Pubblichiamo, di seguito, un importante contributo dell'Avvocata Caterina Calia (da Osservatorio repressione)
Il 41 bis e la detenzione politica
“Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico” temi più che mai vivi ed attuali sia per il numero in esponenziale aumento di persone condannate alla pena di morte viva e sottoposte alla tortura del 41 bis O.P. sia perché il “diritto penale del nemico”, vero e proprio sistema punitivo parallelo (che oggi opera in gran parte per via amministrativa) si va pericolosamente estendendo ad ampi strati sociali attraverso misure di prevenzione sempre più capillari e di massa (Daspo urbani, fogli di via, costruzione di “zone rosse” ecc).
La logica politica dell’amico/nemico è alla base di tutte le deroghe allo stato sociale di diritto, ma di deroga in deroga, di emergenza in emergenza (vere o presunte) ci stiamo avvicinando allo stato d’eccezione permanente e alla negazione stessa dei principi fondamentali della Costituzione e dell’ordinamento democratico.
Il “ diritto penale del nemico” come indica la stessa definizione, presuppone l’esistenza di un nemico assoluto nei cui confronti non si applicano le norme ordinarie, ma si applicano invece norme speciali giustificate dalla ragion di stato.
Storicamente i nemici assoluti (degli ultimi 40 anni) sono rappresentati dai militanti della lotta armata degli anni ’70-80 (i cosiddetti “terroristi”) e dai dirigenti ed affiliati alle organizzazioni criminali (mafia, camorra ‘ndrangheta) che controllavano di fatto vaste aree del territorio statale e che per mantenere tale controllo avevano scatenato una guerra sia al loro interno sia nei confronti dello stato (con la stagione delle stragi dei primi anni ’90).
Nel caso dei militanti della lotta armata il rapporto di inimicizia ed irriducibilità era bidirezionale e tremendamente reale in quanto il livello di insorgenza e conflitto aveva assunto in quegli anni caratteristiche ampie e dispiegate.
Per distruggere e disarmare le organizzazioni combattenti e l’ampio movimento di massa che nel suo insieme aveva messo profondamente in discussione il marciume delle relazioni borghesi ed il sistema economico e di potere che le teneva in vita lo stato mise in campo una strategia complessa ed articolata le cui punte dell’iceberg erano costituite da tortura e dissociazione.
Il “nemico” doveva essere annientato con ogni mezzo ed a tal fine furono varate le cosiddette leggi d’emergenza: apertura delle carceri speciali (1977), sistematica applicazione (negli anni 80-86), dell’art. 90 a circa 4000 prigionieri cosiddetti “irriducibili”, introduzione di nuove tipologie di reati (art. 270 bis, 280 c.p.), aumenti considerevoli di pena per i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, cosiddetta Legge Cossiga), durata della carcerazione preventiva fino a 10 anni e otto mesi, divieto di concessione della libertà provvisoria, diffusa pratica della tortura, quale strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata sistematicamente dal 1978 al 1983) ed infine, per chiudere il cerchio sulla base della dicotomia amico/nemico, legge sui pentiti e sulla dissociazione.
Per combattere la mafia e le altre organizzazioni criminali fu invece introdotto, con il cd “decreto antimafia Martelli-Scotti” del 1991, l’art. 4 bis O.P che sanciva il divieto di concessione dei benefici penitenziari, mentre nel 1992, a seguito della strage di Capaci, entrò in vigore per la durata di tre anni il secondo comma dell’art. 41 bis O.P. che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento ordinario[1] nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose e più in generale di tutti i reati previsti dalla prima parte del citato art. 4 bis. Si trattava di una norma a termine (tre anni) in quanto finalizzata a fronteggiare una situazione di emergenza, ma venne prorogata più volte nonostante fosse venuta meno l’emergenza che ne aveva giustificato l’iniziale introduzione. Nel 2002, con la legge 279, la norma di cui al 41 bis 2° comma venne definitivamente stabilizzata ed in particolare -seguendo sempre la logica delle emergenze- venne sancito il divieto di concessione dei benefici penitenziari nonché l’applicabilità del regime di carcere duro anche ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione” (a seguito degli attentati alla vita dei professori D’Antona e Biagi da parte delle Brigate Rosse).
