L’autonomia
di queste imprese politico-culturali dalla governance delle istituzioni
e dei mercati va difesa a oltranza. In tutta Italia, dopo gli sgomberi
dei sindaci è sempre seguito un deserto di iniziative che a stento ha
nascosto un vero e proprio furto proprietario
L’attacco sferrato dalla giunta pentastellata di Roma contro la Casa internazionale delle donne
è il segnale inequivocabile di che cosa ci dobbiamo attendere: una
guerra senza quartiere contro ogni forma di autogestione e
autorganizzazione.
Questo si cela dietro la bandiera della
«legalità» che costituisce il collante più forte tra le due forze
politiche che si accingono a governare il paese.
Non è un caso che il capitolo dedicato
all’ordine pubblico, alla repressione, all’inasprimento delle pene e
allo smantellamento di ogni cultura garantista rappresenti la parte più
concreta e dettagliata del contratto di governo.
IL PRIMO PASSO consiste
nel ricondurre alla categoria burocratico-amministrativa di «servizi
alla cittadinanza» esperienze e pratiche politiche che non si limitano a
soddisfare in forma sussidiaria una domanda esistente, ma creano e
alimentano desideri e potenzialità fino a quel momento inespresse.
E per farlo non possono che forzare il quadro delle procedure legali stabilite.
Non vi è, insomma, «bando» adeguato a
svolgere una simile funzione che solo la storia materiale dei movimenti è
in grado di generare incidendo per via diretta sui rapporti sociali
dati. Non è certo compilando moduli e stilando preventivi «convenienti»
che si possono introdurre nuove forme della politica e della socialità.
IL SECONDO PASSO, in
piena sintonia con l’ortodossia liberista, consiste nel sottomettere al
calcolo costi/benefici e dunque al mercato quella produzione di
relazioni e ricchezze extraeconomiche che, per definizione, gli si
dovrebbero sottrarre. Il tema degli «sprechi» accomuna singolarmente le
vecchie vestali dell’austerità e i nuovi moralizzatori della vita
pubblica.
Due elementi sottendono questo processo di normalizzazione.
Il primo consiste nell’evidente volontà
di canalizzare e controllare attraverso precise procedure di
partecipazione decise dall’alto bisogni e conflittualità che
attraversano il corpo sociale, in una versione caricaturale della
democrazia diretta on e off line.
Il secondo elemento è rappresentato da
una sorta di formalismo giuridico, privato però del rigore logico e
delle aspirazioni universalistiche che gli sono proprie, e consegnato
paradossalmente a quell’arbitrio ideologico dal quale la «dottrina pura
del diritto» aveva la pretesa di difenderci.
In buona sostanza ogni elemento di
trasformazione sociale finisce sottoposto a una politica dirigista che
ben si accompagna con la ritrovata passione per lo stato nazionale.
Tutto quello che ricade al di fuori di
questi criteri in quanto prodotto da una storia di culture, conflitti e
autonomie estranee alle trafile burocratico-amministrative è dichiarato
illegale, nemico, da cancellare.
Bisognava pur aspettarsi che le minacce
ripetutamente rivolte alle realtà occupate e autogestite presto
sarebbero state estese, nelle parole e nei fatti, anche a chi si era
conquistato una qualche patente di riconoscimento politico e
istituzionale.
Gli sgomberi, nei quali le
amministrazioni del Pd da Roma a Bologna non hanno mancato di mettersi
in luce (salvo la vigliaccheria dei sindaci che non sapevano, non
volevano o non potevano farci nulla) sono la conseguenza pratica e
militare dell’ideologia «legalitaristica» e delle regole di mercato che
la ispirano.
AGLI SGOMBERI NON SEGUE
altro che il ritorno al silenzio e all’abbandono dei luoghi che gli
occupanti avevano fatto rivivere e aperto alla città. Due soli esempi,
tra tanti possibili, per restare nella capitale: il teatro Valle e il
cinema America.
Tra finte trattative, false promesse,
fantasmatici progetti di restauro e riqualificazione, gli sgomberi non
sono stati altro, possiamo ben dirlo a distanza di anni, che la
riaffermazione astratta del principio di proprietà libero da ogni
riferimento all’utilità sociale o anche solo al semplice valore d’uso.
Da queste vicende converrebbe trarre qualche insegnamento.
Gli spazi autogestiti devono essere
difesi materialmente e in prima persona perché rappresentano un punto di
rottura tra logiche confliggenti.
Quella di una storia politica autonoma
generatrice di idee e relazioni proprie e quella dei «servizi» messi a
bando, o della concessione amministrativa, come se si trattasse di
lucrosi stabilimenti balneari.
Per la medesima ragione conduce a sicura
disfatta il carosello dei distinguo, la competizione sui meriti
culturali e sulla rispettiva utilità sociale, alla rincorsa di una
amnistia normalizzatrice. Laddove la difesa del proprio prevale su
quella del comune principio di autorganizzazione.
PER LORO NATURA QUESTE imprese politico-culturali devono sapersi però rinnovare, non certo nel senso di una razionalizzazione concordata tra governance
e mercato, ma in quello di una riformulazione della propria autonomia
attraverso il mutare dei contesti, riaffermando le ragioni di una
rottura e di una diversità capaci di mettere in campo nuove idee e
giovani energie.
Con le ruspe è problematico discutere, ma non mancano gli strumenti per spaventare chi le guida e fargli cambiare strada.
Marco Bascetta
da il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento