Il
41 bis contro il diritto di leggere e scrivere, per protesta la prigioniera
politica batte sul
blindo con una bottiglietta di plastica. Denunciata dal Reparto operativo mobile
della penitenziaria per disturbo della quiete interna al carcere. Ora c’è da
augurarsi che questo processo faccia rumore davvero!
Paolo
Persichetti
Il Dubbio, 14 novembre 2017
Il Dubbio, 14 novembre 2017
Può sembrar strano ma anche da una cella
d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. E’ quanto sostengono i
responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41 bis del carcere di
l’Aquila in una denuncia presentata contro Nadia Lioce e da cui sono scaturite
le accuse di «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio
a pubblico ufficiale». Il processo davanti tribunale del capoluogo abruzzese
entrerà nel vivo il prossimo 24 novembre. Rinchiusa in regime di 41 bis ormai
dal lontano 2005, dopo la condanna all’ergastolo ostativo per gli attentati
mortali del 1999 e del 2002 contro i consulenti governativi Massimo D’Antona e
Marco Biagi, rivendicati da un piccolo gruppo che aveva ripreso una vecchia
sigla brigatista, le Br-pcc, Nadia Lioce ha assistito nel tempo ad una
progressiva restrizione del regime detentivo a cui è sottoposta, in particolare
per quanto attiene alla possibilità di aver con sé fogli, quaderni, libri e
riviste. Nel 2011 è stato introdotto addirittura il divieto di ricevere libri e
riviste dall’esterno, impedimento confermato anche nell’ultimo provvedimento del
Dap: il «decalogo» che ha uniformato a livello nazionale il trattamento dei
detenuti in 41 bis. Se negli ultimi tempi le condizioni materiali della sua
detenzione hanno subito un adeguamento (cella singola di normale grandezza,
sufficientemente luminosa, areata e riscaldata; un passeggio grande e
attrezzato), le restrizioni hanno preso di mira la possibilità di leggere,
studiare, pensare, scrivere, estrinsecare in modo adeguato quella che è la
personalità di una detenuta politica accentuando fino al parossismo una
condizione di isolamento totale e di lungo termine, dove emerge con forza la
segregazione della parola e del pensiero. Un’ora di colloquio mensile con vetro
e non più di 15-18 ore annue di confronto con i propri avvocati, sono il tempo
di conversazione disponibile che la detenuta riesce a consumare nell’arco di
quattro stagioni, poco più di 24 ore di parola per un silenzio lungo 364
giorni.
Nell’ultimo
decennio – ha ricordato il senatore Luigi Manconi, in una interpellanza
presentata il 10 giugno del 2015 – la sottrazione del materiale cartaceo
conservabile nelle celle della sezione femminile 41 bis presso il carcere
dell’Aquila, è passato da 30 a 3 riviste, da 20 a 3 quaderni, agli atti
giudiziari dell’ultimo anno, a un solo dizionario. In ottemperanza a questo giro
di vite, il 13 aprile 2015 Nadia Lioce – ha denunciato sempre Manconi – si è
vista sottrarre l’immediata disponibilità del materiale cartaceo in suo possesso
(atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale)
trasferito in locali adibiti a magazzino e accessibili solo a giorni alterni in
giorni feriali. Nel corso della stessa giornata la detenuta indirizzava al
direttore dell’Istituto un reclamo per la restituzione del materiale che le era
stato sottratto. Copia veniva inviata anche al magistrato di sorveglianza e allo
stesso senatore Manconi perché potesse effettuare l’azione di sindacato
ispettivo. La sottrazione del materiale cartaceo era stata anticipata tempo
prima dal sequestro dell’elastico di una normale cartellina porta-documenti e di
buste di carta ricavate da fogli di quotidiani incollati, utilizzate per
archiviare corrispondenza e atti giudiziari.
Circostanza
confermata il 22 ottobre 2015 nella deposizione resa davanti al pm dal
Commissario capo della Casa circondariale de l’Aquila: «Con la detenuta Lioce ha
avuto inizio un attrito dovuto inizialmente al fatto che la stessa ha accumulato
un notevole quantitativo di documenti all’interno della propria cella, fatto che
rendeva difficoltoso effettuare le ordinarie perquisizioni». Da quel momento –
ha aggiunto – ogni ulteriore oggetto ritirato alla detenuta è divenuto un motivo
di contrasto e protesta, come è stato per una banale laccetto porta occhiali che
la detenuta aveva ricavato con una striscia di tessuto. Manufatto non consentito
dal regolamento e il cui sequestro ha provocato ulteriori tensioni con la
reclusa. Un crescendo vessatorio che di volta in volta si è focalizzato su
oggetti banali e insignificanti, ma attorno al quale si è messa in scena una
contrapposizione tra il tentativo, da parte della detenuta, di preservare spazi
residui di autonomia, significativi per poter mantenere il proprio senso della
persona e della propria dignità, e la necessità dei corpi punitivi dello Stato
di riaffermare la propria autorità simbolica e il proprio potere segregativo. In
questo modo, in appena tre mesi sono stati elevati nei suoi confronti 70
provvedimenti disciplinari, come hanno denunciato in occasione della udienza del
15 settembre scorso i suoi legali, Caterina Calia, Ludovica Formoso e Carla
Serra, che fanno anche notare come la permanenza di questo regime detentivo
ultrarestrittivo non abbia più fondamento in assenza di quell’organizzazione
esterna, smantellata nel 2003, in cui la Lioce militava.
Dopo
aver constatato che le normali vie di ricorso legale non avevano sortito alcun
effetto, Nadia Lioce ha inscenato, dal marzo al settembre 2015, la battitura
della porta blindata al termine di ogni perquisizione, suscitando da sola tanto
di quel baccano da essere trascinata a processo.
«Come
ormai da tempo accade – scriveva in un rapporto del 4 settembre 2015 l’agente
scelto del Reparto operativo mobile che assieme ad una collega aveva eseguito la
perquisizione – in risposta a tali controlli, alle ore 8.45 circa, iniziava a
protestare battendo una bottiglietta di plastica contro il cancello della
propria camera detentiva fino alle ore 9.15 circa». Un atteggiamento ritenuto
«strumentorio», dal vice Ispettore del Rom che in un altro rapporto ricorreva a
questo inusitato neologismo per censurarne il comportamento chiedendo che la
segnalazione venisse inviata alla locale autorità giudiziaria. Altrove le
proteste della Lioce venivano qualificate come manifestazione «della sua indole
rivoluzionaria», suscettibile di sanzioni disciplinari come l’applicazione della
misura dell’isolamento punitivo (14 bis Op). Come se non bastasse, a rendere
ancora più grottesca la pretesa punitiva messa in campo dall’autorità
penitenziaria, in particolare dal responsabile del Rom del carcere di L’Aquila,
è venuta la richiesta di disporre «previo accertamento e quantificazione del
danno, da eseguirsi a cura dell’addetto alla m.o.f. (manutenzione ordinaria
fabbricati)», un «provvedimento di addebito a titolo di risarcimento per i danni
rilevabili sul cancello della camera detentiva di assegnazione», provocati dalla
percussione di una bottiglietta di plastica sulle pesanti porte di ferro
blindato.
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