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31/10/10

buone notizie dalla spagna, Pilar assolta per aver ammazzato il marito violento!

PEDÍAN 11 AÑOS DE CÁRCEL

El jurado absuelve a Pilar Marcos del asesinato de su marido

El magistrado ha dado a conocer la sentencia tras escuchar el veredicto del Giustificajurado popular que no ha considerado que Pilar tuviera intención de clavar a su marido el cuchillo con el que se defendía de las agresiones.

Los nueve miembros que componen el jurado no han dado por probado ningún hecho delictivo de los que se acusaba a Pilar Marcos. El cuestionario que les había entregado el juez recogía cuatro posibilidades: homicidio, homicidio con dolo eventual, homicidio imprudente y accidente fortuito, y ninguno de los cuatro ha sido considerado probado, motivo por el cual la mujer ha sido absuelta.

Al escuchar el veredicto del jurado, los familiares de la acusada se han abrazado y se han escuchado gritos de alegría. A la salida de los juzgados, la mujer se ha mostrado muy agradecida a todos los medios de comunicación "que se han portado excelentemente" con ella durante el proceso.

El Ministerio fiscal pedía once años de prisión para la mujer por un delito de homicidio, por haber matado a su marido clavándole un cuchillo.

En la primera jornada del juicio, la mujer afirmó que no quiso hacer daño a su esposo, "sólo que supiera que no iba a soportar más palizas", e insistió en que había sufrido malos tratos físicos y psicológicos durante su matrimonio. Según relató, el día de los hechos, durante la discusión que derivó en la muerte del hombre, "él se cayó encima del cuchillo" que ella tenía en la mano, sin que ella quisiera matarle.

27 ottobre 2010

05/10/10

La dura giornata di una donna: 27 ore. Anzi, di più

da Daria Bignardi

Lo dice una ricerca: sappiamo «dilatare» il tempo facendo mille cose insieme. Ma a 65 anni, forse, ci godremo la vita. Marito, figli e nipoti permettendo

La donna è diventata soprattutto una creatura da lavoro». Sulla prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 24 settembre, a firma Paolo Di Stefano, è comparso un tema molto caro a questa rubrica, quasi una nuova puntata dell’articolo della settimana scorsa: quello del tempo delle donne. Della loro capacità/necessità di fare/pensare a mille cose nello stesso momento e delle responsabilità (anzi, della mancanza di responsabilizzazione) della società, e specialmente dei maschi, nei loro confronti. Un argomento sul quale ritorno perché mi sembra centrale per la società contemporanea.
«Se la giornata delle donne dura 27 ore», titolava il Corriere, ripreso quella sera da alcuni telegiornali. Scriveva Di Stefano che «una ricerca condotta dalla Camera di Commercio di Milano rivela che tra le qualità che distinguono la donna dall’altro sesso c’è quella di riuscire a dilatare a ventisette ore la propria giornata, cioè a fare mille cose insieme, guadagnando fino a cinque ore sul corso naturale del tempo… Dunque, con la mano destra lavorare al computer e con la sinistra girare il sugo, con un alluce inviare un sms e con l’altro cullare il piccolo, con un orecchio seguire una videoconferenza e con l’altro sorbirsi le rotture del marito, con un occhio controllare gli appuntamenti del giorno dopo e con l’altro verificare le email, badare che non esca il caffè… Dalla padella della schiavitù da famiglia alla brace della schiavitù da iperattività».
Sssschiava! Sono la vostra ssschiava, diceva mia madre sibilando le esse, e noi ridevamo, ma non c’era niente da ridere. Trovo che la ricerca della Camera di Commercio minimizzi: le ore che dedichiamo al lavoro sono di più, perché pensiamo «a quel che c’è da fare» anche mentre dormiamo, che sia un problema in ufficio, il pollo da scongelare o un certificato per la piscina del bambino.
Il tempo libero di una donna con famiglia non esiste più da quando le famiglie italiane ruotano completamente attorno al lavoro delle donne. Per motivi ripetuti fino alla nausea, ma diciamoli ancora. Motivi culturali: perché a una cena tra amici chi si alza a dare una mano alla padrona di casa sono ancora le donne? Motivi sociali: perché sul posto di lavoro manca una seria consapevolezza delle responsabilità imposte dalla maternità? Motivi sociologici: non esiste più il nucleo familiare dove nonni e zii danno una mano, oggi la famiglia è un nucleo isolato, al centro del quale sta una donna che come un sergente impazzito pianifica strategie di sopravvivenza sfiancanti, senza avere il tempo per staccare e ricaricarsi. Non parliamo del tempo di divertirsi, amare, curare le amicizie e i rapporti familiari: questo tempo non c’è, ma le donne lo trovano. Di notte. O mentre fanno cento altre cose.
Alla fine, queste donne cariche di doveri invecchieranno. Le più fortunate avranno una pensione. Le meno fortunate problemi economici e figli difficili e ancora giovani da seguire. Il riposo arriverà dopo i sessant’anni, se lo stress non le avrà troppo logorate, depresse, sfibrate, distrutte. A sessantacinque anni, con un po’ di fortuna, pur combattendo con le loro osteoporosi e periartriti e i loro tunnel carpali infiammati e menischi calcificati, le donne forse potranno dedicarsi ai propri interessi e piaceri. Potranno leggere, andare al cinema, oziare e sognare. E anche se si ritroveranno accanto mariti invecchiati peggio di loro, figli ancora problematici e nipotini ingombranti, troveranno finalmente il coraggio di trascurarli, qualche volta. Di fermare il tempo. E ricominciare a vivere.

02/07/10

Sentenza: se una donna è "forte" si può maltrattare

Cassazione, pronuncia choc: la moglie 'forte' si puo' maltrattare
Assolto un marito perche', nonostante le botte, lei non si intimoriva

ROMA - Le mogli che hanno un carattere ''forte'' e che non si lasciano ''intimorire'' dal clima di intimidazione, comprensivo di percosse, al quale le sottopone il marito corrono il rischio di vedere assolto il coniuge dal reato di maltrattamenti proprio per via della fermezza della loro forza d'animo.La Cassazione, infatti, ha annullato la condanna a 8 mesi di reclusione nei confronti di un marito accusato di aver maltrattato la moglie per tre anni. Dinanzi alla Suprema Corte il marito aggressivo ha sostenuto con successo che non si trattava di maltrattamenti in quanto la moglie ''non era per nulla intimorita'' dal comportamento del coniuge ma solo ''scossa, esasperata, molto carica emotivamente''

Fonte ansa

09/04/10

Placare Placanica

Placare Placanica
Di Doriana Goracci

http://www.reset-italia.net/

Mario Placanica era un giovane carabiniere il 20 luglio 2001, accusato e poi assolto di aver ucciso Carlo Giuliani, a Genova.Il giovane carabiniere cresce come la somma erogata, 400.000 euro, che gli fu consegnata da Vittorio Feltri direttore del quotidiano Libero, ricavata da sottoscrizioni aperte e chiuse in un anno, “per sostenere le spese legali e mediche del giovane militare coinvolto, suo malgrado, nei gravi incidenti di Genova, simbolo non solo delle aggressioni fisiche, ma anche di una campagna di delegittimazione del lavoro delle forze dell'ordine” e diventa anche padre oltre che marito di Sveva Mancuso.
Sono passati 9 anni e non è chiaro niente, tantomeno cosa passa nella mente di quell'uomo non qualunque per una giornata non qualunque del G8 italiano.

Sono invece molto comuni le denunce della moglie che da un articolo del secolo XIX intitolato «Le minacce a Placanica? Se le scriveva da solo», si rende noto che " lo ha lasciato nell'ottobre 2007, dopo due anni di matrimonio, e un figlio, dopo aver diviso con lui sofferenze, botte, incidenti sospetti, paranoie, microspie, psicofarmaci, ossessioni: un baratro in cui i fantasmi di Mario avrebbero fatto sprofondare l'intera famiglia. Con i pezzi di una vita da rimettere insieme, giù in Calabria."

Si sono aggiunte da due anni le accuse di violenza sessuale nei confronti di una bambina, all'epoca undicenne. Placanica scrive, alla moglie e ai giornali, bigliettini non proprio amorosi e non a firma sua, ovviamente.

La vicenda comune di una donna che denuncia violenze, si accoppia alla banalità di una straordinaria giornata genovese, dove chi l'ha vissuta, ha visto con i propri occhi la conferma di una società senza diritto e certezza di giustizia, dove il potere rappresentato da potenze mondiali, non nuove a scenari di violenza e terrore indotto, ha dato una prova schiacciante ogni verità, anche se migliaia sono state le documentazioni e le denunce. E tutto si placa, non Placanica, in nome della nostra Protezione, anche le stragi, prima e dopo Genova, con qualunque amministrazione allora presente, qualunque istituzione avesse calcato, o calcherà, lo scenario. Lo spettacolo del silenzio omertoso, continua e il sipario cala, a placare qualunque domanda, anche quelle che non si fanno, per ignoranza, stanchezza, rassegnazione. Ci diamo delle risposte. E chi le sente le une e le altre? Tornano le voci, come nelle menti dei matti, quelli che si sdoppiano, che fanno la parte di chi recita il torturatore e il torturato. E' legittimo qualsivoglia impedimento, perchè nulla accada. Si aspetta, la fine del chiacchiericcio e la Ricostruzione, quella dai modi seri e certi, che non ha paura di reprimere e controllare la paura, di mettere a tacere, per sempre.Magari in una grotta come in un innocente gioco, un Domino.Cappuccio nero e maschera bianca, effetto a catena.

