L’art.
41 bis e la detenzione politica
Saluto con calore questa interessante iniziativa di presentazione
del libro di Elton Kalica su “ergastolo, 41 bis e diritto penale del
nemico” temi più che mai vivi ed attuali sia per il numero in
esponenziale aumento di persone condannate alla pena di morte viva e
sottoposte alla tortura del 41 bis O.P. sia perché il “diritto penale
del nemico”, vero e proprio sistema punitivo parallelo (che oggi
opera in gran parte per via amministrativa) si va pericolosamente
estendendo ad ampi strati sociali attraverso misure di prevenzione
sempre più capillari e di massa (Daspo urbani, fogli di via,
costruzione di “zone rosse” ecc).
La logica politica dell’amico/nemico è alla base di tutte le deroghe
allo stato sociale di diritto, ma di deroga in deroga, di emergenza in
emergenza (vere o presunte) ci stiamo avvicinando allo stato
d’eccezione permanente e alla negazione stessa dei principi fondamentali
della Costituzione e dell’ordinamento democratico.
Il “ diritto penale del nemico” come indica la stessa definizione,
presuppone l’esistenza di un nemico assoluto nei cui confronti non si
applicano le norme ordinarie, ma si applicano invece norme speciali
giustificate dalla ragion di stato.
Storicamente i nemici assoluti (degli ultimi 40 anni) sono
rappresentati dai militanti della lotta armata degli anni ’70-80 (i
cosiddetti “terroristi”) e dai dirigenti ed affiliati alle
organizzazioni criminali (mafia, camorra ‘ndrangheta) che controllavano
di fatto vaste aree del territorio statale e che per mantenere tale
controllo avevano scatenato una guerra sia al loro interno sia nei
confronti dello stato (con la stagione delle stragi dei primi anni ’90).
Nel caso dei militanti della lotta armata il rapporto di inimicizia
ed irriducibilità era bidirezionale e tremendamente reale in quanto
il livello di insorgenza e conflitto aveva assunto in quegli anni
caratteristiche ampie e dispiegate.
Per distruggere e disarmare le organizzazioni combattenti e l’ampio
movimento di massa che nel suo insieme aveva messo profondamente in
discussione il marciume delle relazioni borghesi ed il sistema
economico e di potere che le teneva in vita lo stato mise in campo una
strategia complessa ed articolata le cui punte dell’iceberg erano
costituite da tortura e dissociazione.
Il “nemico” doveva essere annientato con ogni mezzo ed a tal fine
furono varate le cosiddette leggi d’emergenza: apertura delle carceri
speciali (1977),
sistematica applicazione (negli anni 80-86),
dell’art. 90 a circa 4000 prigionieri cosiddetti “irriducibili”, introduzione
di nuove tipologie di reati (art. 270 bis, 280 c.p.), aumenti
considerevoli di pena per i reati commessi “con finalità di terrorismo”
(1980, cosiddetta Legge Cossiga), durata della carcerazione preventiva
fino a 10 anni e otto mesi, divieto di concessione della libertà
provvisoria, diffusa pratica della
tortura, quale
strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a
scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata
sistematicamente dal 1978 al 1983) ed infine, per chiudere il cerchio
sulla base della dicotomia amico/nemico, legge sui pentiti e sulla
dissociazione.
Per combattere la mafia e le altre organizzazioni criminali fu
invece introdotto, con il cd “decreto antimafia Martelli-Scotti” del
1991, l’art. 4 bis O.P che sanciva il divieto di concessione dei
benefici penitenziari, mentre nel 1992, a seguito della strage di
Capaci, entrò in vigore per la durata di tre anni
il secondo comma
dell’art. 41 bis O.P. che consentiva al Ministro della Giustizia di
sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di
trattamento ordinario
[1]
nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose e
più in generale di tutti i reati previsti dalla prima parte del
citato art. 4 bis. Si trattava di una norma a termine (tre anni) in
quanto finalizzata a fronteggiare una situazione di emergenza, ma venne
prorogata più volte nonostante fosse venuta meno l’emergenza che ne
aveva giustificato l’iniziale introduzione. Nel 2002, con la legge
279, la norma di cui al 41 bis 2° comma venne definitivamente
stabilizzata ed in particolare -seguendo sempre la logica delle
emergenze- venne sancito il divieto di concessione dei benefici
penitenziari nonché l’applicabilità del regime di carcere duro anche ai
detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed
eversione” (a seguito degli attentati alla vita dei professori D’Antona e
Biagi da parte delle Brigate Rosse).
