (che per riceverla devono recarsi al
carcere). Per quanto riguarda la limitazione dei rapporti all’interno
essa consisteva: nella frequentazione di 2 ore di passeggi e 2 ore di
saletta in gruppi formati al massimo da cinque persone.
Per dare un termine di comparazione rispetto all’antesignano: l’art.
90 non prevedeva suddivisioni in gruppi, cioè i “gruppi” non esistevano,
“l’aria” (o passeggi) era frequentata dalla sezione nel suo complesso;
(“la socialità” forse al tempo non esisteva).
Rispetto agli altri circuiti detentivi: tutti i circuiti prevedono
che l’aria sia a frequentazione comune, di tutta la sezione o di tutto
il reparto. Non tutti i reparti utilizzano sale per la socialità che
perciò può essere fatta nelle celle in un numero limitato di persone
scelte dal detenuto volta per volta.
I detenuti comuni usufruiscono di sei ore mensili di colloquio con un
arco più esteso di familiari, quelli in alta sicurezza o del fu EIVC,
di quattro ore.
Tutti i detenuti di bassa, media e alta sicurezza possono fare una telefonata settimanale di dieci minuti ai familiari.
Il 41 bis prevede inoltre in tutti i casi la censura della
corrispondenza che il censore operativo esamina, ed eventualmente
sottopone al giudice competente, per la decisione dell’inoltro o meno.
Una misura applicabile anche a detenuti non in 41 bis, in genere a
quelli in A.S.
Tutto il resto del trattamento in teoria non avrebbe ragione di differire.
Cioè: si potrebbe erroneamente pensare che le altre condizioni di
prigionia di detenuti ordinari e in 41 bis, possano essere le stesse.
Innanzitutto perché la legge nel definire “le misure eccezionali”
rispetto all’ordinamento non ha mai citato limiti minimi, con cui di
norma si asseriscono le condizioni garantite per ogni condizione della
prigionia, ma solo massimi.
Ad esempio: le ore di colloquio, di aria, di saletta, i chilogrammi e
il numero dei pacchi, i capi di vestiario e i generi alimentari e di
conforto detenibili in cella… sono tutti limiti non superabili. Le ore
all’aperto – una all’aria, l’altra in saletta – sono “non superiori a
due”. Cioè, mai condizioni garantite, proprio perché è stato un regime
concepito come una eccezione (e lo è) rispetto ad una normalità.
Poi perché il decreto riserva al vertice dell’amministrazione
ulteriori specifiche disposizioni, individualizzate e non, sicché tutto
il resto può anche differire totalmente e ulteriori compressioni delle
libertà residue ed estensioni delle restrizioni possono colpire ogni
aspetto della vita quotidiana, che sia per iniziativa del Dipartimento o
per iniziativa locale, di interpretazione delle direttive, o di
propositività di iniziativa.
Infine perché addetti alla custodia dei detenuti al 41 bis sono i
G.O.M., cioè un corpo speciale di polizia penitenziaria, forse
introdotto nel 1998 e dal 2009 obbligatoriamente nei reparti di 41 bis,
che consiste in una sorta di polizia penitenziaria militarizzata -finora
informalmente- centrata su compiti di contrasto e in grado di praticare
questo genere di direttive.
Questa serie di peculiarità incidono su tutti gli aspetti della vita
quotidiana: da quello delle disponibilità materiali – detenibilità di
materiali in cella, dal vestiario, al cartaceo, a generi alimentari e di
conforto o per l’igiene ambientale, o degli oggetti personali; a quello
dell’accessibilità all’acquisto di prodotti non inclusi nella lista dei
generi acquistabili di “sopravvitto”; a quello delle modalità e
frequenza di svolgimento delle perquisizioni personali o della cella.
Ognuno di questi aspetti delle necessità, condizioni e disponibilità
personali può essere investito, e concretamente lo è stato e lo è, da un
regime ulteriormente restrittivo, quando in modo “regolamentato” quando
nella pratica provocatoria e nella finalità vessatoria che voglia
essere messa in atto ad arbitrio, incidendo in modo significativo sulla
vivibilità quotidiana della prigionia, con una tendenza dominante alla
generalizzazione delle condizioni più restrittive e privative, per un
principio di cosiddetta uguaglianza.
