L’aumento dei femminicidi che ha caratterizzato il primo anno della pandemia non accenna a diminuire. Lo scorso anno 117 donne sono state uccise, una ogni 72 ore. Ad esse si aggiunge un numero imprecisato di tentati femminicidi, violenze e maltrattamenti in famiglia, che molto spesso non vengono denunciati, come accaduto anche 2 giorni fa a Piacenza, dove una donna è stata brutalmente picchiata dal compagno, o a Como il 6 gennaio, dove una donna è stata trovata in tragiche condizioni perché colpita all'addome e al ventre dal marito 41enne con una spada.
Nei primi di gennaio a Reggio Emilia, durante una lite per motivi banali, un 30enne italiano ha massacrato di pugni la compagna, lasciandola a terra priva di sensi. Convinto di averla ammazzata ha chiamato un parente chiedendogli di venirlo a prendere. Quando sono intervenuti, i carabinieri hanno trovato la donna ancora viva, ma con il volto fratturato e gli abiti insanguinati mentre il compagno si era nascosto sotto al letto. Dagli accertamenti sono emersi anche precedenti episodi di violenza.
Sono sempre le donne i bersagli, lo sfogo di questa violenza, che affonda le sue radici nel concetto stesso di proprietà privata e che si estende ai figli, usati e anche uccisi per ricattare, sottomettere, punire le donne per il loro rifiuto di continuare a subirla.
Emblematico il caso di Varese, dove nella notte tra l'1 ed il 2 gennaio, Davide Paitoni, dopo aver ucciso il figlio di 7 anni con una coltellata alla gola, ha accoltellato ripetutamente anche la ex moglie, Silvia Gaggini. «Ti ho voluto dare una lezione» le diceva colpendola, per “punirla” della sua richiesta di separazione dal marito violento. La donna aveva già presentato due denunce per maltrattamenti contro Paitoni, e una terza segnalazione era arrivata alla Procura di Varese da parte dei genitori della donna. L'uomo, oltretutto, si trovava agli arresti domiciliari, per aver tentato di accoltellare un collega lo scorso 26 novembre. Nonostante ciò aveva potuto avvicinarsi all’ex moglie, nonostante ciò aveva ottenuto l’affidamento del figlio per trascorrere il Capodanno con lui.
Ma i femminicidi e gli infanticidi non sempre sono compiuti da uomini che odiano le donne.
In una società, dove il lavoro "improduttivo", di cura, è scaricato integralmente sulle spalle delle donne, dove anche prima della pandemia il diritto alla salute è un privilegio delle classi dominanti, dove non c’è una cultura diffusa della salute pubblica come bene collettivo e dove decidere come porre fine alla propria vita biologica resta un reato, mentre non lo è decidere chi salvare e chi no in base alle aspettative di vita e alla produttività, non è infrequente che uomini anziani uccidano le mogli ammalate perché non ce la fanno da soli a gestire la malattia o/e a vederle soffrire.
E qui si apre un’altra finestra sulla profonda ingiustizia sociale di questo sistema, basato sulla proprietà privata e sulla privatizzazione dei bisogni, su una morale ipocrita e bigotta che va a colpire indistintamente la classe subalterna, ma principalmente le persone fragili, come donne malate e bambini.
Nella serata di sabato 8 gennaio un nuovo dramma si è aggiunto all'elenco dei casi recenti, tre episodi solo nelle ultime settimane: mariti anziani che infieriscono sulle mogli ammalate, una donna che uccide il proprio bambino e tenta il suicidio.
A Livorno un uomo di 83 anni, Enrico Chiellini, ha ucciso con 2 coltellate al torace la moglie di 76 anni, malata e semi inferma, Franca Franchini. Ad accudire quotidianamente la donna era proprio l’anziano marito, anche lui con problemi di salute e prossimo ad un intervento chirurgico al cuore che temeva di non superare. E presumibilmente sono state proprio le condizioni di salute precarie di entrambi i coniugi, che vivevano da soli con un figlio che li seguiva pur non vivendo con loro, che hanno spinto l’uomo ad uccidere la moglie. Secondo le testimonianze si trattava di una coppia tranquilla e affiatata, ma con particolari problemi di salute che spesso richiedevano l’intervento dei vicini quando la donna cadeva e il marito non ce la faceva a rialzarla.