Infine nel 2009 è stato addirittura sottratto il controllo giurisdizionale al giudice naturale precostituito per legge stabilendo che giudice unico sia il Tribunale di Sorveglianza di Roma, sono stati aumentati i termini di durata del regime (4 anni per la prima applicazione e due anni per le proroghe), sono stati addirittura posti dei limiti alle visite dei difensori (limiti successivamente dichiarati incostituzionali).
Sia le leggi “speciali” antiterrorismo degli anni 70-80 che i provvedimenti contro le organizzazioni mafiose erano state politicamente giustificati sulla base di situazioni contingenti di particolare allarme dal punto di vista dello Stato.
Da anni la situazione è profondamente diversa; dall’ultimo attentato ascrivibile alle brigate rosse sono passati 17 anni, non ci sono organizzazioni che praticano la lotta armata, non c’è una guerra di mafia contro lo Stato, non ci sono rivolte nelle carceri né esistono altri particolari allarmi sul piano della sicurezza interna che possano minimamente “giustificare” la sistematica violazione dei principi fondanti lo stato di diritto e, tuttavia, le norme di cui agli art. 4 bis e 41 bis operano a pieno regime (sono circa 1200 gli ergastolani ostativi, migliaia i detenuti condannati a pene temporanee esclusi dall’accesso ai benefici penitenziari e circa 730 i detenuti sottoposti al 41 bis).
Il regime speciale dell’art. 90, antesignano dell’attuale art. 41 bis, che prevedeva la sospensione delle regole di trattamento ordinario varate con la riforma del 1975, venne applicato a circa 4000 prigionieri politici per sei anni, un tempo che all’epoca sembrava abnorme, ed in effetti lo era, ma che oggi appare quasi insignificante a fronte di applicazioni del regime di 41 bis che risalgono al 1992 e permangono tuttora, vale a dire che sono applicati a decine di persone ininterrottamente da 27 anni.
Perché un regime che sospende le regole del trattamento penitenziario ordinario e con esso i principi costituzionali di rieducazione, di legalità ed umanità della pena viene applicato “per sempre”, nonostante siano interamente venute meno le ragioni che “apparentemente” giustificavano tale temporanea sospensione?
Perché il “diritto penale del nemico” – elaborato come strategia dell’emergenza e della eccezione – è diventato contenuto profondo di una strategia permanente di conflitto ed esclusione sociale che tocca direttamente e profondamente il dettato costituzionale.
L’eccezione diventa regola, “i nemici”, come dimostra una legiferazione costruita a colpi di decreti-sicurezza per garantire la inarrestabile polarizzazione di ricchezza sociale attraverso misure di militarizzazione e “bonifica” del territorio, di recinzione e controllo delle periferie, di espulsioni e respingimenti, si moltiplicano a dismisura.
Intere categorie di soggetti vengono colpiti ed additati “in blocco” come nemici, non in conseguenza di condotte determinate costituenti reato, ma per ciò che sono o che rappresentano, per il loro stesso modo di essere.
Le diverse misure poste in campo sia in ambito intramurario che a livello sociale mostrano, di fronte al perdurare della crisi, la rinuncia alla possibilità di mantenere e promuovere una linea unitaria di coesione sociale per gli strati popolari impoveriti ed esclusi in maniera sempre crescente. Misure che gli esecutivi promuovono sempre più “per vie amministrative” attraverso le burocrazie prefettizie e poliziesche, scavalcando ed emarginando ogni intervento degli organi politici e della magistratura.
All’interno di questo quadro generale i prigionieri politici, esemplificando il rapporto di scontro stato-classe, rappresentano tuttora il “nemico per eccellenza” nonostante siano passati decenni dal ciclo di lotte che li ha prodotti.
Alcuni cenni sulla situazione della detenzione politica in Italia.
All’interno degli istituti penitenziari i detenuti vengono suddivisi, o “differenziati”, sulla base della ritenuta pericolosità, per lo più desunta dal tipo di reato commesso. Al circuito più alto, cosiddetto di Alta Sorveglianza (AS) sono destinati i detenuti considerati più pericolosi non sulla base del comportamento intramurario, ma per l’automatico appartenere a determinate categorie.