Infine nel 2009 è stato addirittura sottratto il controllo
giurisdizionale al giudice naturale precostituito per legge stabilendo
che giudice unico sia il Tribunale di Sorveglianza di Roma, sono stati
aumentati i termini di durata del regime (4 anni per la prima
applicazione e due anni per le proroghe), sono stati addirittura posti
dei limiti alle visite dei difensori (limiti successivamente dichiarati
incostituzionali).
Sia le leggi “speciali” antiterrorismo degli anni 70-80 che i
provvedimenti contro le organizzazioni mafiose erano state
politicamente giustificati sulla base di situazioni contingenti di
particolare allarme dal punto di vista dello Stato.
Da anni la situazione è profondamente diversa; dall’ultimo attentato
ascrivibile alle brigate rosse sono passati 17 anni, non ci sono
organizzazioni che praticano la lotta armata, non c’è una guerra di
mafia contro lo Stato, non ci sono rivolte nelle carceri né esistono
altri particolari allarmi sul piano della sicurezza interna che
possano minimamente “giustificare” la sistematica violazione dei
principi fondanti lo stato di diritto e, tuttavia, le norme di cui
agli art. 4 bis e 41 bis operano a pieno regime (sono circa 1200 gli
ergastolani ostativi, migliaia i detenuti condannati a pene temporanee
esclusi dall’accesso ai benefici penitenziari e circa 730 i detenuti
sottoposti al 41 bis).
Il regime speciale dell’art. 90, antesignano dell’attuale art. 41
bis, che prevedeva la sospensione delle regole di trattamento ordinario
varate con la riforma del 1975, venne applicato a circa 4000
prigionieri politici per sei anni, un tempo che all’epoca sembrava
abnorme, ed in effetti lo era, ma che oggi appare quasi insignificante a
fronte di applicazioni del regime di 41 bis che risalgono al 1992 e
permangono tuttora, vale a dire che sono applicati a decine di persone
ininterrottamente da 27 anni.
Perché un regime che sospende le regole del trattamento
penitenziario ordinario e con esso i principi costituzionali di
rieducazione, di legalità ed umanità della pena viene applicato “per
sempre”, nonostante siano interamente venute meno le ragioni che
“apparentemente” giustificavano tale temporanea sospensione?
Perché il “diritto penale del nemico” – elaborato come strategia
dell’emergenza e della eccezione – è diventato contenuto profondo di una
strategia permanente di conflitto ed esclusione sociale che tocca
direttamente e profondamente il dettato costituzionale.
L’eccezione diventa regola, “i nemici”, come dimostra una
legiferazione costruita a colpi di decreti-sicurezza per garantire la
inarrestabile polarizzazione di ricchezza sociale attraverso misure di
militarizzazione e “bonifica” del territorio, di recinzione e controllo
delle periferie, di espulsioni e respingimenti, si moltiplicano a
dismisura.
Intere categorie di soggetti vengono colpiti ed additati “in blocco”
come nemici, non in conseguenza di condotte determinate costituenti
reato, ma per ciò che sono o che rappresentano, per il loro stesso modo
di essere.
Le diverse misure poste in campo sia in ambito intramurario che a
livello sociale mostrano, di fronte al perdurare della crisi, la
rinuncia alla possibilità di mantenere e promuovere una linea unitaria
di coesione sociale per gli strati popolari impoveriti ed esclusi in
maniera sempre crescente. Misure che gli esecutivi promuovono sempre
più “per vie amministrative” attraverso le burocrazie prefettizie e
poliziesche, scavalcando ed emarginando ogni intervento degli organi
politici e della magistratura.
All’interno di questo quadro generale i prigionieri politici,
esemplificando il rapporto di scontro stato-classe, rappresentano
tuttora il “nemico per eccellenza” nonostante siano passati decenni dal
ciclo di lotte che li ha prodotti.
Alcuni cenni sulla situazione della detenzione politica in Italia.
All’interno degli istituti penitenziari i detenuti vengono
suddivisi, o “differenziati”, sulla base della ritenuta pericolosità,
per lo più desunta dal tipo di reato commesso. Al circuito più alto,
cosiddetto di Alta Sorveglianza (AS) sono destinati i detenuti
considerati più pericolosi non sulla base del comportamento
intramurario, ma per l’automatico appartenere a determinate categorie.