"Dal 19 marzo le sono arrivati a ripetizione tre bigliettini: «Puttana ti ammazzo stai zitta», «Morte stronza», «Puttana muori», frasi sovrastate da una piccola falce e martello, scritte a stampatello, con la grafia nervosa di un bambino. «Inizialmente - fa annotare Sveva ai carabinieri - non volevo fare questa denuncia in quanto credevo si trattasse di qualcosa di poca importanza». «Mario è abituato a scrivere bigliettini e minacce per attirare l'attenzione», dice. Lo ha già fatto nel 2007.
La lettera di minacce firmata Brigate Rosse rivolte a lui e al segretario della Cei Angelo Bagnasco, con su scritto "Mario Placanica morte. Bagnasco al rogo. Solidarietà con i compagni. Viva Carlo Giuliani", «se l'è scritta da solo» racconta Sveva: «La sera del 30 aprile del 2007 stavo dormendo. Apro gli occhi e vedo Mario che guarda su internet un sito con le immagini del sequestro di Aldo Moro. Noto che sta ricalcando con cura la stella delle Br. Gli chiedo cosa sta facendo, e lui mi dice di stare zitta, per le microspie. Mi avrebbe raccontato la mattina dopo, l'1 maggio, quando ho visto con i miei occhi imbucare la lettera nella nostra cassetta della posta». Allo stesso modo nei giorni precedenti «è stato lui a scrivere con le bombolette spray le minacce di morte apparse sui muri vicino a casa nostra a Sellia Marina, firmate "Brigata 20 luglio"». E sempre lui è l'autore a delle minacce telefoniche di morte all'avvocato Ezio Menzione, che si occupava di difendere alcuni no-global nel processo per i disordini del G8 di Genova. Telefonate partite da una cabina di Montepaone Lido a fine maggio 2007.
L'1 giugno Placanica sarebbe stato chiamato a deporre come teste a Genova. Sveva ha assistito impotente ad ogni azione del marito: «Ero costretta - si sfoga - mi minacciava, mi picchiava. Non sta bene. È psicopatico e schizofrenico».
Ma perché dire tutto solo oggi? «Perché sono sola e penso che Mario venga coperto da polizia e carabinieri. Che nonostante le mie continue denunce non mi aiutano. E poi perché mi vuole togliere il bambino che ho avuto da lui».
Sveva infatti il 5 maggio sarà in tribunale, convocata dall'avvocato di Placanica per sottrazione di minore. Ricorda anche «le sue continue sniffate di coca» che mescolate agli psicofarmaci una volta stavano costando la vita a tutti e due per un incidente. Dopo essere riuscita a liberarsi di lui, a lasciarlo, Sveva ha chiamato Menzione e gli ha raccontato quasi in lacrime la verità. Ma perché dire tutto solo oggi? «Perché sono sola e penso che Mario venga coperto da polizia e carabinieri. Che nonostante le mie continue denunce non mi aiutano. E poi perché mi vuole togliere il bambino che ho avuto da lui». Sveva infatti il 5 maggio sarà in tribunale, convocata dall'avvocato di Placanica per sottrazione di minore.

05/04/10

Anita, sfollata di 83 anni, “occupa” la caserma Campomizzi dell’Aquila

Fonte www.politicambiente.it

Quando si dice “nomen omen”, il destino nel nome… Anita, aquilana di 83 anni, ha proprio la tempra della garibaldina: dopo mesi da sfollata, da sola in una stanza d’albergo sulla costa abruzzese, tre giorni fa ha occupato una stanza di una caserma dell’Aquila, dove sono ospitati altri terremotati. La struttura Campomizzi è però da settimane al centro di una contesa e di un’assurda pretesa: quella di farvi entrare, nei posti letto liberi, non altri terremotati ancora fuori città ma universitari in affitto, per i quali in un anno non sono state trovate altre soluzioni migliori di questo odioso compromesso. Il risultato di queste scelte politiche è quello di aver creato l’ennesima guerra tra poveri. I cittadini senza casa si chiedono infatti perché abbiano maggiore diritto degli studenti fuorisede, rispetto alle migliaia di sfollati sparsi su tutto il territorio abruzzese, per i quali tra l’altro vengono spese somme che potrebbero essere risparmiate e impiegate nella ricostruzione. Dall’altro lato gli stessi universitari vengono strumentalizzati in questo braccio di ferro, loro malgrado. Eppure – sia per gli studenti sia per gli altri cittadini – sarebbero bastati, come era stato chiesto dai comitati civici fin dall’estate scorsa, i moduli provvisori e le case mobili, che non hanno nulla a che vedere con i container e che una volta terminata l’emergenza del post-terremoto all’Aquila sarebbero potuti servire altrove. La storia di Anita è quella di migliaia di aquilani, soprattutto anziani, ancora sfollati sulla costa, dove i media non arrivano e che per questo restano un esercito di invisibili. Anita è scampata al terremoto, salvata da un “giovane angelo” – come lei lo chiama – di nome Leonardo. La casa di questa signora, in pieno centro, è inagibile. Come molti altri, anziani e non, una volta chiuse le tendopoli è stata “deportata”. Lei non aveva figli ai quali unirsi e nell’assegnazione della destinazione (perché di questo si è trattato, non di scelta) non è stato considerato che all’Aquila ha un fratello, una sorella e i nipoti. Oltre ai ricordi di tutta una vita. A Montesilvano (Pescara) è stata mandata completamente sola. Perché per lei, e per moltissimi altri, non c’è ancora posto nella “sfida gigantesca” (ultime parole di Bertolaso), che si vuol far credere di aver vinto all’Aquila. Nel post-terremoto la “politica”, così hanno avuto il coraggio di chiamarla, è stata quella di lasciare fuori dalla città i nuclei di due persone o le persone sole, privilegiando il (sacrosanto) rientro all’Aquila delle famiglie con bambini, perché altrimenti, si diceva mesi fa, “la città sarebbe morta”. Neanche tra le righe questo voleva dire: altrimenti sarebbe stata una città di vecchi. Ma questa scelta non è bastata, e non basterà, a far rinascere la città di Federico II. La situazione è sotto gli occhi di tutti: il territorio ora rischia davvero di spopolarsi, proprio di giovani, per la mancanza di lavoro, per una ricostruzione che non parte, per una gestione del dopo terremoto distante dai veri problemi dei cittadini. Anita ha tutto all’Aquila e niente a Montesilvano: ha trascorso un’intera vita nel capoluogo abruzzese, dove viveva nel cuore della città e dove per quarant’anni ha avuto una tabaccheria. Era sposata con un maresciallo, che adesso non c’è più, e ha fatto parte della Croce Rossa. “Abbiamo dato tanto agli altri. Ed ora che è ho bisogno io?”, chiede quest’anziana, con gli occhi pieni di lacrime, spaurita ma al tempo stesso forte e fiera. A Montesilvano, come migliaia di anziani che si trovano ancora negli alberghi lontani, dove devono essere tenuti nascosti e zitti perché non esca fuori il fallimento della politica delle promesse, Anita passa giornate intere dentro una stanza d’albergo, dove l’unica cosa che si può fare è pensare: ai ricordi, allo sradicamento presente, ad un futuro più incerto e malinconico di quanto già non lo sia quando la maggior parte della propria vita è alle spalle. Per queste persone la depressione è il minimo. Molti anziani sanno che non rivedranno L’Aquila ricostruita, bella com’era, ma sanno anche che forse non la rivedranno proprio. Molti vecchi, dal 6 aprile 2009, sono già morti da sfollati, sradicati e disorientati. Dopo una vita di sacrifici si pensa di poter godere gli ultimi anni tra i ricordi nel posto del cuore, dell’infanzia, dei primi amori, del grande amore. E invece non è così, neanche questo lo Stato riconosce come diritto. Dopo l’occupazione della stanza presso la caserma sono arrivate due volte le forze dell’ordine ma Anita è rimasta. “Io da qui non me ne vado. Ci sono tanti posti liberi”, racconta. A quel punto, il 2 aprile, è giunta presso la caserma una comunicazione da parte della Struttura per la Gestione dell’Emergenza (Area assistenza alla popolazione), ufficio che si trova presso il Comune. Nel documento (prima foto nella galleria in fondo alla pagina) si ribadisce che “i visitatori giornalieri non possono in nessun caso essere ospitati per la notte” e che possono restare fino alle 22. Un modo, spiega Antonietta Centofanti (promotrice del Comitato Familiari Vittime della Casa dello Studente e ospite anche lei della Campomizzi), per aumentare i controlli su chi entra e chi esce dalla struttura. Nelle due caserme dell’Aquila messe a disposizione dei terremotati, la Campomizzi e la Caserma della Guardia di Finanza di Coppito, ci sono circa 600 posti liberi, ribadisce Centofanti. Che si aspetta a far tornare gli aquilani sparsi altrove?
“Politicambiente” seguirà gli sviluppi di questa e di altre storie simili. Anita vincerà la sua battaglia, ce l’ha scritto nel nome e nella tempra, anche perché deve fare da avanguardia al ritorno di migliaia di aquilani, e dei più vecchi, nella città. Perché L’Aquila non può rinascere senza gli anziani, la memoria storica più preziosa che ogni comunità possa avere.