La necessità storica della differenziazione nasce a seguito delle grandi rivolte carcerarie degli anni 70 ed ha l’evidente fine di evitare ogni “contaminazione” tra detenuti appartenenti a categorie diverse ed in particolare ogni possibile politicizzazione dei detenuti comuni.
L’alta sorveglianza è a sua volta suddivisa in tre sottosezioni (AS1, AS2,AS3). Gli imputati ed i condannati per reati di terrorismo od eversione vengono detenuti nelle sezioni AS2. A loro volta le sezioni AS2, sono suddivise per categorie di appartenenza “ideologica” (comunisti, anarchici e negli ultimi anni islamici).
Secondo fonti del ministero della giustizia, risalenti alla fine del 2018, i detenuti in AS2 sarebbero in totale 92. Sessanta sarebbero quelli di matrice islamica, dislocati nelle sezioni AS2 di Nuoro, Rossano e Sassari-Bancali mentre a L’Aquila si trova la sezione AS2 femminile (dove attualmente è detenuta una sola donna condannata per reati di matrice jihadista).
Il terreno della “guerra” al terrorismo di matrice islamica meriterebbe un serio e specifico approfondimento. Possiamo intanto dire che nei confronti di questi detenuti il “diritto penale del nemico” opera a pieno regime. L’allarme su una spericolata anticipazione della soglia di punibilità in tema di reati associativi, con la penalizzazione di condotte di mera propaganda ideologica ritenute automaticamente sintomatiche dell’adesione ad una associazione terroristica, si coglie addirittura in alcune sentenze cautelari della Cassazione.
Per questi detenuti, come possiamo ben immaginare, non valgono le regole ordinarie né a livello processuale né, tantomeno, a livello di trattamento carcerario. Le sezione AS2 dove sono ristretti sono gestite, come nel regime 41 bis, dai GOM il famigerato gruppo speciale della polizia penitenziaria e le misure interne che vengono applicate sono rigidissime. Le notizie che arrivano dall’interno di queste sezioni sono peraltro pochissime, ma certo il tema meriterebbe una particolare attenzione.
Agli anarchici è riservata una sezione del carcere di Ferrara. Attualmente vi sono ristretti 4 compagni, tre condannati in via definitiva (uno dei quali detenuto da 30 anni) ed uno in custodia cautelare. Un altro compagno, detenuto da oltre 20 anni ed ormai prossimo al fine pena è stato declassificato qualche mese fa ed attualmente si trova in una sezione comune sempre nel carcere di Ferrara. Altri due anarchici attualmente in custodia cautelare sono detenuti rispettivamente ad Alessandria e Tolmezzo, ma è possibile che presto vengano trasferiti nel carcere di Ferrara, essendosi “liberati” dei posti a seguito della assoluzione di uno degli imputati del processo cd “Scripta Manent” di Torino (dopo due anni e 8 mesi di custodia cautelare) e della scarcerazione o sostituzione della misura cautelare per alcuni imputati trentini nella cd operazione “Renata”.
Tre prigioniere anarchiche, tutte in custodia cautelare, si trovavano detenute fino al 6 aprile 2019 presso la sezione AS2 di Rebibbia (fino a tale data unica sezione AS2 femminile per i reati associativi politici). Il 6 aprile sono state trasferite a L’Aquila dove si trovava una detenuta condannata per partecipazione ad associazione jihadista, rimasta sola da almeno un mese a seguito della liberazione per fine pena di altre due prigioniere.
La condizione detentiva che le anarchiche si sono trovate di fronte non ha nulla a che vedere con quella vigente nella storica sezione AS2 di Roma Rebibbia, né con le regole vigenti nelle altre sezioni maschili.
Intanto la sezione è gestita dal GOM o ROM (corpo speciale della polizia penitenziaria) quelli per intenderci che girano per le carceri quando succede qualche problema o anche per eseguire le perquisizioni ministeriali e che sanno come ristabilire l’ordine e la sicurezza. Famigerati gli interventi nel carcere di San Sebastiano dove vennero massacrati una trentina di detenuti, o quelli nel carcere di Poggioreale, ma ancor più la gestione della macelleria messicana di Bolzaneto nel 2001. I GOM, addestrati come se dovessero operare in scenari bellici, gestiscono da sempre le sezioni del regime 41 bis e gli è stato attribuita nel 2017 (sempre per via amministrativa!) anche la gestione delle sezioni per islamici.