La necessità storica della differenziazione nasce a seguito delle
grandi rivolte carcerarie degli anni 70 ed ha l’evidente fine di evitare
ogni “contaminazione” tra detenuti appartenenti a categorie diverse ed
in particolare ogni possibile politicizzazione dei detenuti comuni.
L’alta sorveglianza è a sua volta suddivisa in tre sottosezioni (AS1, AS2,AS3).
Gli imputati ed i condannati per reati di terrorismo od eversione vengono detenuti nelle sezioni AS2.
A loro volta le sezioni AS2, sono suddivise per categorie di
appartenenza “ideologica” (comunisti, anarchici e negli ultimi anni
islamici).
Secondo fonti del ministero della giustizia, risalenti alla fine del
2018, i detenuti in AS2 sarebbero in totale 92. Sessanta sarebbero
quelli di matrice islamica, dislocati nelle sezioni AS2 di Nuoro,
Rossano e Sassari-Bancali mentre a L’Aquila si trova la sezione AS2
femminile (dove attualmente è detenuta una sola donna condannata per
reati di matrice jihadista).
Il terreno della “guerra” al terrorismo di matrice islamica
meriterebbe un serio e specifico approfondimento. Possiamo intanto
dire che nei confronti di questi detenuti il “diritto penale del
nemico” opera a pieno regime. L’allarme su una spericolata
anticipazione della soglia di punibilità in tema di reati associativi,
con la penalizzazione di condotte di mera propaganda ideologica
ritenute automaticamente sintomatiche dell’adesione ad una associazione
terroristica, si coglie addirittura in alcune sentenze cautelari della
Cassazione.
Per questi detenuti, come possiamo ben immaginare, non valgono le
regole ordinarie né a livello processuale né, tantomeno, a livello di
trattamento carcerario. Le sezione AS2 dove sono ristretti sono
gestite, come nel regime 41 bis, dai GOM il famigerato gruppo speciale
della polizia penitenziaria e le misure interne che vengono applicate
sono rigidissime. Le notizie che arrivano dall’interno di queste sezioni
sono peraltro pochissime, ma certo il tema meriterebbe una particolare
attenzione.
Agli anarchici è riservata una sezione del
carcere di Ferrara. Attualmente vi sono ristretti 4 compagni, tre
condannati in via definitiva (uno dei quali detenuto da 30 anni) ed
uno in custodia cautelare. Un altro compagno, detenuto da oltre 20 anni
ed ormai prossimo al fine pena è stato declassificato qualche mese fa
ed attualmente si trova in una sezione comune sempre nel carcere di
Ferrara. Altri due anarchici attualmente in custodia cautelare sono
detenuti rispettivamente ad Alessandria e Tolmezzo, ma è possibile che
presto vengano trasferiti nel carcere di Ferrara, essendosi “liberati”
dei posti a seguito della assoluzione di uno degli imputati del
processo cd “Scripta Manent” di Torino (dopo due anni e 8 mesi di
custodia cautelare) e della scarcerazione o sostituzione della misura
cautelare per alcuni imputati trentini nella cd operazione “Renata”.
Tre prigioniere anarchiche, tutte in custodia
cautelare, si trovavano detenute fino al 6 aprile 2019 presso la
sezione AS2 di Rebibbia (fino a tale data unica sezione AS2 femminile
per i reati associativi politici). Il 6 aprile sono state trasferite a
L’Aquila dove si trovava una detenuta condannata per partecipazione ad
associazione jihadista, rimasta sola da almeno un mese a seguito della
liberazione per fine pena di altre due prigioniere.
La condizione detentiva che le anarchiche si sono trovate di fronte
non ha nulla a che vedere con quella vigente nella storica sezione AS2
di Roma Rebibbia, né con le regole vigenti nelle altre sezioni
maschili.
Intanto la sezione è gestita dal GOM o ROM (corpo speciale della
polizia penitenziaria) quelli per intenderci che girano per le
carceri quando succede qualche problema o anche per eseguire le
perquisizioni ministeriali e che sanno come ristabilire l’ordine e la
sicurezza. Famigerati gli interventi nel carcere di San Sebastiano dove
vennero massacrati una trentina di detenuti, o quelli nel carcere di
Poggioreale, ma ancor più la gestione della macelleria messicana di
Bolzaneto nel 2001. I GOM, addestrati come se dovessero operare in
scenari bellici, gestiscono da sempre le sezioni del regime 41 bis e
gli è stato attribuita nel 2017 (sempre per via amministrativa!) anche
la gestione delle sezioni per islamici.