Guarda il video di RepubblicaTV

Sfollata aquilana occupa la sede della Protezione civile di Giulianova

da Il centro, di Sandro Petrongolo

Pendolare da mesi, non ce la fa più Docente aquilana occupa la sede della Protezione civile di Giulianova

GIULIANOVA. Occupa simbolicamente la Protezione Civile per manifestare il proprio disagio che ormai dura da undici mesi: è il gesto disperato di S.E.G., 54 anni, sfollata, docente universitaria aquilana, che tre giorni fa ha deciso di stabilirsi nella sede della Protezione Civile di Giulianova per reclamare un alloggio, atteso da dicembre, che le permetta di continuare a lavorare senza estenuanti viaggi, senza cambiare sei autobus ogni giorno e senza vivere da pendolare l’intera giornata. La donna, che insegna nella facoltà di Lettere della città devastatata dal sisma, non ce la fa più. Chiede una sistemazione stabile, a distanza di quasi 12 mesi dal terremoto del 6 aprile 2009: la sua abitazione, situata nella “zona rossa”, è classificata “E”, quindi totalmente inagile.
Ogni giorno, l’insegnante sfollata per poter raggiungere il posto di lavoro deve dover cambiare fino a sei autobus.
Ogni giorno, per raggiungere Bazzano, dove ha sede la facoltà, e guadagnarsi lo stipendio, S.E.G. vive il suo piccolo estenuante calvario fatto di pranzi frugali, panini, cappuccini e attese alla fermata del bus. Una situazione peggiorata dall’incertezza e dalla mancanza di prospettive, dopo mesi di pellegrinaggio non solo lungo la costa abruzzese: la professoressa di lingue, in seguito al terremoto, è stata ospitata per quattro mesi in un albergo di Vasto. Poi ha trovato una sistemazione autonoma a Penne, per finire, da ottobre, in un hotel di Tortoreto. E lì è rimasta. A ciò si aggiunge la fatica quotidiana per recarsi a lavoro: per essere presente alle 14 nell’università, la donna, sprovvista di patente di guida, deve prendere un primo autobus per Giulianova; da qui uno che la porti a Teramo, poi un altro per giungere all’A quila, nei pressi della fontana luminosa, quindi un bus che la porti al terminal, e da qui un ulteriore mezzo per arrivare, finalmente, a Bazzano. La stessa odissea si ripete la sera, per tornare a casa alle 21.30, da dove l’insegnante si allontana alle 10.30 del mattino. La sfollata ora se la prende con la Protezione Civile. A dicembre le era stato promesso che entro il primo gennaio sarebbe tornata all’Aquila, ma la scadenza è slittata la prima volta all’inizio di febbraio. E poi è slittata ancora perché la donna è single, e quindi non rientrante nel progetto «Case». Così le viene offerto un posto in un albergo di San Demetrio oppure in un hotel a 45 minuti di distanza (per lei che va a piedi) dal terminal autobus. La docente sfollata però non se la sente più di affrontare altre fatiche, così decide di occupare la sede della protezione civile di Giulianova. E la sua diventa una storia simbolo per tanti sfollati.

31/03/10

L'Aquila: dalle prigioni delle C.A.S.E. a quelle delle Costarelle. Nelle c.a.s.e. fermentano disagi e violenza

Da abruzzo 24h

Si è consumato questa notte a L'Aquila un dramma familiare, nell'inedito scenario degli appartamenti del progetto C.A.S.E. di Paganica 2, dove la vita va avanti, nel bene e nel male. Un uomo di 40 anni ieri sera, litiga per l'ennesima volta con la moglie, per motivi economici.

L'uomo ha un attività commerciale nel settore della ristorazione, ma gli affari vanno male, è pieno di debiti, e accusa la moglie di aver bruciato soldi giocando al lotto. Ad un certo punto perde la testa, caccia di casa la moglie e si barrica dentro con i tre figli piccoli, due di 6 e uno di nove anni, e l'anziana madre paraplegica. Intervengono subito gli uomini della squadra mobilie, seguono lunghe ore di trattative. L'uomo lancia oggetti dalla finestra: piatti, vasi di fiori, un barattolo di vernice. Ad un cento punto chiede che da sotto la porta, banconota dopo banconota, gli vengano consegnati 400mila euro, la somma che secondo l'uomo gli dovrebbe restituire la moglie. La sua richiesta scende poi a 20mila euro.

La squadra mobile prende tempo, cerca di non far precipitare la situazione, provvedendo tra le altre cose a sospendere l'erogazione del gas. Ma di far ragionare l'uomo non c'e verso.
Così alle sette del mattino arrivano gli uomini del Nocs, con un'operazione a tenaglia sfondano la porta e la finestra e immobilizzano in pochi secondi l'uomo, di robusta stazza fisica,e con un passato di pugile.

L'incubo per i tre figli l'anziana madre ha finalmente fine. Stanno bene, hanno potuto subito riabbracciare la madre, e due dei tre figli sono anche andati regolarmente a scuola. L'uomo è stato arrestato con l'accusa di sequestro di persona e maltrattamenti.

Commenti:

Qui non dicono, ovviamente, che l’uomo avrebbe sclerato per paura di vedersi tolto l’affidamento dei figli per mancanza di reddito e non dicono che la ricostruzione è affidata alle lotterie e al gioco d’azzardo. Non dicono che intere famiglie sono costrette a vivere, anche con
profondi conflitti, sotto lo stesso tetto, in c.a.s.e. insonorizzate (non senti cosa ti accade intorno, solo fuori la porta di ingresso si sente tutto), dove manca anche il campo e se non hai la rete fissa non puoi neanche telefonare per chiedere aiuto. Non dicono che in queste c.a.s.e. sono costretti a vivere in 6 o in 8 in due o tre stanze + il divano letto. Dove, nonostante l’isolamento, non c’è alcuna privacy dentro casa. Una casa che, per averla, hai accettato di condividere con suoceri, nonni, genitori e magari anche qualche estraneo che hai tirato dentro al nucleo di coabitazione per non esserne escluso, perchè come single o coppia non avevi alcuna possibilità di ottenere un alloggio provvisorio. Molte famiglie, dove i coniugi erano divorziati o separati, per non perdere la c.a.s.a. e l’affidamento dei figli hanno dovuto convivere sotto lo stesso tetto, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Luigia

27/03/10

La doppia lotta delle donne, ieri e oggi

un articolo delle Cassandre felsinee uscito su "Umanità nova" n. 11

Che in questi giorni la CNT spagnola festeggi i sui cento anni con una serie di iniziative sul rapporto tra lotta contro il capitalismo e contro il patriarcato, tra anarchismo e femminismo, è forse il segno di una centralità della lotta femminile in una fase di crisi in cui lo sfruttamento e la precarietà investono con maggior violenza proprio il lavoro e la vita delle donne. Ed è senz’altro significativo che il 20 marzo il tema di dibattito, a metà fra storia e attualità, fosse “Mujeres libres, ieri e oggi”...

* * *

«Ci sono molti compagni che desiderano sinceramente il concorso della donna nella lotta, ma a questo desiderio non corrisponde alcun cambiamento delle loro idee su di essa: desiderano la sua partecipazione come un elemento strategico che potrebbe facilitare la vittoria, senza che ciò li induca a pensare nemmeno per un istante all’autonomia femminile, senza che cessino di considerarsi l’ombelico del mondo. Sono gli stessi che nei momenti d’agitazione esclamano: “Perché non si organizza una manifestazione delle donne?”...».

A mostrare la tenace persistenza di una “questione femminile” anche dentro i movimenti antiautoritari, basterebbe forse questo lucido frammento di dibattito che non risale alla rivolta femminista degli anni Settanta, ma alla Spagna del 1936. Lo si può leggere in una piccola antologia edita a Barcellona nel 1975 da Mary Nash e riproposta in italiano nel 1991 dalle edizioni La Fiaccola: “Mujeres libres. Spagna 1936-1939”: ed è la testimonianza di un’importante esperienza delle donne, lungamente ignorata dalla storiografia femminista e dalle storie del movimento operaio e della guerra civile spagnola.

“Mujeres libres” – rivista e organizzazione femminile di tendenza anarchica – sviluppò la propria attività dal marzo ’36 al febbraio ’39, raccogliendo oltre 20.000 militanti. Si costituì come movimento autonomo nell’ambito del movimento libertario e respinse qualsiasi tentativo che potesse lasciar supporre una sua subalternità o strumentalizzazione. Diversamente dalle organizzazioni e sezioni femminili dei vari partiti comunisti, “Mujeres libres” rivendicava la propria “autonomia organizzativa” e cercò di farsi riconoscere come ramo autonomo dell’anarchismo, al fianco e alla pari con la CNT, la Federación Anarquista Iberica e la Joventud Libertaria. Nell’ottobre del ’38 la richiesta di essere riconosciuta come parte del movimento libertario fu infine respinta perché «un’organizzazione specificatamente femminile avrebbe costituito un elemento di disgregazione e di divisione all’interno del movimento operaio».

Priva di riconoscimenti formali e di un appoggio incondizionato, “Mujeres libres” riuscì tuttavia fin dalla primavera del ’36 a sviluppare un’azione forte e incisiva, organizzandosi come movimento gestito interamente dalla propria base e strutturato in forma federalista su base territoriale. Secondo il femminismo proletario di “Mujeres libres” le donne erano chiamate a una “doppia lotta” (“dobla lucha”): come sfruttate e come oppresse dalle discriminazioni sessiste e dalle costrizioni del familismo. Essendo “doppia”, la lotta aveva dunque bisogno di organizzazioni convergenti ma autonome: liberare la società non significava soltanto sconfiggere padroni e fascisti, ma anche abbattere il patriarcato e ogni forma di autoritarismo maschile. Non si trattava soltanto di difendere un territorio o lo Stato repubblicano, ma di lottare per gli interessi della classe lavoratrice e insieme per l’instaurazione di un sistema sociale più giusto e libero per tutte/i. Nei quartieri proletari le “Mujeres libres” portavano la complessità della lotta antiautoritaria, la pluralità non gerarchizzabile delle contraddizioni (non solo economiche, ma anche sessuali), la necessità di emancipare la donna – scrivevano – «da una triplice forma di schiavitù a cui è stata e a cui continua ancora ad essere sottomessa: schiavitù dell’ignoranza, schiavitù in quanto donna e schiavitù come produttrice».