A tutto ciò va aggiunto che, con le modifiche legislative introdotte
nel 2009, la logica giuridica generale che sopravviveva alla base del 41
bis originario viene rovesciata e viene sancita una sostanziale e
permanente esternità “spaziale” del regime speciale all’ordinamento
giuridico generale, che subentra alla eccezionalità e al suo carattere
per così dire temporale.
Innanzitutto, appunto, esso, da misura almeno in teoria circoscritta
nel tempo, diventa strutturale per un tipo di persone, cioè per coloro
ai quali fosse stata applicata dal ministero.
L’inversione giuridica attraverso la quale può concretamente
succedere è il trasferimento dell’onere della motivazione. Da questo
momento quella che andrà motivata, di fatto, non è più la proroga della
misura, ma la sua revoca. Dunque l’onere viene trasferito dal proponente
o decisore al detenuto in 41 bis, che deve dimostrare: o che c’è stato
uno scambio di persona, che cioè non è lui la persona che il Ministero
vuole assoggettare alla misura, oppure di essere un collaboratore, cioè
non il tipo di persona cui la misura è destinata.
Per un prigioniero che si è assunto le sue responsabilità verso un
referente politico – l’organizzazione rivoluzionaria d’appartenenza – e
sociale – la classe a cui ha rivolto la proposta rivoluzionaria – è cioè
una esplicita richiesta di abiura politica che, di fatto, in se stessa
abolisce il diaframma giuridico ordinariamente interposto dallo stato
nel rapporto col prigioniero politico e politicizza il rapporto stesso,
facendo diventare il regime di prigionia speciale uno specifico piano di
confronto. Confronto nel quale, in sostanza e in generale, l’interesse
del prigioniero ad una prigionia “normale”, non segregata, viene usato
contro lui stesso, ossia come leva per ottenere la collaborazione,
praticamente in modo esplicito.
E, a corroborare la coercitività del regime speciale ai fini della
torsione della volontà degli assoggettati ad esso, viene allargato lo
spettro delle misure restrittive fino a quel momento adottate e vengono
intensificate quelle già esistenti, in parte con la legge stessa, in
altra parte tramite ordinanze e circolari dell’amministrazione centrale o
locale.
La sottoscritta approfondirà ora le condizioni particolari del regime
di 41 bis in cui si sono collocati i fatti in oggetto, specificando
cosa siano i gruppi, partendo da quello che sono diventati.
La legge del 2009 restringe i “gruppi”: da 5 componenti – al massimo – li riduce a 4.
Inoltre, essa dispone che le carceri per 41 bis siano distinte dalle
altre, allocate nelle isole e, mentre il Ministero stabilisce la
costruzione di apposite strutture carcerarie con sezioni “monogruppo”,
la legge dispone anche che le strutture carcerarie adibite al regime di
41 bis, in generale siano attrezzate logisticamente per assicurare che i
movimenti degli appartenenti a un gruppo avvengano precludendo la
comunicazione con appartenenti a gruppi diversi dal proprio (la qual
cosa in una sezione “plurigruppo” – come quella dei fatti in oggetto –
avviene con l’accostamento dei “blindati” delle celle, da parte del
personale penitenziario, durante il passaggio nel corridoio di un
detenuto), in quanto stabilisce anche il divieto di comunicare tra
appartenenti a gruppi diversi (comunicazione che sarebbe fisicamente
possibile nelle sezioni “plurigruppo”)[2].
Con questa ulteriore stretta segregativa è avvenuto che i “gruppi”
non siano più stati delimitazioni circoscritte alla frequentazione di
passeggi e saletta per una funzione di controllo interno, ma siano
diventati “esclusivi”.
E’ avvenuto cioè uno slittamento sostanziale dei paradigmi alla base
della legge originaria che già – rispetto all’art. 90- introduceva
delimitazioni alla frequentazione comune di aria e socialità, rispetto
alle condizioni degli altri circuiti detentivi.
Un’evoluzione della normalizzazione dell’eccezione per il tramite
della torsione giuridica, che sembra giungere a un momento di inversione
del senso giuridico particolare della prigionia speciale, sancendone
una ambigua ma strutturata e strutturale esternità ad un contesto
regolamentare sistematico.
In pratica, con questo slittamento, i “gruppi” diventano “gruppi di segregazione” che escludono tutti gli altri.
Prima erano limitati ad un’aggregazione di 5 persone, per un’asserita
garanzia di controllo, ora la vita in ogni sua espressione, anche
verbale, non deve fuoriuscire dal gruppo di assegnazione (ridotto ad un
massimo di 4 persone).
Non un “buongiorno” può essere scambiato.
Così come effettivamente disposto dalla direzione dell’istituto de
L’Aquila in data 6 novembre 2016. Un divieto di scambio di saluto tra
detenuti presenti all’interno di una medesima sezione, che in concreto
interruppe questa sopravvissuta tradizione e che è una delle
espressioni, materializzate, di quella ambiguità aleggiante sulle regole
del 41 bis, che si genera tra disposizioni di legge già citate,
disposizioni del decreto di 41 bis, apparentemente a raggio di azione
circoscritto[3];
e contenuti di giurisprudenza costituzionale (esempio: sent. C.Cost.
122/2017) che, dagli asseriti legittimi limiti alla comunicazione dei
detenuti appare escludere, e con un argomento pesante quale quello
dell’inviolabilità della persona, la possibilità di precludere
comunicazioni tra detenuti compresenti in una sezione, in quanto
argomenta di limitazioni alla facoltà dei detenuti di intrattenere
colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario[4].
Uno slittamento che pare essere potuto avvenire in una condizione
generale formata da una reiterazione di rappresentazioni pubbliche del
carcere come un “santuario”, ovvero luogo in cui chi vi si trovi è
invulnerabile, incontrollabile e incoercibile, opposte alla realtà della
prigione, in cui le libertà sono a priori residue, e chi vi è rinchiuso
è “coatto”, che hanno sollecitato un’aspettativa pubblica giustificante
le scelte politiche alla base della legiferazione.
In ogni caso, ricostruendo gli avvenimenti, “la parola” segregata fu
in realtà introdotta già da una circolare ministeriale nell’agosto 2008,
cioè circa 10 anni fa, plausibilmente come sperimentazione della
successiva introduzione legislativa.
La “parola”, ovvero quella facoltà innata del genere umano che
storicamente presso un po’ tutte le civiltà ne tipicizza la dignità
rispetto alle altre specie animali, viene criminalizzata in se stessa.
Verso il detenuto in 41 bis che non si auto inibisse, lo è dal 2008 in
poi con la sanzione disciplinare, sebbene non prevista come indisciplina
specifica dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento di
esecuzione almeno fino al settembre 2017, ma, si presume, suscettibile
di sanzione in quanto inosservanza di un ordine. Ma verso chiunque altro
“consentisse” al detenuto in 41 bis di “comunicare” con “l’esterno”
(presumibilmente anche del gruppo) -dal personale penitenziario,
all’avvocato, al familiare, a chiunque solidarizzi- la previsione
legislativa del 2009 è l’incriminazione penale. E tenuto conto che
“verba volant”, che significa che le parole non hanno consistenza
materiale, né in se stesse potenzialità di effetti materiali, intorno a
questa criminalizzazione è venuto a formarsi un grumo antigiuridico
potenzialmente ad alto tasso di criminogenità, potendo chiunque essere
accusato di qualunque cosa[5].
Questa innovazione legislativa, insieme a quella che andava a creare
un regime speciale per il diritto di difesa del detenuto in 41 bis
limitandone le ore di colloquio e la durata delle telefonate (negli anni
arrivate alla consulta e dichiarate incostituzionali) e insieme
centralizzazione presso un unico Tribunale di Sorveglianza – quello
territoriale del Ministero decretante la misura- dei reclami contro i
decreti di 41 bis, andarono ad integrare il nuovo paradigma del “carcere
duro”. Un paradigma la cui specificità rispetto al precedente è la
capacità di proiezione di conseguenze a largo raggio, molto oltre
l’ambito dei suoi “ristretti” o dell’intera popolazione detenuta,
venendo ad incidere sul ruolo e sull’operatività di tutta la
Magistratura di Sorveglianza.
Conseguenze al confronto delle quali le tendenze all’inibizione della parola non solo conversazionale, ma pure funzionale[6] sono solo una deriva parossistica localizzata dentro le mura del 41 bis.
A questo punto è necessario accennare alla specificità della componente femminile della popolazione detenuta a 41 bis.
La specificità della sezione 41 bis femminile dell’Aquila è quella di
essere stata istituita da zero. Cioè scegliendo: ubicazione geografica e
strutturale, personale assegnato e sua formazione, e il trattamento a
cui sottoporre le “politiche” per cui è nata. E ciò potendo contare sul
fatto che le prigioniere sottoposte alla misura non avessero
un’esperienza pregressa, nemmeno storica, del 41 bis (misura che viene
previsto possa essere applicata anche ai politici nel 2002). Inoltre, la
mancanza di una loro coesione per ragioni di forza maggiore, ha reso
più praticabile un trattamento di “massimo rigore”.
