31/10/10

La donna che denunciò il suo paese

Da Repubblica

La donna che denunciò il suo paese

In libreria "Malanova" di Anna Maria Scarfò con Cristina Zagaria. La storia di una donna del Sud abusata dal branco e condannata dal paese: una donna che ha avuto il coraggio di denunciare tutto. Il libro è edito dalla Sperling & Kupfer (16 euro). Ne pubblichiamo il prologo.

Il cielo tace. La terra accusa. Le case basse del paese premono l'una sull'altra e le voci rimbalzano tra i muri e i coppi. Si danno forza. Subito dopo si frantumano e si infilano sotto la porta. Una alla volta. E tutte insieme. Gemono. "Vai via."
Le minacce segnano il confine. Invadono le strade e divengono vento. Non c'è spazio. Non c'è fuga. Loro sono lì.
"Puttana", gridano.
Anna preme i palmi delle mani sulle orecchie.
"Non è vero", grida lei.
"Puttana", l'urlo del vento è più forte.
Quegli occhi dietro gli scuri. Quei tre uomini fermi nella piazza, sotto la pensilina. La donna sui gradini della chiesa. Il camionista accanto alla statua della madonnina. Quella ragazza alla fontana. Il prete. I vicini di casa. I passeggeri della littorina che arranca sui binari della Calabro-Lucana. Il Cristo all'ingresso del paese.
"Puttana."
Il telefono squilla di notte. L'auto frena sotto le finestre.
Le porte si chiudono.
Madri, mogli, sorelle: sono loro i giudici. Gli uomini ridono.
Ecco il paese.
"È colpa tua."
Ecco la sentenza.
"È colpa tua, vai via."
"Io non ho fatto niente. Dovete ascoltarmi."
"Vai via, puttana."

Primavera 2010. Calabria. San Martino di Taurianova. Qui comincia la storia di Anna Maria Scarfò. Oggi ha ventiquattro anni e vive sotto scorta.


Io
La mia camera ha due lettini, il mio e quello di mia sorella. Oltre i letti c'è solo l'armadio. Un piccolo televisore e lo stereo sono su una mensola, perché non c'è lo spazio per un altro mobile. Le nostre foto sono appese alle pareti.
È una camera molto piccola. Poi ci sono la cucina e la stanza di mia madre e mio padre.
Mia madre si chiama Aurora. E va a fare le pulizie in casa della gente. La pagano cinque euro all'ora. Mio padre lavora nei campi, raccoglie arance a Rosarno. E quando non ci sono le arance da raccogliere fa il carrozziere, ma a nero, cioè lui lavora e il cliente lo paga, ma non ha un'officina sua.
Mio padre quando va a lavorare nei campi si alza alle cinque del mattino. E ci alziamo tutti, anche io e mia madre, per rispetto.
La nostra è una casa popolare.
Il bagno ha la doccia al centro del muro di fronte alla porta, con il pavimento inclinato per far scivolare via l'acqua. Quando ti lavi si bagna tutto, perché non ci sono tende o pareti. Così, quando sei lavata e profumata, devi asciugare il bagno e sudi di nuovo. Ma mia madre è fissata con la pulizia. E se sulle mattonelle rimangono le goccioline, che poi fanno le macchie di calcare, urla.
Eccola, la mia casa. La cucina, due stanze, un bagnetto e una finestra, quella della mia camera, che non posso aprire. Anche se volessi camminare per tenere a bada i pensieri e la paura, non potrei. Non c'è spazio. E così i miei pensieri rimangono qui, assieme alla paura, ora che non posso più uscire di casa.
Prima pregavo. Ora a pregare non ci riesco più.
Domenica si vota, ma io non andrò. Non andrò in chiesa per la benedizione delle Palme. Non faccio la spesa. Non vado al mare. Non ho più bisogni. So solo che non voglio fuggire. Non è colpa mia. So che non ho un altro posto dove andare, così scelgo di rimanere.
Ora ho tanto tempo in casa. Non ho fretta. Non ho meta. Non ho niente. Ho solo il mio passato.
Perché non posso uscire di casa? vi starete chiedendo.
Se provassi a spiegarvelo non capireste. Non si può partire dalla fine con storie come la mia. Però, posso raccontarvi come sono arrivata a questo punto. Ho tempo. Molto tempo.
Posso partire dal principio, da quando ero una ragazzina e tutti mi chiamavano "la bambolina". Mi chiamavano così mia madre, i parenti e anche in chiesa. Avevo le gote sorridenti e gli occhi allegri. Ho le lentiggini sul nasino e un viso smorfiosetto e dolce proprio come una bambola. Un neo al centro della guancia sinistra. Capelli lunghi neri. Lucidi. E poi sono bassa. Sono alta un metro... un metro e cinquanta. Formato bambola.
"Annarella, sei bella come una bambola", mi dicevano tutti. E io ci credevo.
Questa è la storia di una puttana che aveva tredici anni.
Questa è la mia storia. Non è facile scriverla. Né ascoltarla.
Decidete ora se volete continuare a sapere. Ma se cominciate, abbiate il coraggio di ascoltare fino in fondo, come io ho avuto il coraggio di vivere quello che vi racconterò.
Comincerò dall'inizio. Da quando tutti mi chiamavano "la bambola".

Proprietà Letteraria Riservata
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A.
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
(17 ottobre 2010)

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