Oggi, in questi anni di oppressione molteplice, possiamo ben capire la straordinaria vitalità di quell’esperienza remota di donne autorganizzate, autonome e libere. Perché oggi sono forti, come e più di allora, le ragioni di una “doppia lotta” delle donne all’interno dei movimenti di emancipazione sociale: contro lo sfruttamento, la precarietà, le discriminazioni sul lavoro; contro le violenze sessiste ed eterosessiste, l’autoritarismo familista e patriarcale e ogni forma di subordinazione e subalternità.

Non a caso la due giorni “Bagagli per un viaggio delle donne in lotta”, organizzata a Taranto il 13-14 marzo scorsi dalle compagne del Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario, ha ribadito la sfida di promuovere nei prossimi mesi la costruzione di uno sciopero generale delle donne che intrecci la battaglia per il lavoro alla lotta contro la “triplice forma” dell’asservimento femminile. E potrebbe essere forse qualcosa di più di uno sciopero: una mobilitazione permanente, un’utopia di liberazione.


Per approfondire:

Mary Nash, Mujeres libres (Donne libere). Spagna, 1936-1939, a cura di M. Matteo ed E. Penna, Ragusa, La Fiaccola, 1991 (reperibile ormai solo in biblioteca).

Martha A. Ackelsberg, Mujeres libres. L’attualità della lotta delle donne anarchiche nella rivoluzione spagnola, Milano, ZIC, 2005.

Cassandre felsinee

25/03/10

Giovane donna morta sul lavoro

OTTOBIANO, 25 marzo 2010

Non ce l’ha fatta Marta Lunghi. Non ce l’ha fatta l’operaia 22enne rimasta vittima, lo scorso sabato, di un terribile incidente sul lavoro nell’azienda avicola Gerlo di via Vigna Crosio a Pieve del Cairo: la giovane è morta dopo alcuni giorni di agonia al policlinico San Matteo di Pavia. Marta Lunghi era rimasta impigliata in un nastro trasportatore per il confezionamento delle uova. La giovane, residente a Ottobiano al numero 7 di via Gambarana, aveva iniziato a lavorare alle otto. L’infortunio sul lavoro, dall’esito mortale, si era verificato attorno alle nove. Quando Marta Lunghi era rimasta agganciata alla catena della macchina: all’arrivo dei soccorritori, un’automedica da Pavia e una da Voghera, insieme con un’ambulanza della Croce rossa di Mede, la 22enne era in arresto cardiaco. Rianimata per un’ora e mezza, l’operaia era stata portata al policlinico San Matteo. Ricoverata in seconda Rianimazione, il suo cuore ha smesso di battere dopo alcuni giorni di agonia. Troppo gravi le sue condizioni, disperate nonostante il tempestivo intervento degli operatori sanitari coordinati dal 118. Nell’a zienda agricola di Pieve del Cairo erano giunti anche i carabinieri della locale stazione, ma anche gli ispettori dell’Asl, cui spetterà stabilire eventuali responsabilità. «Non sappiamo cosa possa esserle successo - avevano dichiarato i titolari dell’azienda - , l’abbiamo trovata riversa sul nastro trasportatore». La notizia della morte di Marta Lunghi ha lasciato sgomenti tutti coloro, ed erano tanti, che la conoscevano. Ottobiano è in lutto. Il giorno dei funerali non è stato ancora fissato. Gli ispettori dell’Asl dovranno ricostruire la dinamica dell’infortunio sul lavoro di sabato a Pieve del Cairo. Stando a una prima sommaria ricostruzione del tragico incidente, la giovane sarebbe rimasta impiagliata nella catena della macchina per il confezionamento delle uova. Nell’i nfortunio la giovane aveva riportato delle lesioni gravissime. Tra le ipotesi riguardanti l’incidente sul lavoro, anche quella del soffocamento: il maglione delle 22enne di Ottobiano sarebbe rimasto incastrato nel nastro trasportatore, causandone l’asfissia.

05/02/10

CALAMITA’ PADRONALI

l’Aquila, Messina, Haiti: “non sono le calamità naturali a uccidere”, confessano i media padronali, “ma la mano dell’uomo”. E con questa approssimazione dovremmo abituarci ad accettare gli orrori del sistema capitalistico come ineluttabili, come facessero parte della natura umana, come se fosse la natura a governare il sistema e non il contrario. Le vittime diventano colpevoli e complici al tempo stesso, da reprimere se si autorganizzano per far fronte in maniera autonoma a eventi disastrosi e delittuosi come queste calamità, che sono sempre meno naturali e sempre più padronali.

“E’ una città di cartapesta, che è andata tutta distrutta… Così si sbriciolano i palazzi dei poveri, dove è normale mettere una buona percentuale di sabbia nel cemento per risparmiare…Non sapremo mai quanta gente ha perso la vita in quelle baracche”. Così scrive Repubblica sul terremoto di Haiti. “Lasciatemelo dire, è andata bene. Il mattino del 6 aprile abbiamo pensato che i morti del terremoto potessero essere fra i 1500 e i 2000. Per fortuna invece, nonostante sia sempre doloroso, le vittime sono state 300”. Così parla Berlusconi a proposito del terremoto dell’Aquila, dove è lecito chiedersi il perché di tali aspettative da parte del premier e dei padroni che rappresenta.
Berlusconi sapeva, la protezione civile sapeva, la Regione sapeva, l’Adisu sapeva, anche la procura sapeva e il sindaco dell’Aquila, che presenziò alla riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo insieme a membri della protezione civile nazionale e locale, funzionari della Regione ecc. Quella commissione avrebbe dovuto approntare un immediato piano di evacuazione e mettere in allarme i cittadini invece di rassicurare, per bocca del prefetto, la popolazione che chiedeva sicurezza e denunciare il tecnico Giuliani per procurato allarme.
Ora il tecnico Giuliani è stato assolto, le sue indagini su una correlazione diretta tra accumulo di radon e terremoti ritenute attendibili. I cittadini e i famigliari delle vittime hanno denunciato la Commissione Grandi Rischi per mancato allarme, omicidio colposo plurimo e lesioni gravi.
Le inchieste sui crolli coinvolgono, naturalmente, anche progettisti e costruttori, molti dei quali ormai deceduti e i famigliari delle vittime dovranno accontentarsi di qualche capro espiatorio ancora in vita, perché è un intero sistema politico-affaristico da mettere alla sbarra, un intero sistema economico da processare. E un processo del genere non può avvenire attraverso la giustizia borghese, questa non può processare sé stessa.
E’ questo sistema economico che mercifica tutto: la vita, la salute, la sicurezza, l’ambiente. L’attuale conversione della protezione civile italiana in s.p.a. è la normazione, emblematica, di quest’aberrazione. Ora chi ha preso denaro pubblico per costruire opere insicure, chi ha taciuto affinchè crollassero, senza farsi scrupolo delle possibili vittime, gode di promozioni e riconoscimenti e continua a prendere soldi pubblici per ricostruire. Il profitto, il business della ricostruzione è sempre stato il movente della guerra dei padroni. I mass-media parlano ancora di calamità naturali, ma in tardissima serata su rai 3, nonostante il black-out informativo, si comincia a parlare di “terremoti di classe”, di calamità (alluvioni, terremoti ecc.) che provocano tanti più danni quanto maggiore è la povertà, lo sfruttamento degli uomini e dell’ambiente e la speculazione edilizia. La sicurezza si paga in soldoni, i poveri la pagano con la vita.
Questo è successo ad Haiti, a Messina e all’Aquila, dove chi voleva lasciare la casa dello studente perché fatiscente, non l’ha fatto per non perdere la borsa di studio, dove abbiamo visto gli aiuti trasformarsi in businnes e corruzione sulla pelle di terremotati sempre più poveri, i soccorsi in stato di assedio e di polizia, le tendopoli in lager, l'emergenza in dittatura e profitto per i padroni.
Parlano demagogicamente di sicurezza per scatenare la rabbia dei proletari italiani contro gli immigrati, del progetto C.A.S.E. come un vero miracolo della banda Berlusconi-Bertolaso, del modello “L’Aquila”, della protezione civile italiana come esempio per tutto il mondo.

Ma quale sicurezza? Ma quali miracoli berlusconiani?

