Dopo le fiaccole, la promessa
Le fiaccole al buio fanno una grande impressione, e fa ancora più impressione una città che abbassa le sue saracinesche per non disturbare quelle luci. Chi non sapeva ora sa che per combattere la violenza sulle donne e sulle bambine c’è bisogno di qualcosa di più che non le lacrime. Si deve rinunciare a qualcosa e soprattutto scegliere da che parte stare. Chi sta con le vittime non può ascoltare le ragioni della “famiglia” e dell’omertà.
Il fatto che sia stata nominata la criminalità omertosa in relazione alla soppressione di Teresa, ha urtato la sensibilità del Sindaco, che rivendica con ragione alla sua città la militanza contro la camorra
Non se l’abbia a male il Sindaco di Portici, e non vogliamo che se l’abbia a male perché ieri ha fatto la parte che spetterebbe allo Stato, ma i criminali che hanno ucciso Teresa hanno mostrato un fare mafioso che ha non marchio di provenienza geografica.
Essere vittima di violenza sessuata impone (ancora) silenzio di vergogna: una straordinaria analogia col silenzio che (ancora) mantengono le vittime della criminalità organizzata. La vergogna ribaltata sulle vittime è un’altra infamia che si aggiunge alla prima: questo riguarda la politica ed impone comportamenti pubblici che, soli, possono dare il messaggio decisivo che la violenza sessuata è nemica della democrazia.
Bisogna capire che finché “qualcuno per diritto di genere” si sente padrone di corpi e volontà nessun crimine organizzato può essere davvero ricacciato fuori dal corpo sociale. Si possono arrestare i capi e sequestrare le armi, ma l’arma del diritto riconosciuto al più insospettabile “capo famiglia”, che non ha bisogno di munizioni materiali, resta a coltivare nel femminicidio ogni altra ingiustizia e illegalità.
E nessuno può chiamarsi fuori se a Milano una donna viene massacrata in pieno centro a calci e pugni. Quell’uccisione con osservatori paurosi vuol dire che la connivenza omertosa è lì, in un luogo che nemmeno riconosce i segni dell’ingiustizia si cui si fonda: la prima, antecedente alle mafie, per forza antecedente, perché le ha generate.
A Portici non ho visto padrini con la coppola, e non ho visto qualcuno che dicesse apertamente che bisogna tacere, ma qui come a Baghdad e a Teheran c’è una guerra contro le donne, che sfida le cittadine e i cittadini, che sfida i diritti umani. È questo il punto: il femminicidio è ovunque, avvelena, distrugge ma non è “nell’agenda politica” o se c’è, c’è solo per decenza. Quando diciamo della dimensione globale del femminicidio, su cui ancora si fondano gli equilibri, le transazioni e gli affari di Stato, ma non vogliamo essere fraintese: contro questa strage mondiale si comincia “adesso e in questo posto”.
Nessuno può chiamarsi fuori dall’urgenza del contrasto, come non lo ha fatto la città di Portici.
Se qualcuno vuol vedere nel luogo della bellissima ribellione di ieri, un luogo di degrado morale, evidentemente si sbaglia: perché lì ci sono cittadine e cittadini che hanno detto NO al proprio vicino, al proprio concittadino. È un segno: la grande famiglia non protegge, anzi accusa. Chi violenta, intimidisce, uccide è fuori, mentre le vittime sono dentro, e sono vere cittadine di Portici.
Tutto questo significa che non è finita qui, perché dobbiamo ancora dire parole, rischiando di dire tanto da non poter leggere ed ascoltare, perché il silenziamento è millenario.
Dire tanto scandalizzando, anche il Sindaco, per aver osato accostare femminicidio e mafie. Femminicidio e mafie non sono la stessa immondizia, ma è vero che se si uccidono le donne senza avere il marchio mafioso e si uccidono dovunque, è vero che la mafia non esiste senza il dominio e la superiorità padronale dei capi, sui corpi e sulle libertà femminili.