Col passare degli anni, e radicato l’insediamento e le sue
caratteristiche di fondo, la particolarità è stata essenzialmente quella
di essere poche.
Ma è necessario fare un passo indietro.
Fino al 2005, la sezione 41 bis femminile era quella di Rebibbia, a
Roma, dove le restrizioni applicate erano quelle di legge e generali, e
il personale penitenziario era ordinario.
Quella sezione nel 2009 chiuse.
In quella aquilana, aperta nell’ottobre 2005, per applicare il
“massimo rigore” fu adottato l’espediente di elaborare ed affiggere
nella saletta della sezione un regolamento apposito per la sezione, che
voleva dare l’impressione che, data la peculiarità di genere della
sezione, essendo femminile in un carcere esclusivamente maschile, ne
servisse uno apposta, altrimenti esisteva un regolamento di istituto che
era vigente a tutti gli effetti.
In realtà, quando nel 2006 fu chiesto di poter acquisire il
regolamento d’istituto –tutti gli istituti devono averne uno – non fu
opposto un diniego, non sarebbe stato giustificabile, ma fu affissa una
copia del regolamento mancante di alcune pagine iniziali e anche al suo
interno. Se ne dovette perciò reclamare l’affissione nella sua interezza
al Magistrato di sorveglianza. E infatti così fu fatto quando il
magistrato lo ordinò.
Allora si poté scoprire che, quelle mancanti, erano pagine
concernenti modalità di perquisizione personale, quantità e generi
alimentari, di vestiario e altro, detenibili in cella. Ambiti in cui la
prassi nella sezione femminile non osservava il regolamento a scapito
delle detenute, fino a quel momento ancora poco esperte.
La sottoscritta farà alcuni esempio pratici: le “perquisizioni
personali con denudamento” venivano fatte con denudamento integrale
nonostante il regolamento d’istituto prescrivesse che il detenuto
restasse con gli indumenti intimi.
Un altro esempio: il regolamento d’istituto prevedeva che in cella si
potessero detenere 10 pacchetti di sigarette. Quello di sezione non
contemplava l’argomento, sicché la quantità detenibile veniva comunicata
oralmente. Diventarono 8, poi 6, poi 4. E il momento della decisione di
ridurre da 8 a 6 ecc. era quello in cui nel corso della perquisizione
della cella, a quel tempo settimanale, se ne trovavano 7, poi 5 e così
via.
Alla detenuta veniva contestata la detenzione di un “eccesso”, alla
previsa e scontata rimostranza, la prima volta c’era l’avvertimento, la
seconda il rapporto disciplinare. E così per ogni variazione in senso
restrittivo che potesse/volesse essere inventata.
A quel tempo, fino a tutto il 2009, era un metodo, poi è diventato
periodico, mentre, più in generale, anche sui generi detenibili in cella
il dipartimento ha sussunto molte delle potestà prima in capo, almeno
formalmente, ai direttori.
Come detto, la particolarità della sezione femminile 41 bis è ora in
buona parte dovuta alla scarsità di detenute, un dato di fatto che di
per sé si traduce in una pressione più elevata, e che consente di
gestire la frequentazione alternata dei comuni passeggi e della saletta,
anche formando “gruppi” di due persone.
E poiché come prima opzione l’amministrazione privilegia la
composizione di gruppi di numero minimo di persone, i “gruppi”, salvo
cause di forza maggiore, sono sempre di due donne.
I gruppi di due persone nella vita civile si chiamano coppie. Anche
in carcere, tempo fa, la definizione di “gruppo”, almeno nelle
controversie insorte tra amministrazione, detenuti e magistratura,
rispettava il senso comune. Il gruppo, cioè, era costituito da un minimo
di 3 persone.
I gruppi di 2-3 persone, inoltre, erano limitati alle “aree
riservate”, cosi dette perché braccetti separati “monogruppo”, isolati
dagli altri e con un trattamento più duro, fino al 2009 presenti in
poche unità per carcere ove fossero ubicate.