Alla casa dello studente mancava un pilastro, mancavano le staffe, il calcestruzzo era di cattiva qualità, le colonne erano intrise di umidità, c’era un piano seminterrato abusivo, sull’ala distrutta gravava il peso di travi e pannelli solari che ne metteva a rischio la stabilità, non c’era una scala di emergenza e quella che c’era non era ben ancorata al resto dell’edificio ed è crollata, le crepe segnalate più volte dai ragazzi venivano ogni anno rattoppate senza alcun controllo di stabilità. Nessun adeguamento al rischio sismico, neanche durante la ristrutturazione, è stato eseguito, nonostante si sapesse che quell’edificio non era a norma, che quell’edificio sarebbe comunque crollato anche senza un terremoto. Il vero miracolo è che quell’edificio abbia retto fino al 6 aprile 2009!
Il progetto C.A.S.E., fiore all’occhiello dei padroni assoluti, dell’auto-premiata ditta Berlusconi & Bertolaso fa già acqua da tutte le parti: ci piove dentro, le tubature col gelo si spaccano, fughe di gas e vie di ingresso sbarrate dal fango, bulloni, pensiline e altri componenti metallici spazzati via dal vento. Il vero miracolo è stato far arrivare un’ambulanza alla piastra 9 di Pagliare di Sassa! Il vero miracolo, per i fortunati che risiedono in quelle case, è trovare un tecnico del progetto C.A.S.E. che dalla Lombardia venga all’Aquila per risorvergli un problema!
Il vero miracolo è che il terremoto è avvenuto di notte e prima di pasqua, dopo essersi fatto sentire per 4 mesi, altrimenti avrebbe fatto molte più vittime tra studenti, impiegati e lavoratori pendolari!
Il vero miracolo è spiegare come è possibile che l’ospedale, la prefettura, i centri nevralgici della gestione dell’emergenza in un territorio ad alto rischio sismico siano potuti crollare!
Il vero miracolo sono i lavoratori immigrati che lavorano al progetto C.A.S.E.: sono ancora vivi, nonostante siano costretti a vivere in condizioni disumane, precarie e di supersfruttamento! Sono le lavoratrici che puliscono quelle C.A.S.E., lavorando 11-12 ore di seguito (a volte dalle 7 del mattino fino alle 2 di notte) senza acqua né luce per 5 euro l’ora!
Sono gli sfollati, il 70% dei quali non è stato beneficiato dal progetto C.A.S.E. e vive ora decimato tra gli alberghi (pagati profumatamente con soldi pubblici fino a luglio 2010), abitazioni dentro e fuori regione messe a disposizione da parenti o amici o nelle proprie case inagibili, mettendo a repentaglio la propria sicurezza perché non hanno i soldi per riparare le proprie case o per pagare un affitto. Sono, non dimentichiamolo, gli oltre 16.000 terremotati senza un lavoro, i 4.500 cassaintegrati dell’industria, gli 8.000 precari senza sussidio.
Il vero miracolo sono gli studenti invisibili dell’Università dell’Aquila, che continuano ad essere tali anche dopo il terremoto. “In 20.000 si sono iscritti quest’anno” dichiara il rettore, ma dove sono?
Sarebbe un miracolo spiegarlo, pochi avranno la “fortuna” di alloggiare nella nuova casa dello studente, costruita con soldi pubblici ma di proprietà della curia, come la nuova residenza del vescovo! Gli altri non sanno dove alloggiare, sperduti nei paesini a fare i pendolari o a casa propria i fuori sede.
Il vero miracolo è che questi studenti riescano ancora a studiare con profitto in queste condizioni!
Ma si sa, i miracoli li fa solo Dio e i suoi ministri e il neoministro in pectore Guido Bertolaso ha voluto sostenere i poveri e le donne di questa città, regalandone un altro bel pezzo alla curia per una nobile causa: costruirvi, sempre con denaro pubblico, il nuovo complesso religioso del frati minori con tanto di mensa dei poveri, convento, chiesa e alloggi per madri in difficoltà, tutti ovviamente a gestione ecclesiastica. Ma bisognava pur rimpinguare le povere casse del Vaticano! Altro che laicità, altro che mense popolari e case delle donne o dello studente, altro che beni comuni, altro che sicurezza, altro che miracolo italiano! A noi “comuni mortali”, di comune e di sicuro spetta solo la mortalità e la precarietà.

A padroni, mafiosi e vaticano vanno affari di miliardi del miracolo italiano!

5.02.2010
Luigia, per una rete di soccorso popolare

01/10/09

Cie, sangue e lividi a Gorizia: "E' stata la polizia". Il video dei pestaggi




di Gabriele Del Grande


Finalmente cattivi. Qualcuno deve aver preso sul serio le parole del ministro Maroni. E le ha applicate alla lettera. Almeno a giudicare dal numero di ematomi che si possono contare sui corpi degli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca d’Isonzo. Siamo in provincia di Gorizia, a due passi dalla frontiera slovena. I fatti risalgono a lunedì scorso, 21 settembre. Ma le prove sono arrivate soltanto ieri. Si tratta di un video girato di nascosto all'interno del Cie e diffuso su Youtube. È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano sul volto tumefatto di un detenuto tunisino.

«Guarda il polizia» ripete indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull’inguine, ha il volto sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti non sanno come difendersi e scappano gridando «No, no!».

Ma cosa è successo davvero quel giorno? «Al Cie di Gradisca non c’è stato nessun pestaggio – dice il capo di Gabinetto della prefettura di Gorizia, Massimo Mauro -, anzi l'unico a essere stato ricoverato è stato un operatore di polizia che si è preso un calcio in una gamba». Ma allora qualche tafferuglio c'è stato, dunque. La versione della Prefettura parla di un tentativo di fuga di una trentina dei reclusi, la notte del 20 settembre, sventato dal personale di vigilanza senza particolari momenti di tensione. I problemi – continua Mauro – sarebbero arrivati intorno alle 13.00, quando un gruppo di trattenuti avrebbe rifiutato di rientrare nella camerata dopo il turno della mensa, «inscenando una protesta e lanciando bottiglie di plastica vuote contro il personale di polizia» che avrebbe quindi provveduto a farli rientrare con la forza. Le immagini diffuse su Youtube, Mauro non le ritiene attendibili. Chi dice che sono state a Gradisca? E chi dice che non sia materiale vecchio riciclato a uso e consumo di qualche associazione antirazzista?

Versione tutta diversa arriva da un detenuto di Gradisca, che abbiamo raggiunto telefonicamente. Per motivi di sicurezza non sveleremo la sua identità. Questa persona non soltanto ci ha confermato che il video era stato girato in quei giorni. Ma ci ha anche descritto nel dettaglio il tipo di ferite che si vedono nelle riprese. La sua versione dei fatti coincide con quella della Prefettura per quanto riguarda il fallito tentativo di evasione la notte e il rientro pacifico nelle camerate all’alba. Il resto però è tutta un’altra storia.

Alle 13.00 sarebbe iniziata una irrispettosa perquisizione. «Hanno rotto i carica batterie dei telefoni, a alcuni hanno tagliato i vestiti, e in una camerata hanno strappato un Corano». Un gesto quest’ultimo che avrebbe provocato l'ira dei detenuti, che hanno cominciato a inveire contro la polizia. «In una camerata hanno rotto le finestre e cominciato a lanciare cose». Finché polizia e militari hanno deciso la carica. Nelle camerate numero tre, due e sei. Alla fine della rivolta, secondo il nostro testimone, 12 persone sarebbero finite in ospedale. E in ospedale tornerà il detenuto tunisino con l'occhio tumefatto. Lunedì ha un appuntamento per un'operazione, all'ospedale di Udine.

Chi ha ragione? La Prefettura? I detenuti? È presto per dirlo. Anche perché i detenuti vittime delle violenze si sono detti pronti a sporgere una denuncia. E in quel caso sarebbe un giudice ad avere l’ultima parola.

12/08/09

Giovane marocchina si suicida perché clandestina

Giovane marocchina si suicida perché condannata alla "clandestinità"

Bergamo, 7 agosto 2009. Nel Bergamasco la condizione degli immigrati "irregolari" è assolutamente disperata. Attivisti del Gruppo EveryOne hanno avuto modo di incontrare, nei giorni scorsi, numerosi "clandestini" provenienti soprattutto dall'Africa, constatando una vera e propria tragedia umanitaria. Donne incinte che non si recano in ospedale e malati gravi che non accedono più alle cure sanitarie, per timore di essere denunciati e deportati. Genitori che nascondono i bambini, per timore di perderli, in quanto impossibilitati a registrarli e ad offrire loro condizioni di vita sufficienti a evitare che le autorità li sottraggano loro. Sospetti casi di Tbc e altre malattie contagiose, fra cui l'influenza A/H1N1: malattie che si diffondono fuori controllo, perché i migranti non si recano presso le strutture sanitarie. Sui bimbi, inoltre, non possono essere eseguite la vaccinazioni obbligatorie dell'età evolutiva: antidifterite, antitetanica, antipolio e antiepatite B né quelle raccomandate dalle Istituzioni sanitarie: antimorbillo, antirosolia, antiparotite e antipertosse. In questo clima di persecuzione, che vede tanti nuclei familiari vivere nascosti come la famiglia di Anna Frank durante l'Olocausto, si registrano già diverse vittime. Bambini nati in condizioni igieniche terribili. Malati gravi che si spengono fra atroci sofferenze, privati di ogni terapia. Persone fragili che scelgono di togliersi la vita, le cui morti sono spesso imputate a "incidenti" dagli inquirenti che non vogliono sentir parlare di persecuzione etnica.
La giovane marocchina F.A., 27 anni, si è uccisa ieri gettandosi nelle acque del fiume Brembo, a Ponte San Pietro (Bergamo). Si è suicidata perché era clandestina, non riusciva a regolarizzarsi ed era consapevole che con la legge n. 94/2009 sulla sicurezza, la sua presenza in italia sarebbe diventata un reato, che l'avrebbe condannata a vivere senza diritti, in attesa della deportazione. Il corpo della giovane è stato notato da alcuni passanti ieri sera, sotto il ponte del centro storico. Il fratello della ragazza, Mohammed, che ha un regolare permesso di soggiorno e vive a Ponte San Pietro, ha raccontato il dramma della sorella, dramma che l'ha condotta a una depressione senza uscita. "Era terrorizzata dalla scadenza di domani, giorno in cui la clandestinità diventa reato," ha detto fra le lacrime, incapace di accettare l'ennesima tragedia causata dal razzismo istituzionale.

19/06/09

Milano - Finanzieri stuprano prostituta

fonte: repubblica

I due militari di 25 e 30 anni, del gruppo pronto impiego, sono indagati per violenza sessuale. Oltre al fermo per stupro, la contestazione di un'altra mezza dozzina di reati: fra questi il peculato, l'omissione di atti d'ufficio, l'abuso di potere e l'abbandono di posto, che da solo comporta fino a tre anni di carcere

Hanno accostato con la pattuglia di servizio. Un normale controllo antiprostituzione, all'apparenza, uno dei tanti previsti dalle ordinanze del Comune. Il cliente, impaurito, ha fatto scendere la ragazza, ha messo in moto ed è sgommato via. Lei, romena, una ventina d'anni, davanti ai due uomini in divisa grigia e basco verde era pronta a recitare la solita formula: «Non ho documenti, non ho un fidanzato, qui si lavora poco, la multa non so come pagarla». Invece di vedersi recapitato il verbale da 450 euro, la lucciola è stata invitata a seguire il capopattuglia in auto. Qui è stata costretta a un rapporto orale, poi ancora a un rapporto completo mentre l'autista, fuori, voltava lo sguardo da un'altra parte.