La sezione AS2 de L’Aquila, composta da solo 4 celle, da una piccola
saletta per la cd socialità e da un cortiletto insufficiente ed inidoneo
sia per “il passeggio” che per la ginnastica, viene gestito con metodi
militari. Il controllo è continuo ed asfissiante, le perquisizioni
attraverso metal detector avvengono prima e dopo ogni rientro in cella,
la battitura delle sbarre alle finestre (pratica di controllo in uso
in tutte le carceri che tuttavia viene di norma eseguita quando i
detenuti vanno all’aria per non renderla inutilmente invasiva e
vessatoria) è prevista la mattina alle 8 e viene “sollecitata”
all’uopo anche la collaborazione delle detenute in ordine alla apertura
della finestra. La mancata “collaborazione” comporta la sanzione
disciplinare.
E’ singolare ed esplicativo dei metodi utilizzati il fatto che le
stesse prigioniere a Rebibbia non fossero “indisciplinate”, ma lo
siano diventate appena giunte a L’Aquila: in meno di un mese hanno
collezionato 27 rapporti disciplinari a cui conseguiranno (come avviene
sistematicamente per Nadia Lioce detenuta nella sezione limitrofa del
41 bis) giorni e giorni di isolamento.
Il trattamento riservato alle prigioniere a L’Aquila è inumano e
degradante: imposizione sul numero dei libri da detenere in cella,
divieto di portare all’aria carte processuali o penne e quaderno così da
limitare la possibilità di discutere o scrivere qualcosa insieme,
mancanza di spazi comuni e vitali minimi, richieste amministrative di
applicazione della censura o di limitazione della stampa per fortuna
prontamente rispedite al mittente dai giudici procedenti (Torino e
Trento) e molto altre continue e gratuite vessazioni.
La sezione di fatto è come un’area riservata del 41 bis e la
condizione detentiva imposta è in ogni caso al di fuori della legalità.
Metodi e regole sono le stesse del 41 bis, la finalità la medesima: l’annientamento psico-fisico delle prigioniere.
Qualche giorno fa una delle tre ragazze, Agnese, ha avuto gli arresti
domiciliari ed attualmente quindi sono rimaste in due più la
prigioniera islamica che tuttavia non fa socialità con loro ed ha
chiesto il trasferimento per incompatibilità.
Lo spazio fisico ridotto, l’assenza di un numero sufficiente
di prigioniere che soddisfi realmente il diritto alla “socialità” e la
stessa possibilità di controllo sociale sull’operato del personale,
la illegittima gestione da parte di un corpo speciale ne impongono la
chiusura ed il veloce trasferimento in un altro carcere.
I prigionieri comunisti del ciclo di lotte degli anni 70-80.
Un’attenzione particolare merita la detenzione politica di “lunga
durata”. Dalla metà degli anni 70 ai primi anni 80 finirono in carcere
circa 6000 compagni e compagne. Gli inquisiti furono circa 20.000,
15 mila gli anni di carcere comminati, circa 100 ergastoli.
L’utilizzo della tortura e delle leggi sulla dissociazione spezzarono
la resistenza di tantissimi prigionieri che tra il 1982 e la fine degli
anni 80 uscirono con le cosiddette leggi premiali.
Centinaia di militanti delle organizzazioni combattenti
(condannati/e a pene altissime, da 20 a 30 anni o alla pena
dell’ergastolo) riuscirono tuttavia a resistere alle durissime
condizioni di segregazione e di annientamento imposte.
Furono abbozzate alcune proposte di soluzione politica, ma lo Stato
non ha mai riconosciuto lo scontro di quegli anni e l’esistenza di
quella che potremo definire una guerra a bassa intensità. Tanti
altri sono usciti per fine pena negli anni 90-2000, mentre quelli
condannati all’ergastolo sono in gran parte usciti dopo aver trascorso
almeno 26 anni in carcere, accedendo ai benefici previsti dalle
leggi ordinarie (liberazione condizionale) senza mai pentirsi o
dissociarsi.
Del ciclo di lotte degli anni 70-80 ne rimangono
attualmente in carcere 16, con carcerazioni effettive che variano da
31 anni a 37 anni: 11 militanti delle Brigate Rosse sono
detenuti nelle sezioni speciali di Alessandria e Terni. Cinque compagne
della medesima organizzazione sono invece detenute nella sezione AS2
di Rebibbia.