La sezione AS2 de L’Aquila, composta da solo 4 celle, da una piccola saletta per la cd socialità e da un cortiletto insufficiente ed inidoneo sia per “il passeggio” che per la ginnastica, viene gestito con metodi militari. Il controllo è continuo ed asfissiante, le perquisizioni attraverso metal detector avvengono prima e dopo ogni rientro in cella, la battitura delle sbarre alle finestre (pratica di controllo in uso in tutte le carceri che tuttavia viene di norma eseguita quando i detenuti vanno all’aria per non renderla inutilmente invasiva e vessatoria) è prevista la mattina alle 8 e viene “sollecitata” all’uopo anche la collaborazione delle detenute in ordine alla apertura della finestra. La mancata “collaborazione” comporta la sanzione disciplinare.
E’ singolare ed esplicativo dei metodi utilizzati il fatto che le stesse prigioniere a Rebibbia non fossero “indisciplinate”, ma lo siano diventate appena giunte a L’Aquila: in meno di un mese hanno collezionato 27 rapporti disciplinari a cui conseguiranno (come avviene sistematicamente per Nadia Lioce detenuta nella sezione limitrofa del 41 bis) giorni e giorni di isolamento.
Il trattamento riservato alle prigioniere a L’Aquila è inumano e degradante: imposizione sul numero dei libri da detenere in cella, divieto di portare all’aria carte processuali o penne e quaderno così da limitare la possibilità di discutere o scrivere qualcosa insieme, mancanza di spazi comuni e vitali minimi, richieste amministrative di applicazione della censura o di limitazione della stampa per fortuna prontamente rispedite al mittente dai giudici procedenti (Torino e Trento) e molto altre continue e gratuite vessazioni.
La sezione di fatto è come un’area riservata del 41 bis e la condizione detentiva imposta è in ogni caso al di fuori della legalità.
Metodi e regole sono le stesse del 41 bis, la finalità la medesima: l’annientamento psico-fisico delle prigioniere.
Qualche giorno fa una delle tre ragazze, Agnese, ha avuto gli arresti domiciliari ed attualmente quindi sono rimaste in due più la prigioniera islamica che tuttavia non fa socialità con loro ed ha chiesto il trasferimento per incompatibilità.
Lo spazio fisico ridotto, l’assenza di un numero sufficiente di prigioniere che soddisfi realmente il diritto alla “socialità” e la stessa possibilità di controllo sociale sull’operato del personale, la illegittima gestione da parte di un corpo speciale ne impongono la chiusura ed il veloce trasferimento in un altro carcere.
I prigionieri comunisti del ciclo di lotte degli anni 70-80.
Un’attenzione particolare merita la detenzione politica di “lunga durata”. Dalla metà degli anni 70 ai primi anni 80 finirono in carcere circa 6000 compagni e compagne. Gli inquisiti furono circa 20.000, 15 mila gli anni di carcere comminati, circa 100 ergastoli.
L’utilizzo della tortura e delle leggi sulla dissociazione spezzarono la resistenza di tantissimi prigionieri che tra il 1982 e la fine degli anni 80 uscirono con le cosiddette leggi premiali.
Centinaia di militanti delle organizzazioni combattenti (condannati/e a pene altissime, da 20 a 30 anni o alla pena dell’ergastolo) riuscirono tuttavia a resistere alle durissime condizioni di segregazione e di annientamento imposte.
Furono abbozzate alcune proposte di soluzione politica, ma lo Stato non ha mai riconosciuto lo scontro di quegli anni e l’esistenza di quella che potremo definire una guerra a bassa intensità. Tanti altri sono usciti per fine pena negli anni 90-2000, mentre quelli condannati all’ergastolo sono in gran parte usciti dopo aver trascorso almeno 26 anni in carcere, accedendo ai benefici previsti dalle leggi ordinarie (liberazione condizionale) senza mai pentirsi o dissociarsi.
Del ciclo di lotte degli anni 70-80 ne rimangono attualmente in carcere 16, con carcerazioni effettive che variano da 31 anni a 37 anni: 11 militanti delle Brigate Rosse sono detenuti nelle sezioni speciali di Alessandria e Terni. Cinque compagne della medesima organizzazione sono invece detenute nella sezione AS2 di Rebibbia.