Adesso i due militari di 25 e 30 anni, del gruppo pronto impiego della guardia di finanza, sono indagati per violenza sessuale. Ore 2 di lunedì notte, viale De Gasperi, oltre la circonvallazione esterna. Tra le viuzze laterali dello stradone che porta all'i mbocco dell'Autolaghi e dell'A4 c'è la solita attività notturna di prostitute e clienti. La Fiat Bravo blu notte con bande laterali verde e gialla punta i fari su un'auto in sosta isolata. Dal finto controllo all'aggressione della lucciola, è un attimo. Lo stupro si consuma in meno di mezz'ora. La ragazza è scossa, si produce in un pianto ininterrotto, disperato. L'autista della pattuglia, racconterà più tardi la ragazza alla polizia, le si avvicina senza dire nulla e senza saper bene se per consolarla o filar via in fretta. Quando la pattuglia delle Fiamme gialle rimette in moto, ci sono un paio di compagne di marciapiede attorno alla ragazza. Raccolgono i suoi singhiozzi. Una di loro prende la targa della pattuglia e fa il 113.

Agli agenti delle volanti la ragazza fa un racconto dettagliato, lucido, prima di essere portata al soccorso violenze sessuali della Mangiagalli per le visite di rito, il tampone e il referto. I due finanzieri vengono portati in questura di prima mattina, la loro auto parcheggiata nel piazzale e a disposizione della scientifica per i rilievi. Dopo qualche titubanza, il graduato e il sottufficiale ammettono: «Abbiamo fatto una cazzata».

La loro posizione, tralasciati gli ovvi imbarazzi di Questura e comando provinciale della Gdf, è delicatissima. I due militari rischiano, oltre al fermo per stupro, la contestazione di un'altra mezza dozzina di reati. Tra questi il peculato, l'omissione di atti d'ufficio, l'abuso di potere e l'abbandono di posto, che da solo comporta una pena fino a tre anni di carcere. Oltre a uno scontato provvedimento disciplinare --- e la «piena collaborazione» con la magistratura, fanno sapere i vertici milanesi delle Fiamme gialle --- e a un possibile approfondimento d'indagini per verificare se i due militari avessero già commesso violenze in passato.

(16 giugno 2009)

02/06/09

Teramo, denuncia la Asl per una gravidanza indesiderata

Ad una donna di Tortoreto era stata negata da diversi centri sanitari del teramano la pillola del giorno dopo. Si è così verificata una gravidanza non voluta affrontata in solitudine dato che il partner non ha voluto riconoscere il bambino. La donna ha così citato in giudizio l’Azienda Sanitaria chiedendo un risarcimento danni di 500mila euro.

di Cinzia Rosati

TORTORETO - Nessun medico vuole prescriverle la pillola del giorno dopo e cita in giudizio la Asl di Teramo per la gravidanza non voluta.

Una donna di 37 anni di Tortoreto chiede 500mila euro di risarcimento all'Azienda Sanitaria poichè per un medicinale negato ha dovuto suo malgrado intraprendere un non voluto percorso di maternità, per di più in solitaria dato che il partner non ha rconosciuto il bimbo nato.

La vicenda risale a tre anni fa, quando durante un rapporto sessuale, la rottura del preservativo causa la dispersione del liquido seminale. Da qui la successiva richiesta in numerosi centri sanitari della zona di rilasciare alla donna la pillola del giorno dopo, che è stata puntualmente negata per motivi di obiezione di coscienza.

In base a quanto raccontato dalla trentasettenne, a negarle il farmaco sarebbero stati la guardia medica di Tortoreto, il Pronto Soccorso di Giulianova e il reparto di Ginecologia dove era stata successivamente indirizzata, e la guardia medica di Giulianova. Solo dopo alcuni giorni un ginecologo le avrebbe prescritto la ricetta per la pillola, il cui effetto però era ormai vanificato. Il medicinale infatti, deve essere assunto entro le 72 ore consecutive al rapporto sessuale.

La donna ha vissuto in ansia 28 giorni sperando di non essere rimasta incinta, ma i fatti sono andati diversamente. Oltre ad aver dovuto affrontare una gravidanza indesiderata, non ha potuto contare nemmeno sul supporto economico e psicologico del padre del bambino, che non ha voluto procedere al riconoscimento.

«Il ritardo con cui la sanità pubblica le ha prestato soccorso per interrompere la gravidanza prima della formazione del feto - si legge ancora nella denuncia - è stato deleterio». Una omissione considerata grave ed ingiustificata da parte della donna che ha deciso, ora, di chiedere un risarcimento danni all'Asl di Teramo di 500 mila euro poiché dalla vicenda ha subito «un danno morale, biologico, esistenziale, patrimoniale e di vita di relazione».

Le parti di incontreranno in Tribunale per la prima udienza il prossimo 17 giugno.

29/05/09

«Utilizzano i nostri figli morti sotto le macerie a scopo elettoralistico»

Dall'Unità, 28 maggio 2009
di Mariagrazia Gerina

«Mio figlio era uno studente universitario ed è morto sotto le macerie, cosa c’entra questo con la campagna elettorale?», si ribella Paolo Colonna all’idea della cerimonia già apparecchiata per domani mattina. Quando il presidente del Consiglio sarà per l’ennesima volta a l’Aquila per consegnare alle famiglie degli studenti morti sotto le macerie una laurea honoris causa.

Quella onorificenza il signor Paolo Colonna non la vuole. E tanto meno la vorrebbe dalle mani del presidente del Consiglio. «Cosa c’entra? Stanno utilizzando i nostri figli a scopi elettoralistici. Non posso accettarlo. Stiamo parlando di ragazzi di vent’anni morti perché facevano il loro dovere di studenti. Come si fa a utilizzarli per prendere qualche voto in più?», ripete con rabbia il signor Paolo Colonna. Tanto più ora che ha saputo che a quella cerimonia parteciperà anche Berlusconi. Nessuno glielo aveva detto.

All’invito del rettore lui e le famiglie di altri sette studenti morti nel terremoto avevano già risposto di no. Il perché lo spiegano in una lettera al rettore firmata con i nomi dei loro figli. «Quella laurea - scrivono - è solo un blando tentativo di chiudere una tragica parentesi che ha sconvolto la nostra esistenza».

Secondo un rapporto della Protezione civile che risale al 2006 - scrivono Paolo e gli altri genitori degli studenti vittime del terremoto - molti edifici pubblici e tutte le facoltà universitarie avevano gravi problemi strutturali e avevano bisogno di essere ristrutturate. «Quegli studi sono stati fatti nel 2006 e sono rimasti nei cassetti dell’amministrazione», denuncia con rabbia il signor Colonna: «Tutti sapevano, solo noi non sapevamo. Se lo sapevamo i nostri figlio li tenevamo a casa».

Suo figlio, Tonino, studiava ingegneria. Non abitava nella casa dello studente, ma in una delle palazzine di via Luigi Sturzo. Nel fine settimana era stato a casa, dai suoi, a Torre de’ Passeri, un paesino dell'Abruzzo. Ma lunedì mattina aveva lezione presto. Perciò la domenica è tornato e il terremoto l’ha sorpreso a l’Aquila nel suo appartamento di studente.

«Siamo stati noi a tirarli fuori dalle macerie», racconta il padre, che, quando ha cominciato a intuire cosa poteva essere accaduto a l’Aquila è corso da Torre de’ Passeri: «Sul posto c’erano dei ragazzi che scavavano, non c’era la Protezione civile, non c’era nessuno, loro sono arrivati solo diverse ore dopo».

Da quel momento in poi per il signor Colonna è tutto un percorso a ritroso, a cercare le responasbilità, quello che poteva essere fatto e non è stato fatto. Trasportato all’ospedale San Camillo di Roma, Tonino non ce l’ha fatta. «È stato il terremoto ad ucciderli», ha spiegato alla famiglia il preside della facoltà di Ingegneria quando ha chiamato a casa per invitarli alla cerimonia di domani. «Ma i nostri figli sono morti perché facevano il loro dovere di studenti, ma il proprio dovere qualcuno non l’ha fatto», insiste il signor Colonna: «Le scosse erano iniziate a ottobre e il 30 marzo alle tre e mezzo c’era stata una scossa del quarto grado: i ragazzi stavano facendo lezione e sono usciti all’aperto. Perché non hanno deciso allora di chiudere l’università?». «Quando ho chiesto al preside della facoltà di mio figlio se poteva dirmi che i nostri figli andavano a lezione in strutture sicure non mi ha replicato nulla».

Ecco è per questo che ora Paolo e gli altri genitori dei ragazzi morti sotto le macerie come suo figlio non vogliono quella laurea honoris causa. Tanto più ora che hanno saputo che, a una settimana dalle elezioni europee, sarà il presidente del Consiglio a consegnarla personalmente ai presenti. «Vuol dire che moralmente abbiamo proprio toccato il fondo e io non ci sto», dice Paolo, che però se riuscirà, proverà lo stesso domani con le altre famiglie "ribelli" a intervenire per spiegare le sue ragioni anche durante la cerimonia. «So già che non mi faranno entrare, ma se ci saranno anche gli altri ci proverò lo stesso».

Terremoto all'Aquila: i genitori degli studenti vittime rifiutano la laurea honoris causa

Da Abruzzo24ore
Con compostezza e gran dignità i genitori dei ragazzi vittime del crollo della Casa del studente rifiutano la laurea honoris causa che oggi avrebbero dovuto ricevere, in una struggente liturgia ripresa da truppe cammellate di telecamere, per mano del Rettore magnifico e alla presenza nientemeno che del Presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Non sanno che farsene di una pergamena arrotolata grondante di retorica, i genitori di Michele Strazzella, Enza Terzini, Tonino Colonna, Luca Lunari, Marco Alviano, Angela Cruciano, Luciana Capuano, Davide Centofanti.


