Un grande esempio quello di Carla Capponi, militante del PCI, insieme a tante altre compagne partigiane, a cui guardare nella fase attuale del moderno fascismo e moderno medioevo che avanza, per la lotta che serve oggi
Verso una nuova Resistenza.
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La militanza di Carla Capponi comincia il giorno dopo l’assedio di San Lorenzo, a Roma. Carla, che proviene da una famiglia di origine marchigiana di fede antifascista, lavora come dattilografa nel Corpo reale delle miniere quando, il mattino del 14 luglio 1943, sente le sirene dell’allarme suonare. Va subito a soccorrere i feriti e a nascondere nella Basilica gli ebrei rimasti in città. Il giorno dopo la fine del bombardamento, da cui il quartiere esce libero e resistente, un’amica le chiede di ospitare a casa sua una riunione di alcuni cattolici comunisti. Mentre gli antifascisti redigono copie clandestine de L’Unità, Carla suona i notturni di Chopin al pianoforte per coprire i rumori della riunione: è l’inizio della sua attività politica.
Ma è solo dopo l’8 settembre che Carla si unisce alla Resistenza. Il suo primo incontro con i partigiani è casuale: li vede camminare davanti a casa sua e, ignorando l’insistenza della madre che cerca di dissuaderla dall’uscire e unirsi a loro, decide di raggiungerli. Qui si trova, disarmata e impreparata, in mezzo agli scontri di Porta San Paolo. L’esperienza la segna nel profondo: estrae i corpi dei soldati dai carri armati, soccorre i feriti usando come garze la sua sottoveste e per la prima volta capisce cosa sia la guerra. Decide che non può più stare a guardare, e che vuole seguire quelle donne e quegli uomini armati finché ce ne sarà bisogno. La sua casa nel frattempo è diventata una sorta di quartier generale dei comunisti romani e, quando si costituiscono i Gap (ndr. organzzati dal Partito Comunista d'Italia), i Gruppi di azione patriottica, lì comincia a riunirsi la sezione femminile. Carla prende il nome di battaglia di Elena. Interi quartieri si mobilitano per contrastare i nazisti: alla Garbatella le armi si nascondono dappertutto, al cinema, dal farmacista, nelle trattorie. All’ospedale di San Giacomo si organizzano corsi clandestini per insegnare alle volontarie a fermare emorragie e fare iniezioni.
Inizialmente a Carla vengono assegnati compiti di sorveglianza o da staffetta, ma la giovane non vuole restare nell’ombra, vuole combattere. I Gap però si rifiutano di fornire armi alle donne che, nel caso di attacchi, avrebbero dovuto fingersi loro fidanzate per non essere coinvolte in prima persona. Carla allora decide di rubarne una, sfilando una Beretta 9 a un militare della Guardia nazionale repubblicana su un autobus affollato. È una donna coraggiosa e sicura di sé, a volte sprezzante del pericolo: quando Guglielmo Blasi (che poi verrà processato per collaborazionismo) era scappato per la paura durante l’attacco contro alcuni camion tedeschi in piazza Vittorio, era rimasta da sola a combattere contro i nazisti. Dopo lo sbarco di Anzio e dopo aver contribuito alla fuga di Pertini, comincia un periodo duro per i Gap romani, arrestati uno dopo l’altro. Carla allora, insieme a compagne e compagni, si dà alla clandestinità, rifugiandosi a Centocelle. Il 3 marzo 1944, quando assiste all’uccisione da parte di un soldato tedesco di Teresa Gullace (raccontata anche in Roma città aperta di Rossellini) – una donna che stava cercando di parlare col marito prigioniero nella caserma di viale Giulio Cesare – Carla reagisce d’impulso puntando la pistola contro il militare. Viene immediatamente arrestata dai nazisti, ma non prima che la sua amica Marisa Maru le tolga l’arma dal cappotto e le infili un tesserino del Partito fascista in tasca. In caserma, Carla si presenta come Marisa e, approfittando del fascino che esercita sul soldato di guardia, riesce a farsi rilasciare.
L’attentato di via Rasella. Giovedì 23 marzo, i Gap romani decidono di attaccare la colonna di SS che passa di lì ogni giorno, di ritorno dalle esercitazioni dal poligono di tiro di Tor di Quinto. Via Rasella viene scelta per la sua conformazione: stretta, priva di negozi (e quindi poco frequentata), ma soprattutto in salita. Il progetto iniziale prevedeva una bomba a tempo depositata all’altezza di palazzo Tittoni, a cui sarebbe seguita una scarica di bombe a mano all’incrocio di via del Boccaccio. Ogni gappista ha un ruolo: l’ordigno principale viene nascosto in un carrettino della spazzatura, e sarebbe stato innescato da Rosario “Paolo” Bentivegna travestito da spazzino. Carla invece deve trasportare dei mortai in alcune buste della spesa, celati da qualche verdura, e aiutare Paolo nella fuga facendogli indossare un cappotto per nascondere la divisa da spazzino. Al passaggio del I battaglione del Polizeiregiment Bozen, dato il segnale, Paolo accende la miccia e in circa cinquanta secondi la bomba esplode, causando la morte di 33 militari e qualche civile. È il caos. L’esplosione innesca le granate dei soldati, generando ulteriori deflagrazioni, mentre la colonna viene raggiunta da altre tre bombe a mano. Segue un feroce scontro a fuoco, in cui nessuno dei gappisti rimane ucciso o ferito, né viene fatto prigioniero. I nazifascisti, colti di sorpresa, cominciano a sparare verso le finestre, mentre Carla e Paolo scappano.
La reazione tedesca è terribile. Il quartiere viene devastato per cercare i responsabili della strage e i rastrellamenti culminano nel terribile eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui perdono la vita 335 persone, 10 per ogni soldato tedesco. Su questo episodio, si sono svolti numerosi processi per stabilire se l’attentato abbia costituito un’azione di guerra legittima o meno. Nel 1999 la Prima Sezione Penale della Corte di cassazione ha confermato che si è trattato di un “atto legittimo di guerra”... (da The Vision).
"...Avevo bisogno di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere quell'attacco [di via Rasella]. Ripensai al bombardamento di San Lorenzo, a quella guerra ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo notizia ogni giorno; ai nostri compagni fucilati, torturati a via Tasso; a tutti i deportati di cui non avevamo più notizia; ai duemila ebrei nei lager; a tutti i paesi oltralpe sconvolti dalla devastazione. A quanti tra i miei amici erano già morti: sul fronte russo, in Grecia, in Iugoslavia, a mio cugino Amleto Tamburri morto a El Alamein, lui, figlio di un socialista. [...] Ma a poco a poco mi convinsi che non preparavo un agguato a innocenti: quegli uomini erano stati educati, abituati a uccidere; l'operazione di "selezione della razza" (l'attuale pulizia etnica) era per loro un risanamento della società. [...] Così, recuperai la visione esatta della realtà che stavo vivendo: per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente, che erano ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi..."
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