Per tutti loro l’ergastolo teoricamente non è ostativo in quanto il divieto di concessione di benefici ai condannati per reati aggravati dalla finalità di eversione o terrorismo si applica solo per reati commessi a partire da gennaio 2003. Tuttavia lo è nei fatti in quanto non hanno mai chiesto l’accesso a misure alternative.
Tutti hanno superato ormai da anni il limite di pena per accedere alla liberazione condizionale, misura che generalmente viene richiesta dal singolo detenuto ma la cui applicazione potrebbe essere attivata anche per via amministrativa (ad esempio dal Direttore del carcere).
Carcerazioni di 31-37 anni, pur essendo teoricamente giustificate dall’esistenza della pena dell’ergastolo non trovano certo fondamento giuridico nella commissione di fatti risalenti a 40 anni fa, né in una valutazione “concreta ed attuale di pericolosità sociale”, ma nella logica perversa del “nemico assoluto” e della ragion di stato che punisce per ciò che si è o rappresenti.
Se il carcere in generale (“certezza della pena”) e l’ergastolo in particolare (“buttare via la chiave”) diventano armi di deterrenza da esibire ed utilizzare in una realtà sociale di crisi diffusa si comprendono le ragioni altamente simboliche per cui dopo oltre 30/37 anni i prigionieri del ciclo di lotte degli anni 70-80 vengano ancora segregati nelle sezioni AS2.
Il regime del 41 bis viene invece applicato da 14 anni a tre prigionieri politici arrestati nel 2003 e condannati per appartenenza alle cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma ristretto a Milano-Opera e Roberto Morandi a Spoleto.
L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a se stessa Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del 2009.
La finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, ma in questo caso l’organizzazione Brigate Rosse non è più operativa da 16 anni, fatto che viene riconosciuto “in parte” anche nei provvedimenti di rinnovo del 41 bis o nelle ordinanze confermative del Tribunale di Sorveglianza.
L’esistenza dell’organizzazione all’esterno, al fine dell’applicazione del regime del 41 bis, costituisce “un imperativo” perché è la ragione giustificativa della sospensione delle “regole trattamentali ordinarie” cioè di quei diritti minimi che consentono di ritenere che la detenzione sia legittima e non invece inumana ed illegale.
Con quale motivazione si applica allora il regime del carcere duro ai tre brigatisti?
Con questa chiosa creativa: “La storia dell’ultimo trentennio sembra dimostrare che l’esperienza delle Brigate Rosse abbia uno sviluppo non lineare ma ciclico, con costanti riflussi operativi, anche a distanza di molti anni: la descritta tendenza “carsica” induce a valutare con la massima prudenza le temporanee eclissi del fenomeno brigatista e suggerisce di non escludere la possibilità di una ripresa della lotta armata da parte della citata formazione terroristica nel medio/lungo periodo”.
O anche con questa: “In conclusione gli elementi raccolti non lasciano spazio ad una rassicurante prognosi sulla ripresa delle azioni terroristiche in un panorama complessivo di scontri sociali, di un sempre crescente divario di condizioni di vita e di scarse occasioni di lavoro.”
In pratica il regime di 41 bis viene applicato ai tre prigionieri non per il concreto pericolo che se sottoposti al regime ordinario potrebbero comunicare con l’organizzazione di appartenenza (come richiede la norma), ma per il pericolo ineliminabile che in futuro si sviluppi conflitto sociale e di classe (!)
Qui di seguito si riportano alcuni ulteriori passaggi che dimostrano ex se le vere ragioni sottese all’applicazione di tale inumano ed abietto regime:
“sembra opportuno rimarcare che anche recentemente è stata espressa esplicita solidarietà ai tre irriducibili in oggetto, da parte di aggregazioni che a vario titolo sì riconoscono nel patrimonio ideologico rivoluzionario di matrice marxista leninista” (…) in particolare “due iniziative a sostegno dei brigatisti rossi sottoposti al 41 bis, a Torino, davanti al Palazzo di Giustizia, dove è stato distribuito un volantino dal titolo “Contro il 41 bis! Sviluppare la solidarietà ai rivoluzionari prigionieri” e la pubblicazione di un volantino dal titolo “A proposito di tortura di Stato. Sosteniamo i comunisti Lioce, Mezzasalma e Morandi sottoposti da anni al 41 bis”.