Loro chiedono solo giustizia, e che chi ha sbagliato paghi e al limite vada in galera il prima possibile.

Peccato per il premier: sarebbe stata una bella botta d'immagine, in giorni in cui viene in mezzo mondo accusato di aver flirtato, lui ultrasettantenne e sposato, con una ragazzina. Un diversivo di marketing politico dopo le dichiarazioni roboanti come l'abbattimento del numero dei parlamentar.

" Va ricordato - spiegano i genitori al quotidiano Il Centro - che durante l’attività sismica che andava avanti da circa sei mesi nessuno si è preoccupato di sospendere la normale attività didattica nelle facoltà, sottoponendo gli studenti ad un notevole stress psicofisico. Alla facoltà di Ingegneria ad esempio», precisano, «erano in programma lezioni ed esami nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì della settimana di Pasqua. La prevenzione è stranamente scattata dopo i catastrofici eventi sismici del 6 aprile, visto che molte facoltà sono state trasferite in alcune città abruzzesi. Basta solo questo per ribadire che noi rifiutiamo l’assegnazione del titolo di laurea.

Intanto il Comitato familiari vittime Casa dello studente si dice intanto sconcertato dalle dichiarazioni dell'ex presidente Adsu Luca D'Innocenzo, rese alla stampa a margine del suo interrogatorio in Procura, e chiede a gran voce le sue dimissioni anche da assessore comunale con delega all'Università.

Il 31 marzo, spiegano i genitori, D'Innocenzo asserisce di aver consegnato agli studenti un questionario nel quale si chiedeva agli stessi se ritenessero sicura la sede, come se fosse una questione di impressioni soggettive. D'Innocenzo, incalzano, sapeva delle crepe e della colonna fradicia che troneggiava in sala mensa, al contrario di quanto ha detto ai giudici. Sapeva dello studio di Collabora Engineering, sui rischi di criticità degli edifici pubblici, tra cui la casa dello studente, perchè fu l'Adsu a consegnare la cartografia dell’immobile. Soprattutto non ha mosso un dito per far uscire gli studenti da quella casa di cartapesta, nonostante avvertimenti degli stessi studenti, e tre mesi di scosse sismiche.

Concludono i genitori: "Può un dirigente che non sa, non vede, non sente, rappresentare i cittadini attraverso uno degli assessorati più impegnativi e delicati, le politiche sociali, con, ironia della sorte, delega alla Città degli Universitari?"

NEL VIDEO DICHIARAZIONE DI ANTONIETTA CENTOFANTI, COMITATO VITTIME CASA DELLO STUDENTE

22/05/09

Carceri italiane - Abusi sessuali, aborto, suicidio e scabbia


Abusi sessuali su detenute da parte dei secondini, aborto in carcere

Accuse confermate anche da alcuni agenti sentiti come testimoni Inchiesta della Procura su presunti abusi sessuali sulle detenute in cambio di agi e maggiore libertà. Una donna è stata costretta ad abortire dopo essere stata messa incinta dall'uomo che la doveva sorvegliare. Indagati quattro agenti.

21 maggio 2009
Genova - Ci sarebbe anche un aborto tra gli episodi al centro dell'inchiesta della procura di Genova sui presunti abusi sessuali sulle detenute in cambio di agi e piu' liberta' nel carcere di Pontedecimo.
A confermare il fatto, secondo quanto riferito dal 'Secolo XIX', ci sono le testimonianze sia delle detenute che degli agenti 'puliti', che nel corso degli interrogatori avrebbero parlato di una donna costretta ad abortire dopo essere stata messa incinta dall'uomo che la doveva sorvegliare. L'ipotesi di reato formalizzata dal procuratore capo, Francesco Lalla, e' pesantissima: concussione, dove il prezzo del presunto ricatto imposto dagli agenti in questo caso era il sesso.
Sarebbero gia' quattro le persone iscritte nel registro degli indagati - fra loro il poliziotto coinvolto nell'aborto - al termine di una prima fase d'inchiesta condotta dalla sezione giudiziaria della Polizia di Stato.
Otto gli appartenenti alla Penitenziaria ascoltati in questi ultimi giorni come persone informate sui fatti. E con loro
sono state interrogate almeno tre detenute ed ex detenute. Una e' stata fatta arrivare, sotto scorta dal carcere di Napoli dove si trova attualmente. Le altre due si trovano tuttora a Pontedecimo. Le loro confessioni, sulle quali il segreto e' assoluto, si aggiungono a quelle della presunta vittima, Z.E., la marocchina di 28 anni che sconta una condanna per una storia di maltrattamenti in famiglia.
Adnkronos

Venezia: detenuti protestano, per suicidio e epidemia di scabbia

20 maggio 2009
Venezia - "I soldi non si inventano": risponde così il Provveditore per il sistema penitenziario del Triveneto Felice Bocchino alle notizie di infezioni come la scabbia, contenute nel documento inviato al ministro della giustizia dai detenuti di Santa Maria Maggiore di Venezia. Da alcuni giorni i detenuti manifestano pacificamente, battendo sulle porte di ferro del carcere, per le condizioni di detenzione. Causa scatenante della protesta è stata il suicidio di un detenuto immigrato, ma la protesta verte soprattutto sull’eccesso di presenze. I detenuti sono in tutto 310, il triplo della presenza regolamentare.
Il Gazzettino

01/04/09

Verso lo sciopero delle donne

Verso lo sciopero delle donne

Anche solo considerando i dati dell'Istat, che certo sottostimano il fenomeno, in Italia la violenza di genere è compiuta per il 98% da uomini su donne; in massima parte gli stupratori sono cittadini italiani; la violenza maschile resta la prima causa di morte e di invalidità permanente delle donne. Oggi politici e giornalisti si sforzano di strumentalizzare gli episodi più eclatanti di stupro per legittimare politiche autoritarie e xenofobe. Ma va ribadito che la violenza di genere attraversa verticalmente tutta la società e che stupri e femminicidi non sono che la punta emergente di un fenomeno ben più ampio e stratificato: quello di una generale discriminazione delle donne, nel lavoro, nella vita quotidiana, nella negazione della nostra libertà, nella violazione dei nostri corpi, nella costrizione al silenzio.
Denunciare e contrastare la violenza sessuale non sarà allora sufficiente se non si mettono in questione anche le forme strutturali della discriminazione e del sessismo: la rappresentazione istituzionalizzata del «femminile», le immagini sessiste di Tv, giornali, libri di scuola, ma anche i processi di precarizzazione del lavoro femminile, le disparità di salario e di carriera nei posti di lavoro, l'attribuzione diseguale, solo alle donne, della cura gratuita della casa, dei bambini, degli anziani. Proprio la crescente discriminazione del lavoro femminile diventa, in tempi di crisi economica, il fulcro materiale di un rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne, costrette a lavori malpagati e, di conseguenza, sempre più vincolate alla casa in posizione di subalternità e dipendenza economica.
Solo ora ci si sta rendendo conto della gravità e dell'estensione della crisi finanziaria che sempre più investe e disgrega l'«economia reale» lasciando sul campo milioni di disoccupati. È una crisi che scuote violentemente parametri e assetti consolidati, tanto che c'è chi ha parlato dell'aprirsi di una «nuova fase del capitalismo» dagli esiti imprevedibili. Né è un caso che nei paesi occidentali la «politica per la famiglia» assuma oggi nuova importanza: l'Unione Europea raccomanda a governi e imprese di «sostenere la famiglia» e di «investire nelle risorse umane e nell'uso efficiente del capitale umano».
Certo è che la crisi della globalizzazione neoliberista impone una crescente riterritorializzazione delle economie capitalistiche, il rilancio dei mercati interni, la necessità di ridare reddito per riavviare il ciclo dei consumi. Ma i nuovi «aiuti familiari» comportano un forte risvolto di normatività, di controllo e di disciplinamento della vita delle donne. Concesso dall'alto, in una fase drammatica di tagli e disoccupazione, il reddito assumerà sempre più un valore premiale per chi si identifica con una sorta di «salute nazionale». Le politiche statali mirano oggi a distinguere tra «decorose» famiglie regolari (che riproducono lavoratori-consumatori) e lavoratori usa e getta, non garantiti, da sfruttare al massimo grado. In questo quadro, sono le donne a pagare il prezzo più alto: discriminate sul posto di lavoro, subordinate in famiglia, costrette gratuitamente al «lavoro di cura».
Non si tratta pertanto di cercare risposte in una falsa coesione, ma nelle lotte e nel conflitto sociale promosso dalle donne. Oggi crediamo sia importante creare reti autonome di lotta femminista e forme di autoassistenza sviluppando e potenziando quegli esperimenti che già esistono di economia alternativa, dal basso, solidaristica. Ma occorre altresì interrogarsi sui risvolti disciplinari dei nuovi progetti di Welfare: rivendicare una garanzia di reddito dalle istituzioni («reddito di cittadinanza», «reddito di esistenza», «salario garantito») riesce davvero a contrastare efficacemente le politiche sociali autoritarie? è adeguato portare avanti parole d'ordine che solo ieri apparivano utopiche e ora diventano strumento differenziale di governo e di disciplinamento?
Si pensi solo al progetto del «mutuo sociale per la casa» portato avanti in questi anni dai neofascisti di CasaPound e reso operativo di recente dal sindaco Alemanno. Anziché riproporre l'edilizia popolare o calmierare in qualche modo il mercato degli affitti, il comune di Roma preferisce erogare soldi alle famiglie avvantaggiando chi ha già disponibilità economiche e favorendo insieme la speculazione edilizia dei «palazzinari». Ma chi non ce la fa a pagare l'affitto non potrà certo permettersi di comprare una casa, anche con un mutuo agevolato. Quello del «mutuo sociale» è un programma politico di controllo e di promozione della famiglia italiana, «sana», disciplinata. Lo stesso potrebbe dirsi per la campagna del comitato «Tempo di essere madri», legato a CasaPound, che promuove in questi giorni una proposta di legge per il part-time alle madri lavoratrici italiane mantenendo lo stipendio pieno. Sono proposte del tutto coerenti con il nuovo «neoliberismo nazional-populista». Con una mano deregolamentano il lavoro; con l'altra tendono il pane, ma solo ad alcuni: a coloro che sono capitale umano, madri e padri fedeli al dovere, famiglia sana e perbenista. Queste politiche, infatti, sono basate su una pesante selezione degli aventi diritto e su condizioni inflessibili e ricattatorie per non decadere dagli «aiuti».
Di fronte a una situazione come quella attuale – così simile alla stagione del Novecento che prelude ai grandi totalitarismi europei – pare sempre più necessario un impegno di lotta femminista a tutto campo. Nella riunione nazionale del 24 gennaio, il Tavolo 4 «Lavoro/precarietà/reddito» della rete femminista e lesbica delle Sommosse, ha deciso di lanciare l'idea di uno «Sciopero delle Donne», costruito in modo autonomo dalle lavoratrici, dalle operaie, dalle precarie, dalle disoccupate, dalle giovani, dalle migranti, per denunciare una disparità che perdura e peggiora ogni giorno. Per promuoverlo, l'8 marzo vi saranno in tutt'Italia presidi, sit in, manifestazioni, volantinaggi, assemblee, raccolte di firme, iniziative di protesta, azioni simboliche (vedi http://femminismorivoluzionario.blogspot.com). Non pagheremo la vostra crisi! Non ci piegheremo alle politiche patriarcali che vogliono sottrarci quel poco di libertà che ci siamo conquistate!

