Mara Cagol |
"Sebben che siamo donne", Storie di rivoluzionarie di Paola Staccioli con una testimonianza di Silvia Baraldini, è un libro sicuramente da leggere, anche se le recensioni, da quella decisamente reazionaria e sbirresca di Mario Bonanno su «Sololibri.net», a quella del più "sinistro" Vincenzo Scalia su «il manifesto», sono decisamente brutte ed equivoche.
Franca Salerno |
La presentazione del sinistro Manifesto, in particolare, non fa certo onore alle compagne delle BR e dei gruppi combattenti, la cui scelta della lotta armata viene ridotta ad una "sfida agli uomini sul terreno della pratica rivoluzionaria", una scelta in cui le donne sarebbero portatrici di "tensione individuale e sensibilità sociale" in contrasto con le "logiche da mucchio selvaggio che prevalevano tra la componente maschile" - cose mai dette dalle compagne durante la loro militanza e false, che vogliono solo sminuire la loro scelta ideologica, politica.
La scelta ritrova dignità di lotta rivoluzionaria solo quando si denuncia la repressione assassina dello Stato.
opuscolo del mfpr |
Infine, vengono banalizzate le differenze, divisioni tra "movimenti e gruppi", lì dove si trattava e si tratta di profonde questioni strategiche, teoriche, politiche e di prassi, su cui le comuniste e i comunisti rivoluzionari che ritengono tuttora sempre più necessaria la lotta armata come guerra di popolo e la violenza rivoluzionaria come "levatrice" - come diceva Marx - di una nuova società, per passare dalla preistoria alla storia dell'umanità, devono fare un bilancio serio per riprendere le lezioni positive e criticare le lezioni negative e per cui invece non serviva allora e non serve oggi il discorso "siamo tutti dalla stessa parte della barricata".
Detto ciò, su quanto si è scritto intorno al libro e augurandoci che il libro sia tutt'altra cosa delle sue recensioni, iniziamo ad entrarci dentro, riportando più avanti una nota dell'autrice e un assaggio di "sebben che siamo donne" (da derive approdi):
Questo libro è nato per dare un volto e un perché a una congiunzione. Nel commando c’era anche una donna, titolavano spesso i giornali qualche decennio fa. Anche.
Un mondo intero racchiuso in una parola. A sottolineare l’eccezionalità ed escludere la dignità di una scelta. Sia pure in negativo.
Nel sentire comune una donna prende le armi per amore di un uomo, per cattive conoscenze. Mai per decisione autonoma. Al genere femminile spetta un ruolo rassicurante. In un’epoca in cui sembra difficile persino schierarsi «controcorrente», le «streghe» delle quali si racconta nel libro emergono dal recente passato con la forza delle loro scelte.
Dieci militanti politiche (Elena Angeloni, Margherita Cagol, Annamaria Mantini, Barbara Azzaroni, Maria Antonietta Berna, Annamaria Ludmann, Laura Bartolini, Wilma Monaco, Maria Soledad Rosas, Diana Blefari) che dagli anni Settanta all’inizio del nuovo millennio, in Italia, hanno impugnato le armi o effettuato azioni illegali all’interno di differenti organizzazioni e aree della sinistra rivoluzionaria, sacrificando la vita per il loro impegno.
Un Assaggio
Sebben che siamo donne non è un libro di storia, ma di storie. Raccontate dalla parte di chi le ha vissute. Cercando di ricostruirne il senso, i pensieri, l’azione. Si possono non condividere le scelte di queste donne. Ma sicuramente sono interne al lungo percorso di progresso ed emancipazione sociale del proletariato e delle masse popolari. Sono parte di noi. Di chi nel mondo si batte per una società senza classi.
Sebben che siamo donne non è un libro di storia, ma di storie. Raccontate dalla parte di chi le ha vissute. Cercando di ricostruirne il senso, i pensieri, l’azione. Si possono non condividere le scelte di queste donne. Ma sicuramente sono interne al lungo percorso di progresso ed emancipazione sociale del proletariato e delle masse popolari. Sono parte di noi. Di chi nel mondo si batte per una società senza classi.
Queste affermazioni a molti non piaceranno. Non è strano. Finché il divenire storico sarà caratterizzato dalla lotta tra le classi, la memoria non potrà essere condivisa. Ma nemmeno deve trasformarsi in un angolo idilliaco in cui rifugiarsi. Il paradiso degli ideali perduti. Dei pensieri cristallizzati. Deve essere libera da acritiche esaltazioni come da aprioristiche scomuniche.
Il passato è materia viva, da modellare al presente. Della lotta armata degli ultimi decenni in Italia si è parlato e scritto molto. Eppure la vastissima produzione bibliografica sembra essere inversamente proporzionale alla chiarezza. Come ogni fenomeno scomodo viene rimosso o mistificato. Oppure l’analisi è costellata da interessate dietrologie.
I più sono schierati in una difesa tout court dello Stato. I protagonisti di allora sono spesso influenzati dalle scelte successive. Altri sembrano sentirsi obbligati a ribadire continui distinguo nel timore di finire inchiodati in una accusa di complicità. O fuori dal mercato editoriale. Il nostro recente passato è blindato persino nella definizione. Anni di piombo. Inizialmente indicava la repressione di Stato, le carceri che seppellivano gli oppositori. Presto è stata generalizzata. Una semplificazione che distorce la realtà. Identifica due decenni con una fenomenologia. Quella della violenza, che lasciando lacerazioni profonde e ferite ancora aperte tende a oscurare i contenuti. Le ragioni di un periodo caratterizzato da forti spinte ideali. In cui la lotta armata si è inserita come rottura radicale ma interna alle aspirazioni di cambiamento.
Le storie del libro non sono solo dieci, in realtà. Perché c’è anche un’esperienza politica raccontata direttamente dalla protagonista.
Nella sua testimonianza, Silvia Baraldini ripercorre il contesto, le ragioni, le modalità della sua militanza clandestina negli Stati Uniti degli anni Settanta. Un’italiana dall’altra parte dell’oceano, ma nel centro dell’impero. Un impero che opprimeva e opprime popoli, oltre che classi al suo interno. Una scelta di classe e internazionalista. A chiudere, le schede delle organizzazioni o aree di riferimento delle dieci donne. Per contestualizzare le biografie e fornire un primo stimolo per un approfondimento. Se è vero che oggi la dimensione collettiva è in parte sbiadita, che l’individualismo calpesta identificazioni e tensioni al cambiamento, è anche vero che l’aspirazione a vivere in un mondo in cui sia superata la sempre più accentuata disparità delle ricchezze è assolutamente attuale e presente nell’oggettività storica. Sebben che siamo donne vuole contribuire alla riflessione per comprendere come il nostro recente passato, usando le parole di Jacques Le Goff, possa «avere ancora un bell’avvenire».
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