Noi lanciamo un’accusa adesso e da questo posto al nostro Parlamento e ai nostri Governi, perché ci silenziano e, contraddittoriamente, ci sentono, mentre pervicacemente rifiutano di contrastare la violenza che ci colpisce. Noi non cadiamo nella trappola “tutti colpevoli allo stesso modo”.
Bisogna cominciare, e qualcuno deve pur cominciare sapendo che la sua strada lo farà soffrire. Chi comincia è bravo. Chi invece rivendica il suo diritto a infamare donne e bambini, a commerciare e scambiare corpi femminili, propaganda un’infamia che prevede anche le mafie.
Quando abbiamo “scandalizzato”, anche tante donne, pronunciando la parola FEMMINICIDIO ci siamo prese consapevolmente una responsabilità, e continuiamo a prendercela.
Se saremo fraintese ed irrise per l’ultima nostra eresia siamo pronte a combattere per essere capite.
E quando le parole delle donne sono capite e vissute, non hanno bisogno dei media, diventano coscienza. La nostra coscienza, della metà del mondo, sconfessa le caste.
Ieri eravamo tante e tante ci hanno accompagnate da lontano, una ragione di più per dire che non è finito nulla e bisogna continuare adesso e in questo posto, senza dimenticare Teresa continuiamo a combattere per la prossima vittima che può essere salvata.
- Sarah con tutte le bambine rubate ed ingannate, sapendo che qualcuno minimizza i gesti criminali contro di loro, chiamando seduzione quell’incanto e quella tenerezza che dovrebbero invece illuminare il nostro futuro.
- Le migliaia di donne che stanno per essere lapidate per adulterio e disobbedienza, altrove e qui con altre pietre
- Le bambine e i bambini obbligati a sottostare “religiosamente” alle sacre e paterne molestie
- Le donne nelle case trasformate in carceri
- Joy e le altre donne violentate nei “paesi civili” dai tutori delle frontiere
- Le donne che per il loro coraggio di denunciare, lasciare, e che proteggere i loro figli rimangono senza casa e senza lavoro.
Continuiamo a ricordare tra le altre le più dimenticate:
Raffaelina Giulia Gentile
Cristina Messina
Cristina Ionela Tepuru
Francesca Bova
Filomena Rotolo
Costanta Paduraru
Rumina Koni
E TUTTE LE SENZA NOME
Chiudiamo ricordando Rita Atria, perché la sua vicenda ricorda a tutte una storia in cui il primo a tradirla ed imporle l’infamia è stato il padre, prima che padrino. Rita ha voluto coi suoi gesti disobbedire a quell’infamia, ed essere libera. L’arma che l’ha uccisa è stata la solitudine, forse, la causa sempre la stessa: la rivendicazione di essere persona, nonostante la famiglia e contro il clan.
Così ci sentiamo spinte a dire alle figlie o figli, che la loro identità non è per noi legata al crimine commesso su Teresa. A loro deve essere resa la dignità, se la vogliono, di essere persone, prima che figli, mogli e sorelle, e non per questo morire. Per quella dignità non si deve più morire.
Al funerale di Teresa c’era la città, anche chi non poteva materialmente esserci, e comunque tante persone, tante donne che magari non ascoltano né leggono cronaca e politica. Si è respirato l’orgoglio per il valore delle madri e il dolore per una perdita collettiva. C’erano quasi tutti, e avrebbe voluto esserci anche il proprietario del garage, che non ci ha fatto pagare il parcheggio “perché andavamo da Teresa”.
C’erano, la Provincia e il Comune di Napoli, organismi istituzionali e non: forse era difficile non esserci di fronte a una mobilitazione che ha superato i confini di un piccolo comune.
Noi c’eravamo, era quello il nostro posto: questo, per noi, ha il significato di una promessa.
Per tutte le organizzatrici
Stefania Cantatore
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