da Daria Bignardi
Lo dice una ricerca: sappiamo «dilatare» il tempo facendo mille cose insieme. Ma a 65 anni, forse, ci godremo la vita. Marito, figli e nipoti permettendo
La donna è diventata soprattutto una creatura da lavoro». Sulla prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 24 settembre, a firma Paolo Di Stefano, è comparso un tema molto caro a questa rubrica, quasi una nuova puntata dell’articolo della settimana scorsa: quello del tempo delle donne. Della loro capacità/necessità di fare/pensare a mille cose nello stesso momento e delle responsabilità (anzi, della mancanza di responsabilizzazione) della società, e specialmente dei maschi, nei loro confronti. Un argomento sul quale ritorno perché mi sembra centrale per la società contemporanea.
«Se la giornata delle donne dura 27 ore», titolava il Corriere, ripreso quella sera da alcuni telegiornali. Scriveva Di Stefano che «una ricerca condotta dalla Camera di Commercio di Milano rivela che tra le qualità che distinguono la donna dall’altro sesso c’è quella di riuscire a dilatare a ventisette ore la propria giornata, cioè a fare mille cose insieme, guadagnando fino a cinque ore sul corso naturale del tempo… Dunque, con la mano destra lavorare al computer e con la sinistra girare il sugo, con un alluce inviare un sms e con l’altro cullare il piccolo, con un orecchio seguire una videoconferenza e con l’altro sorbirsi le rotture del marito, con un occhio controllare gli appuntamenti del giorno dopo e con l’altro verificare le email, badare che non esca il caffè… Dalla padella della schiavitù da famiglia alla brace della schiavitù da iperattività».
Sssschiava! Sono la vostra ssschiava, diceva mia madre sibilando le esse, e noi ridevamo, ma non c’era niente da ridere. Trovo che la ricerca della Camera di Commercio minimizzi: le ore che dedichiamo al lavoro sono di più, perché pensiamo «a quel che c’è da fare» anche mentre dormiamo, che sia un problema in ufficio, il pollo da scongelare o un certificato per la piscina del bambino.
Il tempo libero di una donna con famiglia non esiste più da quando le famiglie italiane ruotano completamente attorno al lavoro delle donne. Per motivi ripetuti fino alla nausea, ma diciamoli ancora. Motivi culturali: perché a una cena tra amici chi si alza a dare una mano alla padrona di casa sono ancora le donne? Motivi sociali: perché sul posto di lavoro manca una seria consapevolezza delle responsabilità imposte dalla maternità? Motivi sociologici: non esiste più il nucleo familiare dove nonni e zii danno una mano, oggi la famiglia è un nucleo isolato, al centro del quale sta una donna che come un sergente impazzito pianifica strategie di sopravvivenza sfiancanti, senza avere il tempo per staccare e ricaricarsi. Non parliamo del tempo di divertirsi, amare, curare le amicizie e i rapporti familiari: questo tempo non c’è, ma le donne lo trovano. Di notte. O mentre fanno cento altre cose.
Alla fine, queste donne cariche di doveri invecchieranno. Le più fortunate avranno una pensione. Le meno fortunate problemi economici e figli difficili e ancora giovani da seguire. Il riposo arriverà dopo i sessant’anni, se lo stress non le avrà troppo logorate, depresse, sfibrate, distrutte. A sessantacinque anni, con un po’ di fortuna, pur combattendo con le loro osteoporosi e periartriti e i loro tunnel carpali infiammati e menischi calcificati, le donne forse potranno dedicarsi ai propri interessi e piaceri. Potranno leggere, andare al cinema, oziare e sognare. E anche se si ritroveranno accanto mariti invecchiati peggio di loro, figli ancora problematici e nipotini ingombranti, troveranno finalmente il coraggio di trascurarli, qualche volta. Di fermare il tempo. E ricominciare a vivere.
Lo dice una ricerca: sappiamo «dilatare» il tempo facendo mille cose insieme. Ma a 65 anni, forse, ci godremo la vita. Marito, figli e nipoti permettendo
La donna è diventata soprattutto una creatura da lavoro». Sulla prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 24 settembre, a firma Paolo Di Stefano, è comparso un tema molto caro a questa rubrica, quasi una nuova puntata dell’articolo della settimana scorsa: quello del tempo delle donne. Della loro capacità/necessità di fare/pensare a mille cose nello stesso momento e delle responsabilità (anzi, della mancanza di responsabilizzazione) della società, e specialmente dei maschi, nei loro confronti. Un argomento sul quale ritorno perché mi sembra centrale per la società contemporanea.
«Se la giornata delle donne dura 27 ore», titolava il Corriere, ripreso quella sera da alcuni telegiornali. Scriveva Di Stefano che «una ricerca condotta dalla Camera di Commercio di Milano rivela che tra le qualità che distinguono la donna dall’altro sesso c’è quella di riuscire a dilatare a ventisette ore la propria giornata, cioè a fare mille cose insieme, guadagnando fino a cinque ore sul corso naturale del tempo… Dunque, con la mano destra lavorare al computer e con la sinistra girare il sugo, con un alluce inviare un sms e con l’altro cullare il piccolo, con un orecchio seguire una videoconferenza e con l’altro sorbirsi le rotture del marito, con un occhio controllare gli appuntamenti del giorno dopo e con l’altro verificare le email, badare che non esca il caffè… Dalla padella della schiavitù da famiglia alla brace della schiavitù da iperattività».
Sssschiava! Sono la vostra ssschiava, diceva mia madre sibilando le esse, e noi ridevamo, ma non c’era niente da ridere. Trovo che la ricerca della Camera di Commercio minimizzi: le ore che dedichiamo al lavoro sono di più, perché pensiamo «a quel che c’è da fare» anche mentre dormiamo, che sia un problema in ufficio, il pollo da scongelare o un certificato per la piscina del bambino.
Il tempo libero di una donna con famiglia non esiste più da quando le famiglie italiane ruotano completamente attorno al lavoro delle donne. Per motivi ripetuti fino alla nausea, ma diciamoli ancora. Motivi culturali: perché a una cena tra amici chi si alza a dare una mano alla padrona di casa sono ancora le donne? Motivi sociali: perché sul posto di lavoro manca una seria consapevolezza delle responsabilità imposte dalla maternità? Motivi sociologici: non esiste più il nucleo familiare dove nonni e zii danno una mano, oggi la famiglia è un nucleo isolato, al centro del quale sta una donna che come un sergente impazzito pianifica strategie di sopravvivenza sfiancanti, senza avere il tempo per staccare e ricaricarsi. Non parliamo del tempo di divertirsi, amare, curare le amicizie e i rapporti familiari: questo tempo non c’è, ma le donne lo trovano. Di notte. O mentre fanno cento altre cose.
Alla fine, queste donne cariche di doveri invecchieranno. Le più fortunate avranno una pensione. Le meno fortunate problemi economici e figli difficili e ancora giovani da seguire. Il riposo arriverà dopo i sessant’anni, se lo stress non le avrà troppo logorate, depresse, sfibrate, distrutte. A sessantacinque anni, con un po’ di fortuna, pur combattendo con le loro osteoporosi e periartriti e i loro tunnel carpali infiammati e menischi calcificati, le donne forse potranno dedicarsi ai propri interessi e piaceri. Potranno leggere, andare al cinema, oziare e sognare. E anche se si ritroveranno accanto mariti invecchiati peggio di loro, figli ancora problematici e nipotini ingombranti, troveranno finalmente il coraggio di trascurarli, qualche volta. Di fermare il tempo. E ricominciare a vivere.
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