01/11/17

31 ottobre 2009 - Lo stato uccide Diana Blefari

Per Diana
splendido uccello dalle piume trasparenti
ti ha ucciso la gabbia
e chi l’ha costruita e ti ha rinchiusa
quando libera volavi non ti bastavano i cieli bassi e grigi
sporchi di nera ingordigia dei padroni
hai scelto la lotta
per salire più in alto
verso il sole, rosso
La luna ora colora d’argento le tue piume
Uno stormo si libra nell’aria
s’innalza
a salutarti
sono i nostri pugni stretti
i nostri cuori rossi
puntano al sole
dell’avvenire

Anonimo - Dedicato alla compagna “MARIA”, Diana Blefari Melazzi, uccisa in carcere dallo stato il 31 ottobre 2009

***

Era l’autunno del 2005. Avevano allestito per loro una sezione speciale femminile di massima sicurezza, come da articolo 41 bis, in un carcere, chiamato “Le Costarelle”, di Preturo, all’Aquila. Già affollato di 41 bis ma, fino allora, i casi erano tutti relativi a crimini mafiosi compiuti da mani maschili. Loro, le detenute, per le quali era stato riservato il trattamento di massimo isolamento e che in quell’autunno di quattro anni fa inaugurarono l’apposita sezione, erano Nadia Lioce, Laura Proietti e Diana Blefari, delle BR - PCC.
“Stavano ognuna in una cella per contro proprio e non comunicavano tra loro. Perché non ne avevano voglia – come era fin troppo chiaro e potei costatare personalmente durante la visita – oltre che per la situazione di estremo isolamento del 41 bis, che avrebbe mandato in tilt chiunque. Ero andata a visitare Diana Blefari, in modo particolare, per le notizie che mi erano arrivate sul suo stato di salute e per la novità della sezione femminile in quel carcere, che conoscevo bene per altre visite che vi avevo fatto. Ma lei, Blefari, non comunicava soprattutto perché, fin dall’inizio dell’arresto, era caduta in uno stato di profonda prostrazione e inerzia psicologica. Era arrivata al carcere di Preturo già in condizioni pietose… Se ne stava rannicchiata tutto il giorno nel letto, con la coperta fino agli occhi e senza nessun cenno di interesse per il mondo. Era piombata nel cono d’ombra di un distacco da sé stessa che non l’ha mai abbandonata..." Così Elettra Deiana ricorda Diana Blefari durante la sua detenzione in regime di 41 bis nel carcere de L'Aquila.
Diana si ammalò di carcere e la "cura" dello stato fu peggiore del male: fu sottoposta a periodici TSO tra i carceri di Montelupo Fiorentino e Sollicciano per tenerla in vita al solo scopo di continuare a torturarla ed umiliarla.
In quegli anni le iniziative a sostegno dei prigionieri rivoluzionari, contro la tortura bianca e le morti da carcere erano numerose e molto partecipate. Il 26 settembre 2007 l'allora Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, rinnovò il regime di carcere duro a Diana Blefari con queste motivazioni: "A fronte di tale ondata di consensi un'eventuale mancata proroga dell'art. 41 bis nei confronti della Blefari potrebbe essere interpretata dal variegato movimento antagonista come un attestato dell'efficacia della campagna di solidarietà condotta, e dai terroristi in carcere come un segnale della ripresa della capacità rivoluzionaria della classe". Inoltre non vi è stato "alcun attestato di dissociazione o di rifiuto della lotta armata" da parte della brigatista.
La declassificazione dal regime di carcere duro arriva solo nel 2008. Troppo tardi. Da tempo Diana soffriva di una profonda prostrazione psico-fisica e aveva manifestato propositi di suicidio, ma viene strumentalmente diffusa la notizia di una sua possibile collaborazione, da lei decisamente negata.
All'inizio del 2009 a Diana Blefari vennero autorizzati i colloqui con un suo ex compagno. Il permesso fu probabilmente concesso su sollecitazione della Digos a scopi investigativi, perché l'amico verrà arrestato con l'accusa di banda armata un mese prima della morte di Diana e assolto dopo 18 mesi di carcere.
Questa è stata solo una delle ultime torture con cui lo stato ha spinto Diana Blefari a suicidarsi: l'arresto di Massimo Papini , "colpevole" di averla amata e non averla abbandonata [1]

Il 21 ottobre la riportano a Rebibbia. Cella singola con la porta blindata sempre aperta, vicino alle agenti di guardia. Gli inquirenti spingono su di lei. Puntano a un colloquio investigativo. Un tentativo subdolo e martellante di usare la sua malattia per ottenere una collaborazione, ma Diana continua a dire NO.
Poi la notizia della condanna: Ergastolo!

Il volto in fiamme. Il freddo dentro. Vibrazioni interiori. Scintille nel cervello. Voci silenziose che tuonano nella testa. Senza tregua, senza pietà. Intrusioni invisibili, impalpabili. Rimbalzano fra le pareti della cella. Pensieri estranei e appuntiti. Sentimenti lacerati. Immagini martellanti. Crescono, si moltiplicano, invadono ogni angolo del corpo. Si accumulano in un magma che tutto travolge, miscela, confonde. Capogiro, sensazione di svenimento. Corpo bloccato, paralizzato. Solo le mani si muovono. La testa, un poco. Solitudine. Debolezza. Colpa. Nausea. Un vortice cupo. Stretto. Un tunnel chiuso. Senza possibilità di luce. Il foglio, il disegno. Disperazione. Le celle sono chiuse, la notte è insopportabile. Spegnere il cervello. Chiuderlo a interventi esterni. Tagliare il lenzuolo. La finestra, le sbarre. Il buio fuori, il buio dentro. Annodare il lenzuolo. Un ultimo salto. Verso la fine. Verso la quiete [2].

Alle 22,30 alla vigilatrice del carcere di Rebibbia arriva un rumore sordo. Trova Diana impiccata nella sua cella.

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[1]  https://insorgenze.net/tag/nuove-brigate-rosse/

[2] Paola Staccioli: Sebben che siamo donne, di Derive e approdi - https://www.facebook.com/sebbenchesiamodonne/

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