Cassandre felsinee del Tavolo 4

15/03/09

Ben fatto, giovane operaia...!!!

“La ragazza violentata era ... furiosa!...Ha quindi impugnato una grossa forbice puntandogliela contro"

Le donne stuprate non sono tutte sono uguali, ci sono vittime e vittime. Qui la vittima è un’operaia e quello che segue il vergognoso articolo di un cronista della Gazzetta di Mantova, che quasi giustifica lo stupro della ragazza per il suo “viso dolce” e il “fisico attraente”

SABATO, 14 MARZO 2009 , Gazzetta di Mantova

Violenza in fabbrica su una 18enne a Ponti sul Mincio, l’aggressore ha chiesto di patteggiare la pena.

PONTI SUL MINCIO. Quella ragazza 18enne dal viso dolce e dal fisico attraente la vedeva tutti i giorni sul posto di lavoro e il desiderio di avvicinarla si faceva sempre più sfrenato fintanto che il 24 luglio di due anni fa non ha più resistito alla tentazione. E si è lasciato andare. L’ha avvicinata toccandole repentinamente il sedere. Ma non si è accontentato. Infatti ha poi tentato di baciarla sulla bocca bloccandole le braccia. La morsa ha funzionato, tant’è vero che è riuscito a baciarla poi sul collo e sul seno. L’uomo ha desistito solo quando la ragazza è riuscita a liberarsi dalla presa dopo averlo strattonato. Ha quindi impugnato una grossa forbice puntandogliela contro. Solo a quel punto l’aggressore si è arreso allontanandosi, perchè ha visto che la ragazza, furiosa, era decisa a tutto. La violenza sessuale - come detto - è stato commessa a Ponti sul Mincio a fine luglio 2007, in fabbrica, da un marocchino, ora 52enne, residente a Roverbella, Id Bahsine Lhassane. Che ieri mattina è comparso davanti al Gup Gianfranco Villani avendo chiesto il pubblico ministero Rosaria Micucci il rinvio a giudizio per violenza sessuale. Il difensore ha avanzato la possibilità di patteggiare la pena. Ha quindi chiesto un aggiornamento dell’udienza, spostata all’8 maggio prossimo, data in cui al marocchino dovrebbe essere applicata la pena, che sarà fissata in accordo con la pubblica accusa. Id Bahsine era stato denunciato dalla stessa vittima di Ponti sul Mincio. Con il patteggiamento della pena può ottenere lo sconto di un terno. Che non è poco tenuto conto della gravità del reato che gli viene contestato, ovvero - come detto - quello di violenza sessuale.

LE LAVORATRICI DISCRIMINATE SU TUTTO

Un articolo apparso il 9 marzo che non fa che confermare la necessità di organizzare una lotta diretta delle lavoratrici e di tutte le donne.
Il Tavolo 4 ha lanciato e sta portando avanti la proposta dello "sciopero delle donne".
Facciamo appello anche alle giornaliste a dare una mano perchè questa campagna arrivi dovunque le donne sono doppiamente sfruttate, oppresse, discriminate.

Le LAVORATRICI DISCRIMINATE SU TUTTO
Eliana Como, Liberazione, 8 marzo 2009

- Il prezzo della crisi e dell'arretramento delle condizioni sociali nel paese è molto alto per tutti - lavoratori e lavoratrici - ma le ricadute sulle donne rischiano di avere una portata persino maggiore
(...)

Allo stesso modo, le misure del governo e della Confindustria - che pure attaccano i diritti del mondo lavoro nel suo complesso - sembrano puntare con particolare accanimento a mettere in discussione i diritti e la libertà delle donne.
In Italia, il tasso di occupazione femminile era - già prima della crisi - tra i più bassi d'Europa.
Da sempre, alle donne vengono offerti i posti di lavoro più precari, meno qualificati e meno pagati; da sempre le loro pensioni sono le più basse.
La crisi economica, oggi, amplifica e drammatizza queste disparità, aumentando le discriminazioni e peggiorando, in tutti i settori e in tutte le aree del paese, le condizioni di lavoro e di vita di moltissime donne.
Nel settore tessile - già duramente provato dalle delocalizzazioni e da una crisi strutturale di lungo periodo - sono molte migliaia le lavoratrici che in questi mesi hanno perso o rischiano di perdere il lavoro.
Nel settore metalmeccanico, sono spesso proprio le donne le prime a entrare in cassa integrazione o a essere licenziate.
Questo avviene perché ancora oggi il lavoro di molte è considerato accessorio e marginale, ma anche perché - già prima - molte di loro avevano una condizione peggiore, sia dal punto di vista salariale che normativo.
Ben prima della recessione, l'inchiesta della Fiom (i questionari sono stati raccolti nei primi sei mesi del 2007) testimoniava una vera e propria questione femminile nel settore.
Su tutti gli aspetti affrontati le risposte delle donne - soprattutto delle operaie - mostrano una condizione di grande fatica e sfruttamento e anche quando va male per tutti, per le donne va comunque peggio.
Già prima della crisi, i loro salari erano i più bassi (in media 200 euro in meno degli uomini); il loro lavoro il meno qualificato (il 70 per cento delle operaie non supera il 3° livello), le loro mansioni più ripetitive e monotone (il 90 per cento delle operaie svolge un lavoro che comporta atti e movimenti ripetitivi), le loro condizioni più precarie (le metalmeccaniche hanno il 25 per cento di probabilità in più rispetto a un uomo di avere un contratto precario, i loro contratti sono più brevi e per contro i percorsi di precarietà più lunghi).
Quelle stesse operaie, oggi sono le prime a perdere il posto di lavoro e saranno anche le prime - nel settore metalmeccanico come negli altri - a subire gli effetti della controriforma del sistema contrattuale.
L'accordo firmato da governo, Confindustria, Cisl e Uil, indebolendo il Ccnl e rinviando gli aumenti salariali all'incremento della produttività, finirà, infatti, per aumentare orari e ritmi di lavoro e allargare i già altissimi differenziali salariali tra uomini e donne.
Anche nel settore pubblico, nella scuola e nella sanità, le donne stanno pagando un prezzo pesantissimo.
I tagli del governo in questi settori significano centinaia di migliaia di posti di lavoro femminile in meno e una riduzione della quantità e della qualità dei servizi pubblici, che, comunque, saranno soprattutto le donne a pagare.
Nel modello stesso di convivenza sociale proposto con il Libro Verde e con la bilateralità, i servizi sociali prima erogati dallo Stato saranno demandati al mercato e alle famiglie, cioè alle donne, a cui quasi interamente è affidato il lavoro di cura della casa, dei figli e degli anziani.
Ha davvero ragione, dunque, la Corte di Giustizia Europea a dire che le lavoratrici italiane sono discriminate.
È chiaro, però, che le cause sono strutturali e riguardano l'impianto sociale e economico nel suo complesso, dal mercato del lavoro ai servizi pubblici; dalla ineguale divisione dei compiti nei nuclei familiari fino ai rapporti nei posti di lavoro.
Far passare come misura anti-discriminatoria l'aumento obbligatorio dell'età pensionabile - ora per le donne del pubblico impiego, domani per quelle del privato - è inaccettabile e di per sé discriminante.
Questo serve soltanto a fare cassa per pagare la crisi e non a aumentare le pensioni delle donne che, se sono le più basse, è appunto perché guadagnano meno, hanno carriere più difficili e percorsi più discontinui (non è un caso che la maggior parte delle donne accede alla pensione di vecchiaia e non di anzianità).
Allo stesso modo, proporre l'eliminazione del divieto al lavoro notturno per le donne in gravidanza e nel primo anno di vita dei figli è criminale e, anche in questo caso, serve soltanto a aumentare la ricattabilità delle donne, non certo i loro salari.
L'8 marzo sia allora anche una occasione per una ripresa di iniziativa e di parola delle donne sui temi del lavoro e della precarietà e per dire al governo e alla Confindustria che non possono cancellare i nostri diritti e non possono limitare la nostra autonomia.