01/02/09

Donne palestinesi: la loro lotta è la nostra lotta


Palestina: un esercito di donne in cammino

Compagne del Centro Sociale Askatasuna - Collettivo femminista Rossefuoco

Siamo state e saremo sempre al fianco della resistenza palestinese!
Come donne atee, laiche, comuniste non possiamo tirarci indietro proprio adesso solo perché Hamas non ci piace o non rispecchia il nostro ideale di resistenza, di vita, di liberazione per un futuro diverso.
Questa non è la guerra di Israele e Hamas, è un conflitto che vede schierato da una parte uno stato e il suo potentissimo esercito e dall'altra un territorio occupato e una popolazione sotto assedio. Questa è la guerra permanente di Israele contro la Palestina tutta, contro il suo popolo e i suoi movimenti di resistenza. Certo oggi nella Striscia di Gaza è Hamas la formazione politica e militare a ri
scuotere maggiore successo: forse prima di storcere il naso o peggio di abbandonare il campo, varrebbe la pena chiedersi il perché questo sia avvenuto, capire cosa stia succedendo e metabolizzare i cambiamenti che si sono dati negli ultimi anni.
Stare al fianco della popolazione palestinese non significa sostenere a spada tratta il progetto di Hamas di uno stato islamico della Palestina. Prima di tutto nei territori ci sono anche altre formazioni che partecipano alla resistenza, ma sembra che Israele e i media occidentali preferiscano presentare il conflitto in altro modo. In secondo luogo è sempre stata tutta la popolazione a partecipare alla lotta di liberazione: far coincidere Hamas con l'intera società palestinese ci sembra un po' semplicistico e fuorviante. In ultimo, proviamo a semplificare il discorso con un esercizio di fantapolitica e pensiamo alla situazione che viviamo qui in Italia. Se la Spagna ci invadesse, i nostri amici baschi non dovrebbero solidarizzare con noi soltanto perché c'è Berlusconi al governo?

Allora per qualche salottiero benpensante di sinistra o per qualche purista laico dovremmo abbandonare i palestinesi o far loro le pulci perché Hamas è troppo religiosa? Dovremmo rifiutarci di partecipare ai cortei nelle nostre città perché gli immigrati invocano troppe volte il nome di Allah?
Le perplessità e i dubbi sono certamente legittimi, ma la complessità e la drammaticità della situazione in Palestina ci costringono ad uno sguardo meno ideologico e più disponibile a cogliere - per assumerle e superarle - tutte le contraddizioni che abbiamo di fronte.
Certo non possiamo esultare, preferiremmo in cuor nostro che a capo della resistenza ci fosse una formazione di sinistra, ma questo non toglie che abbiamo il dovere di essere al fianco della popolazione palestinese. Senza se e senza ma. Questo non significa tapparsi il naso o scegliere il meno peggio. Significa comprendere che in questo momento in Palestina c'è una guerra che costringe a delle priorità e che i palestinesi non sono un popolo di confusi che non sanno quello che stanno facendo. È scorretto credere di dover insegnare loro a fare una resistenza che poi noi possiamo rivendicarci senza problemi perché è proprio come la volevamo.
La guerra e l'occupazione durano da più di sessant'anni e se il mondo è cambiato, è cambiata anche la Palestina. Forse sarebbe ora che ne prendessimo atto anche noi tutti che continuiamo a gridare al cielo Palestina rossa nella speranza di un'imminente rivoluzione comunista. O forse preferiamo ad Hamas Abu Mazen "il fantoccio" perché ha una faccia più rispettabile, ci fa meno paura e ci crea meno paranoie?