A Casalbordino, Angelo Bernardone, ex operaio metalmeccanico 74enne, ha ucciso sua moglie Maria Rita Conese, 72enne, spingendola giù da un ponte sul fiume Osento: l’uomo non riusciva più a sopportare la condizione della moglie, da tempo malata di Alzheimer.
Ad Amelia, in provincia di Terni, Roberto Pacifici ha sparato alla moglie, Emanuela Rompietti, anche lei affetta da una malattia neurodegenerativa in stadio avanzato, provocandone la morte.
A Torre del Greco Adalgisa Gamba ha annegato suo figlio di appena due anni e mezzo e sembra abbia tentato il suicidio. Alla base del gesto della 40enne, la convinzione, non confermata da un punto di vista sanitario ma maturata dopo una ricerca su internet, che il piccolo fosse affetto da problemi di autismo e che ciò poteva rendere la vita sua e quella della sua famiglia troppo complicata. Una famiglia “riservata e per bene”, che raramente si vedeva uscire insieme. Una famiglia in cui la donna non ha mai accettato il piccolo, fonte “di una gravidanza difficile, di un parto dolorosissimo, di un quotidiano ingestibile, di un definitivo allontanamento del marito che l’avrebbe lasciata sola a gestire tutte le incombenze, anche l'educazione dell'altra figlia''.
Uomini che massacrano le loro compagne per motivi banali, uomini che odiano le donne al punto di uccidere anche i propri figli per “vendetta”, mariti anziani che infieriscono sulle mogli ammalate. E poi una donna, che annega suo figlio e tenta il suicidio per paura di non riuscire a farcela da sola ... C’è un filo nero che lega tutta questa violenza, ed è la violenza di una società che tutela solo il diritto di proprietà. Una violenza che si rafforza con la crisi/pandemia e che solo con l’organizzazione e l’unità delle donne è possibile spezzare.
Di seguito riportiamo uno stralcio conclusivo dell’opuscolo “Uccisioni delle donne oggi”, pubblicato nel 2010, ma ancora, purtroppo attuale, perché riteniamo sia importante per indagare e affrontare la situazione odierna:
“Abbiamo già parlato delle ragioni strutturali, sistemiche che sono a fondo di questa guerra di bassa intensità contro le donne e che creano l'humus di "uomini che odiano le donne".
Ma su un aspetto c'è ancora molto da indagare: il legame tra crisi e femminicidi, e il suo inevitabile rafforzamento.
La crisi, con tutte le sue conseguenze economiche, lavorative, di vita, non porta solo pesanti, drammatici effetti sulle condizioni dei lavoratori, nelle famiglie, ma porta anche un elemento di frustrazione, di sofferenza/devastazione ideologica, che in alcuni casi si trasforma in imbarbarimento dei rapporti umani, e in scarico di queste frustrazioni nella famiglia e sulle donne.
La crisi quindi porta ad un intreccio più stretto tra le difficoltà materiali delle persone, la difficoltà di vivere e, verso gli uomini, la crescita dell'humus maschilista.
Uomini a cui viene tolto tutto, scaricano la loro frustrazione sull'unica "cosa" che loro considerano rimasta come proprietà: la donna. Quando anche questa "proprietà" possono perderla, quando l'ammortizzatore sociale, sia pratico che ideologico, della famiglia si rompe, non lo accettano.
Alla disperazione materiale si aggiunge per alcuni uomini la disperazione di vedersi crollare la loro "dignità di maschi", e più vengono meno le meschine ragioni materiali di questa ideologia maschilista e più cresce l'humus rivendicativo, e l'odio verso le donne che vogliono rompere il loro "giocattolo", e che gli mettono in crisi quelle misere catene di proprietà, a cui si aggrappano.