Trovate forme di legittimazione, di fatto con la legge del 2009,
“l’area riservata” è diventata il modulo segregativo della popolazione
detenuta al 41 bis. E anche in questo senso, la sezione femminile, che
dall’apertura della sezione de L’Aquila è sempre stata un’area riservata
per un massimo di 4 detenute – fino al 2013 – si è ritrovata ad essere
il “benchmark” ed infine “la nuova normalità”.
Come si può intuire, i mini gruppi di 2 persone sono la composizione a massimo condizionamento reciproco.
Ad esempio offrono la possibilità con una sanzione di erogarne informalmente 2.
È quello che sarebbe successo alla sventurata detenuta che fosse
capitata nel gruppo con la sottoscritta, anche dall’aprile 2015
all’ottobre 2017, quando avrebbe dovuto restare sola al passo delle
sanzioni scontate dalla sottoscritta per la protesta effettuata dei
fatti di un segmento della quale qui si discute.
E invece non è successo perché la sottoscritta, anche per senso di
responsabilità verso le altre detenute, all’atto del trasferimento in
una sezione più grande in grado di custodire ulteriori detenute
sopravvenute, ha scelto di non condividere gruppi con nessuna, ovvero
dal gennaio 2013 a tutt’oggi.
In parole povere, composizioni di gruppi minimali sono una condizione
che genera isolamenti in se stessa perché l’unico altro componente
resta solo in casi di: sanzione, malattia, colloquio, udienza, o
semplice, legittima, mancanza di volontà di uscire dalla cella, o di
svolgere le medesime attività durante l’ora d’aria o di saletta,
dell’altro.
Tutte condizioni concretamente verificatesi centinaia di volte dal
2005, da quando cioè L’Aquila aprì la sezione femminile per “le
politiche”.
Dopodiché l’essere umano è per sua natura sociale, cioè lo è sia
interiormente che nelle sue interazioni, non lo è solo
circostanzialmente, perciò le circostanze sono ciò con cui potenzialità e
istanze si misurano e con cui le persone possono maturare, anzi tanto
più possono aspirare a migliorarsi, quanto più difficili fossero le
circostanze che si presentassero.
La sottoscritta, non potendo sapere quale sia l’idea dei presenti
sulle comunicazioni nelle sezioni 41 bis, immaginando che non fossero
note né le circostanze derivanti dalla propria condizione di
“solitudine” e dunque di preclusione assoluta delle comunicazioni con
altre detenute, né che – tra le altre cose – all’epoca dei fatti la
sottoscritta avesse conosciuto soltanto due delle altre sei detenute
presenti nella sezione femminile in quanto già a L’Aquila dal 2010 –
2011, e infine immaginando che possa essere ritenuto – erroneamente –
che una situazione del genere, contrastando con un principio di
inviolabilità della persona, non possa verificarsi in questo paese, ha
preferito dilungarsi a illustrare le condizioni d’esistenza proprie e
delle altre detenute, nel regime di prigionia di 41 bis, prima di
entrare nel merito di quanto in oggetto.
Perché in questo contesto di inibizione delle comunicazioni sociali
nello spazio comune della sezione in cui i suoni fisicamente si
tramettono, che la sottoscritta non ha proprio avuto modo di
sapere/capire di aver arrecato un concreto disturbo ad altre detenute.
- Perché battiture delle sbarre sono sempre state fatte collettivamente, e non, per periodi di mesi e anche di anni e per più volte al giorno ognuna di 10-15 minuti, la qual cosa autorizzava a ritenere che ce ne fosse una pacifica accettazione.
- Poiché la sottoscritta mentre faceva la battitura leggeva, come del resto facevano altre detenute in occasione di altre battiture, cioè la battitura era compatibile con altre attività, o, quando non lo fosse stata, ad es. durante la somministrazione di terapie farmacologiche, la sottoscritta, su richiesta, la interrompeva.
- Perché la sottoscritta non ha mai sentito nessuna lamentarsi né avrebbe potuto sapere di una lagnanza per comunicazione da qualche detenuta la cui quiete fosse stata disturbata, a causa del divieto di parlarsi di cui sopra, come asserito invece da terzi, interessati perché destinatari della protesta.
