Torna alla sbarra Nadia Desdemona Lioce,
l'irriducibile brigatista rossa condannata per gli omicidi dei
giuslavoristi Massimo D'Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di
Polizia Emanuele Petri. Ma stavolta la lotta armata non c'entra.
La Lioce è accusata di turbamento della quiete carceraria,
perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
mediante schiamazzi o rumori, provocati sbattendo ripetutamente una
bottiglia di plastica contro le inferriate della propria cella,
disturbava le occupazioni o il riposo delle persone detenute nel reparto
41 bis
della casa circondariale di L'Aquila", dove la Lioce, unica detenuta
"politica" assieme a quattro mafiose, è rinchiusa, in isolamento, dal
2006.
Perché la Lioce protesta dal carcere
La Lioce, mai pentita né dissociata, non ha perso l'animo ribelle né l'occasione per protestare. Le sue contestazioni contro le presunte vessazioni
di cui sarebbe vittima le sono costate oltre settanta provvedimenti
disciplinari. Che non sono serviti a mitigare la sua condotta. Per mesi,
ogni mattina, per trenta minuti, la Lioce ha messo in atto una delle
tipiche forme di protesta esercitate nelle carceri: la "battitura". Da
qui la denuncia e il processo al tribunale dell'Aquila, seguito con
turbolenta partecipazione da numerosi antagonisti.
Dal
dibattimento però, oltre alle sue intemperanze, stanno emergendo gli
episodi che hanno portato l'ex leader delle Br Pcc (Brigate rosse -
Partito comunista combattente) ad armarsi di bottiglietta e portare
avanti la sua ultima battaglia. A cominciare dal divieto di tenere in cella più di tre libri per volta
e di non poterne acquistare liberamente, nemmeno da biblioteche
convenzionate, o di riceverne dall'esterno. Una limitazione motivata dal
fatto che l'amministrazione penitenziaria non ha il personale
sufficiente per verificare che ogni pagina di un testo, per esempio Guerra e pace, sia stata scritta da Tolstoj e non da un rivoluzionario che possa aver inserito messaggi segreti.
Un isolamento psicologico che le impedisce di parlare a lungo
Altro tema oggetto di discussione è quello della socialità,
il tempo cioè che ogni detenuto può trascorrere in compagnia. Il
regolamento del 41 bis prevede che si possa godere delle due ore d'aria in compagnia di una sola detenuta, sempre la stessa,
scelta dall'istituto. Ma quella assegnata alla Lioce è da tempo malata e
non esce dalla cella. Così la brigatista, per oltre un anno, ha
trascorso il tempo riservato alla socialità in rigorosa solitudine.
E siccome ha diritto a un'ora di colloquio al mese con i familiari
e, in caso di bisogno, a due ore al mese con i propri avvocati, è
emerso che in un anno solare ha potuto dialogare con qualcuno soltanto
per quindici ore in totale. Questa situazione le ha provocato uno stato di isolamento psicologico che le impedisce di poter discorrere normalmente più di qualche minuto quando riceve la visita della madre o della sorella.
Altro motivo di attrito sono le frequenti perquisizioni
della sua cella, per poter effettuare le quali gli agenti di polizia
penitenziaria hanno dovuto sequestrarle la mole di documenti, lettere e
giornali che la Lioce aveva raccolto e ordinato per mesi. Arrivando a
portarle via anche un laccetto porta occhiali ottenuto da una striscia
di stoffa non previsto dal regolamento.
Panorama ha
provato a chiedere direttamente alla Lioce quali fossero le condizioni
della sua detenzione, ma la direzione del carcere non le ha consegnato
la lettera con le nostre domande "perché le condizioni detentive dei
soggetti in 41 bis possono essere valutate tramite atti ufficiali". E
questo nonostante il nuovo regolamento sul 41 bis emanato dal ministero
della Giustizia lo scorso ottobre sancisca che "al detenuto è consentito
inoltrare e ricevere la corrispondenza a mezzo posta", sia pure dopo il
visto della censura. D'altra parte sembra che, soprattutto per ragioni
organizzative, molti articoli del nuovo regolamento siano ancora ben lungi dall'essere applicati, come per esempio quelli che concernono il numero di libri, riviste e quotidiani che si possono acquistare.
Alla
Lioce sarebbe insomma impedito di leggere, studiare, scrivere e persino
parlare. Molte associazioni che si occupano di carceri e carcerati
parlano di violazioni dei diritti umani e di "tortura psicofisica".
Le vedove D'Antona e Biagi contro l'inumanità del carcere
Ma uno Stato democratico che ha saputo sconfiggere il terrorismo può permettersi di esporsi a queste accuse? Olga Di Serio,
la mattina del 20 maggio 1999, aveva appena salutato il marito, il
professor Massimo D'Antona, consulente del ministro del Lavoro Antonio
Bassolino nel governo D'Alema, quando, in via Salaria, a Roma, il
commando della Lioce glielo ha ucciso scaricandogli addosso un intero
caricatore di pistola.
La vedova D'Antona conosce bene le
strutture carcerarie per averle visitate da parlamentare. E, pur
preferendo non intervenire sul caso specifico di Nadia Lioce, riconosce
che "in molte carceri ci sono situazioni di difficoltà e
tanti aspetti dovrebbero essere migliorati, perché tra quello che è
possibile e quello che sarebbe giusto c'è una grossa differenza". E
"sarebbe auspicabile che le carceri fossero in grado di adempiere a
quello che è il loro compito, e cioè la rieducazione e il reinserimento
del detenuto".
La professoressa Marina Orlandi,
vedova di Marco Biagi, accademico e consulente dei ministeri del Lavoro e
del Welfare, ucciso a Bologna dalle Br Pcc mentre rincasava in bici la
sera del 19 marzo 2002, ascolta con attenzione le circostanze che hanno
portato a un nuovo processo la brigatista. E ritiene "che la Lioce abbia il diritto di poter leggere i libri che desidera.
Basta un po' di fantasia per ovviare alle difficoltà burocratiche, ad
esempio facendo arrivare in cella i libri da biblioteche sempre diverse e
distanti geograficamente". Anche l'impossibilità per la Lioce di
parlare con una detenuta perché questa è malata appare un problema
risolvibile. "Si tratta di diritti umani che sono previsti anche per chi
è in regime di 41 bis" ci dice la vedova Biagi "e bisogna fare in modo
che sia possibile esercitarli; se c'è una legge deve essere rispettata e
non si può rendere ancora più restrittivo il regime del carcere duro. A
volte basta il buon senso e un po' di elasticità".
(Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Dei relitti e delle pene")
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