La sinistra palestinese, in particolare il Fronte popolare di liberazione, l'organizzazione che per decenni il movimento antagonista italiano (e non solo!) ha sostenuto attivamente, non esiste quasi più. La repressione (carcere e assassinii), le lotte intestine, la corruzione sono alcuni tra i fattori che hanno determinato il tramonto delle forze laiche e cosiddette progressiste nei territori palestinesi. Non bisogna inoltre tralasciare il fatto che all'Occidente ha fatto comodo che la Palestina si tingesse di verde e che sbiadisse la speranza di una liberazione dei territori di stampo comunista/socialista.
Alla fine degli Anni Ottanta è stata fondata Hamas che se inizialmente si è fatta notare maggiormente per gli attentati suicidi contro Israele, in poco tempo si è presa a carico di gestire anche ampi programmi sociali. Hamas ha infatti guadagnato molta popolarità nella società palestinese con l'istituzione di ospedali, nuovi sistemi di istruzione, biblioteche e altri servizi in tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Hamas ha costruito passo dopo passo il proprio radicamento nei territori occupati, proponendosi come forza propulsiva di resistenza contro Israele ma anche e soprattutto come movimento in grado di dare soluzioni concrete immediate a tanti bisogni primari della vita quotidiana della popolazione. Hamas ha voluto dire resistenza armata, ma anche cibo, scuole, ospedali, reti solidali.
Allo stesso modo oggi la religione per la popolazione palestinese e araba in generale ha assunto un significato e un valore in più. L'Islam è di fatto, che ci piaccia o no, un elemento identitario fortissimo, soprattutto per tutti quegli arabi che sono emigrati nel mondo occidentale e vivono sulla loro pelle cosa vuol dire essere straniero, essere guardato con sospetto, essere considerato un soggetto pericoloso, un potenziale terrorista, un personaggio con usanze strane che è sempre meglio tener lontano. La fede e i suoi riti come elementi identitari ma anche di contrapposizione, di distinzione orgogliosa e di difesa e resistenza nei confronti di quella guerra senza confini che il mondo intero combatte contro di loro. Una guerra che qualcuno vorrebbe tra il bene e il male, tra le giuste e sacre democrazie occidentali e le tirannie demoniache del mondo arabo.

Se fossimo in un mondo ideale, le culture entrerebbero a contatto in maniera libera e dunque le dinamiche di omogeneizzazione culturale porterebbero a una fusione e a una valorizzazione dei diversi aspetti di ogni singola cultura. Oggi di fatto non è così. Le rotte della globalizzazione culturale (come di quella economica) non sono libere e paritetiche: c'è una direzione preferenziale che spinge verso l'occidentalizzazione forzata delle culture locali. La perdita violenta di un'identità culturale territoriale fa sì che rimangano spesso in campo solo gli aspetti più conservatori e di per sé più legati a poteri forti (come la Chiesa, tanto nel mondo arabo quanto nel nostro).
Se ci pensiamo, lo stesso meccanismo avviene anche in Italia. Al di là di chi ha fatto dell'essere laici e anticlericali la propria bandiera, nel momento in cui la nostra cultura si confronta con quella dei migranti, la Chiesa attrae consensi, cercando di incarnare la nostra "identità culturale", antitetica a quella straniera. Nel mondo arabo, privato di una cultura identitaria forte dalle regole del mercato capitalista, l'Islam resta l'unico appiglio. Lo stesso avviene in Palestina, un territorio e un popolo storicamente laici o comunque non fortemente religiosi.
Hamas ha istituito scuole "confessionali", così come l'EZLN nei territori del Chiapas ha costruito scuole dove viene insegnata ai bambini la cultura indigena come prima forma di resistenza culturale.
L'Islam è tutto quello che il capitalismo e la globalizzazione hanno lasciato al mondo arabo, dopo aver lavorato intensamente per sradicare il sapere popolare dal suo territorio.