Per tutti loro l’ergastolo teoricamente non è ostativo in quanto il
divieto di concessione di benefici ai condannati per reati aggravati
dalla finalità di eversione o terrorismo si applica solo per reati
commessi a partire da gennaio 2003. Tuttavia lo è nei fatti in quanto
non hanno mai chiesto l’accesso a misure alternative.
Tutti hanno superato ormai da anni il limite di pena per accedere
alla liberazione condizionale, misura che generalmente viene richiesta
dal singolo detenuto ma la cui applicazione potrebbe essere attivata
anche per via amministrativa (ad esempio dal Direttore del carcere).
Carcerazioni di 31-37 anni, pur essendo teoricamente giustificate
dall’esistenza della pena dell’ergastolo non trovano certo fondamento
giuridico nella commissione di fatti risalenti a 40 anni fa, né in una
valutazione “concreta ed attuale di pericolosità sociale”, ma nella
logica perversa del “nemico assoluto” e della ragion di stato che
punisce per ciò che si è o rappresenti.
Se il carcere in generale (“certezza della pena”) e l’ergastolo in
particolare (“buttare via la chiave”) diventano armi di deterrenza da
esibire ed utilizzare in una realtà sociale di crisi diffusa si
comprendono le ragioni altamente simboliche per cui dopo oltre 30/37
anni i prigionieri del ciclo di lotte degli anni 70-80 vengano ancora
segregati nelle sezioni AS2.
Il regime del 41 bis viene invece applicato da 14
anni a tre prigionieri politici arrestati nel 2003 e condannati per
appartenenza alle cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce detenuta a
L’Aquila, Marco Mezzasalma ristretto a Milano-Opera e Roberto Morandi
a Spoleto.
L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni
era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale
isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni
psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a
se stessa Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del 2009.
La finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i
rapporti con le organizzazioni di appartenenza, ma in questo caso
l’organizzazione Brigate Rosse non è più operativa da 16 anni, fatto che
viene riconosciuto
“in parte” anche nei provvedimenti di rinnovo del 41 bis o nelle ordinanze confermative del Tribunale di Sorveglianza.
L’esistenza dell’organizzazione all’esterno, al fine
dell’applicazione del regime del 41 bis, costituisce “un imperativo”
perché è la ragione giustificativa della sospensione delle “regole
trattamentali ordinarie” cioè di quei diritti minimi che consentono di ritenere che la detenzione sia legittima e non invece inumana ed illegale.
Con quale motivazione si applica allora il regime del carcere duro ai tre brigatisti?
Con questa chiosa creativa:
“La storia dell’ultimo
trentennio sembra dimostrare che l’esperienza delle Brigate Rosse abbia
uno sviluppo non lineare ma ciclico, con costanti riflussi operativi,
anche a distanza di molti anni: la descritta tendenza “carsica” induce a
valutare con la massima prudenza le temporanee eclissi del fenomeno
brigatista e suggerisce di non escludere la possibilità di una ripresa
della lotta armata da parte della citata formazione terroristica nel
medio/lungo periodo”.
O anche con questa
: “In conclusione gli elementi raccolti non
lasciano spazio ad una rassicurante prognosi sulla ripresa delle azioni
terroristiche in un panorama complessivo di scontri sociali, di un sempre crescente divario di condizioni di vita e di scarse occasioni di lavoro.”
In pratica il regime di 41 bis viene applicato ai tre prigionieri
non per il concreto pericolo che se sottoposti al regime ordinario
potrebbero comunicare con l’organizzazione di appartenenza (come
richiede la norma), ma per il pericolo ineliminabile che in futuro si
sviluppi conflitto sociale e di classe (!)
Qui di seguito si riportano alcuni ulteriori passaggi che dimostrano
ex se le vere ragioni sottese all’applicazione di tale inumano ed abietto regime:
“sembra opportuno rimarcare che anche recentemente è stata
espressa esplicita solidarietà ai tre irriducibili in oggetto, da parte
di aggregazioni che a vario titolo sì riconoscono nel patrimonio
ideologico rivoluzionario di matrice marxista leninista”
(…) in particolare “due iniziative a sostegno dei brigatisti rossi
sottoposti al 41 bis, a Torino, davanti al Palazzo di Giustizia, dove è
stato distribuito un volantino dal titolo “Contro il 41 bis!
Sviluppare la solidarietà ai rivoluzionari prigionieri” e la
pubblicazione di un volantino dal titolo “A proposito di tortura di
Stato. Sosteniamo i comunisti Lioce, Mezzasalma e Morandi sottoposti da anni al 41 bis”.
