Parteciperanno anche le associazioni e singoli famigliari, soprattutto donne, degli operai uccisi per il profitto dei padroni
MFPR Taranto
Processo Thyssen: il tempo torna al 6 dicembre 2007, il fuoco, 7 vittime
ALBERTO GAINO - TORINO
La morte irrompe nel processo e l'avvolge in un silenzio raggelante. La morte ha gli occhi e la bocca spalancati di Aldo Schiavone, steso a terra, le gambe nude, come il resto del corpo, accavallate, ridotto a un fagotto.
Lucido e gonfio, quel corpo non ha più nulla di umano, del giovane che vi è cresciuto dentro e vi è diventato uomo. La mamma e la zia, terz'ultima fila dal fondo della maxi-aula, guardano con le mani strette al viso che riducono gli occhi a fessure. Viste da dietro, nei loro abiti neri, sembrano figure ancora più esili. Le lacrime scorrono sui visi di madri, padri, fratelli delle vittime. Anche un giudice popolare, l'unico uomo del collegio, porta un fazzoletto di carta agli occhi. Altri hanno lo sguardo lucido. Nessuno fiata, si resta tutti muti in quell'immensa aula di legni chiari, caldi, diventata improvvisamente cinema dell'horror. Impietoso quanto necessario per guardare dentro la morte. Cinque minuti e 10 secondi di visione del dvd girato dalla polizia scientifica nell'immediatezza dell'incendio alla Thyssen.
Sembra passato un secolo dall'«incidente» che scuote il processo, appena due ore prima: la difesa chiede che si allontanino tutti i testimoni per sentire il primo, un ispettore capo di polizia. Ed allora una mamma, Maria Grazia Rodinò, scatta in piedi: «Non me ne vado, voglio testimoniare, vedere e ascoltare tutti. Fate semmai venire gli imputati, se hanno il coraggio di presentarsi».
Il presidente Maria Iannibelli concede una sospensione. L'avvocato di parte civile Sergio Bonetto rinuncia alla testimonianza di due madri e un padre; per gli altri 15 parenti-testimoni matura un accordo con la difesa: verranno sentiti la prossima udienza (il 17) e potranno poi restare in aula. Ieri si perdono soltanto il peggio, l'ispettore capo Massimo Galasso che racconta come, entrando nel capannone, «non mi accorsi di aver scavalcato un cadavere: lo presi per un sacco della spazzatura». Mario Barbetta, «primo addetto» della linea vicina a quella della morte, racconta il «muro di fuoco» cui si è trovato di fronte accorrendo in bici alle urla di Boccuzzi, il superstite: «Il calore era insopportabile, ho riconosciuto Giuseppe De Masi solo dalla voce. Rosario Rodinò chiedeva aiuto». In aula si ascolta la telefonata di Barbetta al 118: sullo sfondo l'urlo di Rosario è straziante: «Non voglio morire». Il testimone si guarda le mani, lo sguardo a terra, singhiozza: «Rocco Marzo diceva che non riusciva a respirare. L'ho accompagnato alla lettiga. Non avrei riconosciuto nemmeno lui se non mi avesse parlato. Come Angelo Laurino e Roberto Scola, stesi a terra: rantolavano. Erano tutti bruciati in faccia, nudi o quasi. Non posso dimenticarli. Sono stato ricoverato in psichiatria e ancora oggi sono seguito da uno specialista. Il mio tormento è di non aver potuto fare niente».
Il «primo addetto» è anche testimone del degrado dello stabilimento «dal settembre 2007. In estate, con la cassa integrazione e dopo l'annuncio della chiusura per luglio 2008, se n'era andato il 90 per cento dei manutentori.
Prima avevamo cinque capiturno, la notte dell'incendio ce n'era uno solo per tutto lo stabilimento: Rocco Marzo. I princìpi di incendio erano routine dove si saldava. La procedura consegnataci dall'azienda era: dovevamo provare noi a spegnerli con estintori, se non ci riuscivamo si chiamava la squadra antincendio dello stabilimento. Era vietato rivolgerci ai vigili del fuoco. Una volta che dissi in portineria di telefonare al 115 fui richiamato». E ancora: «Gli ultimi mesi c'era di tutto per terra: carta, olio, gomma. Si tirava a lucido lo stabilimento solo quando dovevano venire gli ispettori dell'Asl. Per l'azienda contava solo avere il personale sufficiente, non importava se era inesperto, per mandare avanti le macchine». E' un duro colpo per la difesa che aveva sollecitato un teste (dirigente di polizia) a ricordare come, fra gli oggetti sequestrati nel pulpito di comando della linea, vi fossero uno zainetto con una play station 2, una presa scart e alcuni giochi.
MFPR Taranto
Processo Thyssen: il tempo torna al 6 dicembre 2007, il fuoco, 7 vittime
ALBERTO GAINO - TORINO
La morte irrompe nel processo e l'avvolge in un silenzio raggelante. La morte ha gli occhi e la bocca spalancati di Aldo Schiavone, steso a terra, le gambe nude, come il resto del corpo, accavallate, ridotto a un fagotto.
Lucido e gonfio, quel corpo non ha più nulla di umano, del giovane che vi è cresciuto dentro e vi è diventato uomo. La mamma e la zia, terz'ultima fila dal fondo della maxi-aula, guardano con le mani strette al viso che riducono gli occhi a fessure. Viste da dietro, nei loro abiti neri, sembrano figure ancora più esili. Le lacrime scorrono sui visi di madri, padri, fratelli delle vittime. Anche un giudice popolare, l'unico uomo del collegio, porta un fazzoletto di carta agli occhi. Altri hanno lo sguardo lucido. Nessuno fiata, si resta tutti muti in quell'immensa aula di legni chiari, caldi, diventata improvvisamente cinema dell'horror. Impietoso quanto necessario per guardare dentro la morte. Cinque minuti e 10 secondi di visione del dvd girato dalla polizia scientifica nell'immediatezza dell'incendio alla Thyssen.
Sembra passato un secolo dall'«incidente» che scuote il processo, appena due ore prima: la difesa chiede che si allontanino tutti i testimoni per sentire il primo, un ispettore capo di polizia. Ed allora una mamma, Maria Grazia Rodinò, scatta in piedi: «Non me ne vado, voglio testimoniare, vedere e ascoltare tutti. Fate semmai venire gli imputati, se hanno il coraggio di presentarsi».
Il presidente Maria Iannibelli concede una sospensione. L'avvocato di parte civile Sergio Bonetto rinuncia alla testimonianza di due madri e un padre; per gli altri 15 parenti-testimoni matura un accordo con la difesa: verranno sentiti la prossima udienza (il 17) e potranno poi restare in aula. Ieri si perdono soltanto il peggio, l'ispettore capo Massimo Galasso che racconta come, entrando nel capannone, «non mi accorsi di aver scavalcato un cadavere: lo presi per un sacco della spazzatura». Mario Barbetta, «primo addetto» della linea vicina a quella della morte, racconta il «muro di fuoco» cui si è trovato di fronte accorrendo in bici alle urla di Boccuzzi, il superstite: «Il calore era insopportabile, ho riconosciuto Giuseppe De Masi solo dalla voce. Rosario Rodinò chiedeva aiuto». In aula si ascolta la telefonata di Barbetta al 118: sullo sfondo l'urlo di Rosario è straziante: «Non voglio morire». Il testimone si guarda le mani, lo sguardo a terra, singhiozza: «Rocco Marzo diceva che non riusciva a respirare. L'ho accompagnato alla lettiga. Non avrei riconosciuto nemmeno lui se non mi avesse parlato. Come Angelo Laurino e Roberto Scola, stesi a terra: rantolavano. Erano tutti bruciati in faccia, nudi o quasi. Non posso dimenticarli. Sono stato ricoverato in psichiatria e ancora oggi sono seguito da uno specialista. Il mio tormento è di non aver potuto fare niente».
Il «primo addetto» è anche testimone del degrado dello stabilimento «dal settembre 2007. In estate, con la cassa integrazione e dopo l'annuncio della chiusura per luglio 2008, se n'era andato il 90 per cento dei manutentori.
Prima avevamo cinque capiturno, la notte dell'incendio ce n'era uno solo per tutto lo stabilimento: Rocco Marzo. I princìpi di incendio erano routine dove si saldava. La procedura consegnataci dall'azienda era: dovevamo provare noi a spegnerli con estintori, se non ci riuscivamo si chiamava la squadra antincendio dello stabilimento. Era vietato rivolgerci ai vigili del fuoco. Una volta che dissi in portineria di telefonare al 115 fui richiamato». E ancora: «Gli ultimi mesi c'era di tutto per terra: carta, olio, gomma. Si tirava a lucido lo stabilimento solo quando dovevano venire gli ispettori dell'Asl. Per l'azienda contava solo avere il personale sufficiente, non importava se era inesperto, per mandare avanti le macchine». E' un duro colpo per la difesa che aveva sollecitato un teste (dirigente di polizia) a ricordare come, fra gli oggetti sequestrati nel pulpito di comando della linea, vi fossero uno zainetto con una play station 2, una presa scart e alcuni giochi.
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