- Perché quando la sottoscritta ha letto le contestazioni dei rapporti del 25 e del 27 agosto 2015, recitanti: “dopo la perquisizione ordinaria effettuata nella propria camera detentiva, nonostante non le fosse contestato nulla, lei iniziava a battere con una bottiglia di plastica contro il cancello della sua cella, provocando le lamentele esasperate della restante popolazione detenuta. Per quanto sopra, le si contesta l’infrazione prevista dall’art. 77 punti 4 (atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità), 19 (promozione di disordini o di sommosse), 21 (fatti previsti dalla legge come reato commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari, di visitatori)”, la sottoscritta, non avendo udito lamentele esasperate dalla restante popolazione detenuta, non gli ha attribuito rilievo, se non ai fini di ipotizzare una volontà dell’amministrazione di applicarle anche il regime di 14 bis (ipotesi confermata dagli atti depositati in quanto richiesta fatta da un responsabile GOM), per l’inverosimiglianza degli addebiti (punto 19) nella situazione concreta, oltre che per un’illinearità di interpretazione del “fatto battitura” che si ripeteva dal 24 marzo 2015 almeno due volte alla settimana – in occasione cioè delle perquisizioni della sua camera detentiva (a seguito della originaria perquisizione nella quale ne venne asportato materiale cartaceo, corrispondenza e atti giudiziari) e che sono terminate il 30 settembre 2015 a seguito della restituzione di gran parte del materiale, con le stesse identiche forme e durate, e per l’incoerenza tra gli addebiti al punto 19 e 21.
Oltretutto le sanzioni anche del 26 e del 30 settembre, sono per le
infrazioni al punto 4 e 21, ma delle quali, dopo due anni, non si ha
notizia di denuncia. Né se ne ha di denunce o di decreti emessi da
codesto Tribunale penale per un reato di oltraggio a pubblico ufficiale
come asserito a pag. 11 del decreto di proroga del regime speciale,
notificato alla sottoscritta il 6 settembre 2017, e che si allega agli
atti.
Nadia Lioce
[1]
La legge sulla sicurezza del luglio 2009 sostituisce l’articolo 41 bis
con un nuovo testo, e nel nuovo viene escluso che il “mero decorso del
tempo” costituisca “di per sé” elemento sufficiente per escludere la
capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il
venir meno della operatività della stessa.
[2]
La legge sulla sicurezza del luglio 2009, già citata, apporta modifiche
all’art. 41 bis co. 2 quater lett. F, aggiungendovi: “saranno inoltre
adottate tutte le necessarie misure di sicurezza anche attraverso
accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volte a
garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra
detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e
cuocere cibi”.
[3]
A pag. 17 del decreto di proroga del regime di 41 bis alla sottoscritta
del 06/09/2017, all’art. 2: “Il direttore dell’istituto di pena, ove
l’anzidetta detenuta è ristretta, adotterà le misure di elevata
sicurezza interna ed esterna, anche attraverso accorgimenti di natura
logistica sui locali di detenzione necessarie a prevenire contatti con
l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento,
contrasti con elementi di sodalizi contrapposti, interazione con altre
detenute appartenenti alla medesima associazione ovvero ad altre ad essa
alleate, secondo le disposizione dell’amministrazione penitenziaria”.
[4]
Sent. 122/2017 C.Cost del 08/02/2017 pag.11 “… non può che essere
ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte,
secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è
sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela
costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di
detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne
conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto
costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà
individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui
esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla
discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione
della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).
La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur
tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione
necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993). La legittima
restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che
trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera
inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di
esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate.
Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel
corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio
(art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale
principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in
quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua
naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso
limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti
con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali
comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di
protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei
detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte
dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.)
(sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in
concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno
dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i
giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa
scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata”.
[5] La legge sulla sicurezza, già citata in nota 2:
“Nel libro II titolo III capo II del codice penale dopo l’art. 391 è inserito il seguente:
Articolo 391 bis (agevolazione ai detenuti e internati sottoposti
a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti
previsti dall’ordinamento penitenziario) Chiunque consenta a un
detenuto, sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41 bis della
Legge 26 luglio 1975 n. 354, di comunicare con altri in elusione delle
prescrizioni all’uopo imposte è punito con la reclusione da uno a
quattro anni.
Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato
di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione
forense si applica la pena della reclusione da due a cinque anni”.
[6]
Il riferimento è al tentativo – in pochi giorni rinunciato – risalente
al giorno successivo alla visita del garante nazionale dei detenuti, che
avvenne il 05/05/2017, di vietare lo scambio verbale funzionale tra
detenute e “portavitto”, ossia la lavorante nell’esercizio della sua
funzione.
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