“A fronte di tale “ondata” di consensi -prosegue la motivazione- un’eventuale mancata proroga del regime detentivo speciale potrebbe essere interpretata dal variegato movimento protagonista delle iniziative di solidarietà come un attestato dell’efficacia della campagna di sostegno condotta e dai terroristi in carcere come un segnate della ripresa della capacità rivoluzionaria della classe.”
Infine il decreto censura il fatto che i prigionieri non accettano come dono divino il surplus di sofferenza inflittagli con il regime 41 bis:
… “Al riguardo, non risulta anomalo che gli stessi brigatisti sottoposti al 41 bis abbiano in più circostanze “esternato” la propria insofferenza per il regime detentivo cui sono sottoposti, a testimonianza della “validità” e dell’utilità di tale strumento”.
Credo che tali passaggi evidenzino a sufficienza le ragioni sottese e la vera funzione di questo regime: non quella di interrompere i rapporti con le organizzazioni criminali o eversive bensì quella dell’annientamento psicofisico e anche di deterrenza verso l’esterno dove dev’essere vietato lottare, esprimere le proprie idee, denunciare i soprusi e le illegalità del potere.
Proprio con riguardo alla detenzione “politica” risulta ancora più evidente come la finalità delle condizioni di vita imposte sia finalizzato a distruggere l’ identità politica ed intellettuale e ad interrompere i legami, non con una organizzazione che non esiste dal 2003, ma più in generale con quei settori di classe che ancora resistono e si oppongono allo stato di cose presenti.
Negare a questi prigionieri la possibilità di leggere, di scrivere, di tenersi informati su ciò che accade al mondo equivale ad una condanna a morte.
Tutte le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di tortura bianca, applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri rivoluzionari per perseguirne l’annientamento gli vengono applicate da quattordici anni.
Siamo di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di socialità, impossibilità di incontrare altri compagni/e, una sola ora d’aria al giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i prossimi congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla famiglia, limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella), controllo e blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi amici e parenti che con gli altri prigionieri rivoluzionari, sistematico ritaglio (per Mezzasalma) di articoli di quotidiani nazionali come “La Repubblica” la cui lettura -secondo la Direzione- porrebbe in pericolo l’ordine e la sicurezza” (ad esempio sono state asportate dai giornali –che gli vengono consegnati con i buchi come nelle dittature sudamericane degli anni 70-80 – tutte le notizie sulla “testata” di Spada al giornalista così come le notizie che riguardano la criminalità ad Ostia, il traffico di droga del litorale ecc.), divieto di parola ed anche di saluto tra detenute (L’Aquila).
Questi prigionieri vivono una condizione completamente diversa da quella vissuta dai detenuti politici del ciclo di lotte degli anni ’70-80. In sedici di anni di detenzione (di cui 14 in 41 bis) non hanno mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto discutere, confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di quotidianità insieme.
Oggi, come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai finita degli anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici uno degli imperativi degli apparati di repressione e controllo è quello di impedire il flusso di comunicazioni e di scambi culturali, umani, politici e solidali con l’esterno e tra prigionieri per annichilire e distruggere questi ultimi, ma anche per impedire che si tessano fili che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e che la memoria storica venga anche per tale via ricostruita.
Va da sé che il 41 bis rappresenti un presidio della “ragion di stato” da cui non si può tornare indietro, il contenitore destinato a risucchiare i futuri nemici, veri, presunti o comunque utili.
Contro questo angosciante ritorno all’Italia lombrosiana del secondo ottocento è nostro dovere denunciare tutti i dispositivi sanzionatori applicati nei confronti dei detenuti ed ostacolare il tentativo di trasformare le persone, in particolare quelle con fine pena mai e/o sottoposte al 41 bis in morti viventi, rivendicandone l’appartenenza alla società civile.
Caterina Calia – Avvocato
Note
[1], Nel 1986 veniva formalmente abolito l’art. 90, ma veniva inserito nell’ ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che ne ricalca pedissequamente il contenuto consentendo al Ministro della Giustizia di sospendere in casi eccezionali di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza le regole di trattamento ordinario, per il tempo strettamente necessario a ripristinare l’ordine e la sicurezza.
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