Questo avverrebbe più conseguentemente nelle famiglie e nei rapporti nella piccola borghesia, ma l'ideologia maschilista imperante in questo sistema sociale, fa sì che avviene sempre più nelle famiglie proletarie da parte di operai, lavoratori, disoccupati, ecc. Come è scritto in questo opuscolo: "... La famiglia, soprattutto proletaria, è il luogo centrale in cui si gestisce un’economia sociale sempre più misera, si amministrano i salari sempre più ridotti o inesistenti, si gestiscono gli aumenti del costo della vita. La famiglia proletaria garantisce nella fase di attacco, di crisi, di attutire l’impatto devastante di queste politiche. Ma l'assistenza tra familiari, da normale relazione tra persone basata sui legami sentimentali diventa un obbligo, diventa uno schiavismo insopportabile per le donne, e spesso provoca depressione e rotture.
Nella famiglia ritornano i lavoratori licenziati, restano per anni figli disoccupati.... La famiglia, per questo sistema fa da paracadute alle frustrazioni, alla messa in crisi di posizioni di privilegio dell’uomo in famiglia... E ci sono le famiglie dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, in cui nel come tirare avanti, nel come arrangiarsi, nelle speranze deluse di una vita migliore, si consuma la vita e anche spesso i sentimenti... la proprietà può essere solo verso la donna e i figli; il maschio schiacciato sul lavoro, nella società si rivale sulla “propria” moglie...".
Questo, e tanto altro ancora da indagare e denunciare, mostra ulteriormente che nel legame crisi/femminicidi non ci sono misure governative, interne allo Stato del sistema capitalista - causa delle crisi economiche - che possano fermare gli assassini delle donne.
Occorrerebbe eliminare la crisi, ma per eliminare le crisi bisogna eliminare il sistema capitalista di cui sono l'inevitabile prodotto; bisognerebbe rompere i rapporti familiari, uomo/donna basati in questa società, anche tra i proletari che non hanno nulla da perdere che le proprie catene, su un tragico scimmiottamento dei valori di proprietà, dell'ideologia fascista dei borghesi (che invece hanno tutto da perdere col rovesciamento del loro sistema di sfruttamento, di oppressione, di profitto e di "morte").
MA OCCORRE FARE LA RIVOLUZIONE!! IN CUI LA FURIA DELLE DONNE SIA UNA FORZA PODEROSA che rivoluzioni la terra e il cielo, la realtà strutturale e il campo sovrastrutturale, ideologico, ancora più insidioso e resistente.
Questa è la vera risposta ad altri fenomeni sociali che emergono soprattutto nella fase di crisi di questa barbara e putrefatta società imperialista.
Parliamo delle uccisioni dei figli da parte delle madri. Non si tratta di un episodi a sé stanti ma appunto di fenomeni sociali, di normali donne.
Nelle attuali condizioni di grave crisi, di estrema pesantezza ideologica, morale, esplodono le contraddizioni, esplode la pesantezza delle condizioni di vita, la difficoltà a trovarsi da sola nelle cura dei figli e del loro futuro.
La crisi non è solo economica, è crisi ideologica, di impotenza disperante di fronte alle difficoltà di vita; del venir meno di valori, il rapporto di coppia, la famiglia, la tranquillità delle condizioni di vita, valori non certo di per sé positivi, che anzi contengono già un nucleo di devastazione, di deviazione, di accecamento per quello che sono o possono essere in questa sistema sociale oppressivo i rapporti d'amore, le famiglie, i concetti di tranquillità, ecc., che possono trasformarsi da puntelli di felicità, di garanzia, in realtà che si ritorcono contro, diventando tante catene pratiche e mentali.
A questo si unisce la condizione di solitudine, l'affrontare i problemi come se fossero solo personali - cosa assolutamente non vera, soprattutto per le donne - la chiusura disperante nel proprio particolare.
Tutto questo è frutto di un sistema sociale che esaspera i problemi, che propaganda a piene mani l'antisocialità, l'individualismo, o una socialità fatta di tante singole persone "per bene" ognuna chiusa nella propria casa, in cui il "sociale" viene deviato, o concentrato nelle spazzature di programmi televisivi, come il misurare le persone per le loro "capacità individuale a farcela" e colpevolizzare/isolare di fatto tutti gli altri.
In questo modo si devia la disperazione verso sé stessi, o verso le vite delle persone su cui puoi avere un misero potere (i figli, non tanto tuoi, ma soprattutto “suoi” del maschio), invece di rivolgersi contro un sistema che crea tutto questo, e in questo trovare le ragioni sociali, collettive.”
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