“A fronte di tale “ondata” di consensi -prosegue la motivazione-
un’eventuale mancata proroga del regime detentivo speciale potrebbe
essere interpretata dal variegato movimento protagonista delle
iniziative di solidarietà come un attestato dell’efficacia della
campagna di sostegno condotta e dai terroristi in carcere come un
segnate della ripresa della capacità rivoluzionaria della classe.”
Infine il decreto censura il
fatto che i prigionieri non accettano come dono divino il surplus di
sofferenza inflittagli con il regime 41 bis:
… “Al riguardo, non risulta anomalo che gli stessi brigatisti
sottoposti al 41 bis abbiano in più circostanze “esternato” la propria
insofferenza per il regime detentivo cui sono sottoposti, a
testimonianza della “validità” e dell’utilità di tale strumento”.
Credo che tali passaggi evidenzino a sufficienza le ragioni sottese e
la vera funzione di questo regime: non quella di interrompere i
rapporti con le organizzazioni criminali o eversive bensì quella
dell’annientamento psicofisico e anche di deterrenza verso l’esterno
dove dev’essere vietato lottare, esprimere le proprie idee, denunciare i
soprusi e le illegalità del potere.
Proprio con riguardo alla detenzione “politica” risulta ancora più
evidente come la finalità delle condizioni di vita imposte sia
finalizzato a distruggere l’ identità politica ed intellettuale e ad
interrompere i legami, non con una organizzazione che non esiste dal
2003, ma più in generale con quei settori di classe che ancora
resistono e si oppongono allo stato di cose presenti. Negare a questi
prigionieri la possibilità di leggere, di scrivere, di tenersi
informati su ciò che accade al mondo equivale ad una condanna a morte.
Tutte le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di
tortura bianca, applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri
rivoluzionari per perseguirne l’annientamento gli vengono applicate
da quattordici anni.
Siamo di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di
socialità, impossibilità di incontrare altri compagni/e, una sola ora
d’aria al giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i
prossimi congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla
famiglia, limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella),
controllo e blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi
amici e parenti che con gli altri prigionieri rivoluzionari,
sistematico ritaglio (per Mezzasalma) di articoli di quotidiani
nazionali come “La Repubblica” la cui lettura -secondo la Direzione-
porrebbe in pericolo l’ordine e la sicurezza” (ad esempio sono state
asportate dai giornali –che gli vengono consegnati con i buchi come
nelle dittature sudamericane degli anni 70-80 – tutte le notizie sulla
“testata” di Spada al giornalista così come le notizie che riguardano
la criminalità ad Ostia, il traffico di droga del litorale ecc.),
divieto di parola ed anche di saluto tra detenute (L’Aquila).
Questi prigionieri vivono una condizione completamente diversa da
quella vissuta dai detenuti politici del ciclo di lotte degli anni
’70-80. In sedici di anni di detenzione (di cui 14 in 41 bis) non hanno
mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto discutere,
confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di
quotidianità insieme.
Oggi, come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai
finita degli anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici
uno degli imperativi degli apparati di repressione e controllo è quello
di impedire il flusso di comunicazioni e di scambi culturali, umani,
politici e solidali con l’esterno e tra prigionieri per annichilire e
distruggere questi ultimi, ma anche per impedire che si tessano fili
che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e che la memoria storica
venga anche per tale via ricostruita.
Va da sé che il 41 bis rappresenti un presidio della “ragion di
stato” da cui non si può tornare indietro, il contenitore destinato a
risucchiare i futuri nemici, veri, presunti o comunque utili.
Contro questo angosciante ritorno all’Italia lombrosiana del secondo
ottocento è nostro dovere denunciare tutti i dispositivi sanzionatori
applicati nei confronti dei detenuti ed ostacolare il tentativo di
trasformare le persone, in particolare quelle con fine pena mai e/o
sottoposte al 41 bis in morti viventi, rivendicandone l’appartenenza
alla società civile.
* Avvocato
[1],
Nel 1986 veniva formalmente abolito l’art. 90, ma veniva inserito
nell’ ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che ne ricalca
pedissequamente il contenuto consentendo al Ministro della Giustizia di
sospendere in casi eccezionali di rivolta o altre gravi situazioni di
emergenza le regole di trattamento ordinario, per il tempo
strettamente necessario a ripristinare l’ordine e la sicurezza.