Non dobbiamo poi dimenticarci di chi ha messo in campo i termini di questo scontro senza frontiere. Chi ha dettato le regole del gioco? Chi ha deciso cosa è il bene e cosa è il male? Ma soprattutto chi ha intriso ipocritamente di religiosità uno scontro che è tutto economico, politico, sociale? Chi ha stabilito che la sicurezza del mondo occidentale è direttamente proporzionale alla distruzione del mondo arabo?
Sicuramente non Hamas, ma nemmeno i talebani o i gruppi legati ad Al Qaeda se vogliamo dirla tutta. La responsabilità è dell'Occidente, degli Stati Uniti, dell'ideologia teocons di Bush e dei suoi affiliati ad aver posto lo scontro in questi termini. Hamas invoca Allah, ma quante volte Bush si è presentato come il presidente guidato da Dio nella lotta contro il male? O ancora quanti stati al mondo oggi sono teocratici quanto Israele, che oltre a identificarsi completamente con la religione ebraica, si identifica con il proprio esercito in guerra permanente, sempre pronto alla santissima missione di proteggere la terra promessa? Nessuno però sembra scandalizzarsi di questo. Le religioni, o meglio le istituzioni religiose sono repressive e oppressive sempre e ovunque. Si giudica arretrato e poco civilizzato il mondo arabo perché così fortemente impregnato di Islam, ma si legittima la nascita e lo sviluppo di uno stato che trova le sue ragioni nel fondamentalismo sionista.

Ci chiediamo anche come mai Hamas abbia avuto tanto successo tra la popolazione femminile. In molti infatti sostengono che le donne rappresentino lo zoccolo duro dell'ampio consenso popolare di cui gode Hamas a Gaza. Eppure si tratta di un movimento islamico e dalle nostre parti si sostiene che la donna araba e/o musulmana non sia emancipata perché indossa il velo e rispetta i dettami della religione. Allora perché tante donne con Hamas? Lungi da noi difendere l'oscuramento e la repressione dei corpi femminili, chiediamoci almeno perché mai il velo abbia assunto tutto questo carico simbolico. Prima di lanciarsi in giudizi e anatemi varrebbe la pena provare a porsi delle domande e azzardare delle risposte.
Il punto non è chi porta o no il velo, che rimane il simbolo di una cultura, ma di come queste donne riflettano su se stesse. Ci sono donne con tanti figli e il velo che lavorano instancabilmente per cercare di cambiare la situazione femminile, tanto quanto esistono donne senza velo, vestite in modo estremamente occidentale, convinte di essere inferiori agli uomini e che il loro ruolo sia semplicemente quello di fare figli.
Non esiste parte del mondo ove il corpo e il ruolo della donna non vengano strumentalizzati a favore del potere. Il velo, nel mondo arabo, non è sempre simbolo di oppressione, ma di una cultura che, in Palestina, lotta ogni giorno contro l'oppressione. E quando viene indossato dalle donne in Occidente, spesso è uno strumento di difesa e di resistenza.

Vogliamo chiudere questo contributo con due immagini che ci sembrano in qualche modo esemplari.
La marcia delle donne a Gaza nel 2006. Erano tutte velate, probabilmente legate o vicine ad Hamas, e sono andate contro l'esercito israeliano che si era messo a sparare. Forse se non avessero avuto il velo sarebbero diventate icone di libertà, come accadde per le madri di Plaza de Mayo, ma essendo musulmane molta sinistra non riesce a rivendicarsele fino in fondo.
Oppure pensiamo a quanto l'opinione pubblica internazionale era rimasta colpita dalle donne di Beit Hanun. I media occidentali avevano accusato Hamas di averle utilizzate come scudi umani. Nella realtà quelle donne non erano state usate, ma avevano deciso liberamente di usare il proprio corpo in un atto di resistenza contro le forze di occupazione israeliane. Quelle donne sono il simbolo della resistenza di un popolo, una resistenza che ha sempre visto le donne palestinesi protagoniste. Protagoniste e non strumento, soltanto perché indossano un velo o invocano il nome di Allah.

Nessuno nega che le donne palestinesi vivano un contesto molto problematico. Alla ferocia di Israele si aggiungono l'oppressione maschile e la repressione religiosa.
Noi speriamo che le donne di Palestina vincano la loro battaglia e riescano a liberare il loro territorio tanto quanto le loro esistenze.

La loro lotta è la nostra lotta.

Le compagne del Centro Sociale Askatasuna - Torino
Collettivo femminista Rossefuoco

Nessun commento: