Mentre scrivo queste righe i media già hanno smesso di parlare di Saman Abbas. Oggi si parla del “delitto d’onore” di Nunzia Alleruzzo, figlia di un boss, uccisa dal fratello per riscattare l’onore della famiglia. “Tradiva il marito con esponenti di un clan rivale” han detto al TG. “Tradiva il marito con esponenti del suo stesso clan e anche di uno rivale” ha detto il pentito che accusa il fratello. Trattato come un delitto di mafia, il femminicidio di Nunzia scompare dietro il ruolo “salvifico” dello stato, così come altri omicidi sul lavoro scompaiono dietro l’assegno unico per sostenere la natalità.
Mentre scrivo queste righe spero ancora di poter essere smentita, spero ancora che Saman Abbas sia viva e stia bene, che si è trattato solo di un grandissimo equivoco. Ma Saman purtroppo sarebbe soltanto l’ultima di una lunga serie di donne, non solo immigrate, uccise per aver “disonorato la famiglia”. Di loro, di Saman, probabilmente uccisa dallo zio con la complicità della sua famiglia, di Hina Saleem, uccisa dal padre, di Shahnaz Begum, uccisa a sassate dal marito per aver difeso la figlia Nosheen che si opponeva a un matrimonio forzato, i media non parlano se non per indicare all’opinione pubblica l’arretratezza dello “straniero” e “l’estraneità” delle istituzioni, di questo sistema sociale fondato sulla famiglia monogamica e sulla discriminazione classista e patriarcalista delle donne a questi femminicidi, imputandoli e relegandoli, di volta in volta, a una sfera sociale altra, lontana da noi per cultura, religione o contesto e sulla quale è lecito innescare e perpetuare campagne xenofobe e securitarie.
Se Saman è stata uccisa, l’ha uccisa non soltanto la violenza patriarcale
che la finta sinistra nostrana finge di non vedere col pretesto del relativismo
culturale. L’ha uccisa l’essere immigrata e sola in un paese straniero, un
paese che non la riconosce e le nega il diritto di cittadinanza, vincolandolo
allo ius sanguinis, cioè alla patria potestà, o alla possibilità di percepire
un reddito con un lavoro regolare alla maggiore età.
In Italia Saman aveva frequentato la scuola per un periodo troppo breve per
fare amicizie, le sue relazioni sociali erano quelle con la sua famiglia, la
mamma, le zie, gli altri parenti. Ancora minorenne però era riuscita a trovare
la forza di allontanarsi dalla sua famiglia, che aveva già deciso per lei della
sua vita, e aveva chiesto aiuto ai servizi sociali territoriali, che dall’ottobre
scorso l’avevano collocata in una struttura protetta nel bolognese. Per farlo
però ha dovuto denunciare i genitori, sentendosi anche in colpa, magari, perché
così avrebbero potuto perdere il permesso di soggiorno, perché in Italia, sia
lei che la sua famiglia, in quanto immigrati, sono trattati come cittadini (si fa per dire) di
serie B.
E anche nella comunità protetta, probabilmente, Saman si sentiva un po’
oppressa, oltre che estranea, perché da essa si era allontanata altre volte e
l’unica relazione affettiva che aveva era quella coltivata in segreto con un
ragazzo pachistano, suo coetaneo, che adesso teme per la sua vita.
Compiuti i 18 anni, lo scorso aprile, Saman è tornata nell’abitazione
dov’era cresciuta per recuperare i suoi documenti, senza i quali in Italia non
avrebbe potuto far nulla, neanche fuggire dalla famiglia-prigione seguendo un amore
appena sbocciato.
Pensando a Saman, è difficile non pensare anche a Malika, la giovane di
Castelfiorentino cacciata e minacciata di morte dalla famiglia perché lesbica. La
sua storia però è decisamente a lieto fine, perché Malika non era sola e
soprattutto perché Malika, essendo italiana, non ha avuto certo il problema dei
documenti per raggiungere striscia la notizia o il Maurizio Costanzo Show, con
un riscontro mediatico enorme. Malika ha ricevuto la solidarietà di personaggi
come Fedez, Elodie, Mhamood, Alessia Marcuzzi o Tommaso Zorzi.
Niente di tutto ciò è stato per Saman, per lei solo la solidarietà, pelosa
e da morta, dei vari Salvini, Meloni ecc. che ne hanno approfittato per
rilanciare la campagna elettorale scatenando la solita canea islamofobica, anti-immigrati e
securitarista, nel silenzio più totale della cosiddetta sinistra.
A questi sciacalli, così come alle anime belle della sinistra borghese, varrebbe la pena ricordare che è anche grazie ai loro decreti sicurezza, grazie al ricatto del permesso di soggiorno, oltre che alla mancanza di un lavoro che le renda indipendenti, che le donne immigrate in Italia, triplamente sfruttate e oppresse, spesso soccombono alla violenza di padri e padroni.
Per costoro la violenza sulle donne è un problema solo culturale, e quindi va affrontato a parole e non in armi. Per queste femministe la condizione della donna è immutabile, si possono fare delle battaglie solo culturali e di stampo riformista, che magari consentiranno ad alcune di loro di acquisire o mantenere privilegi. La storia in realtà ha dimostrato ben altro e a queste affermazioni si può rispondere con le parole della rivoluzionaria russa Alessandra Kollontaj:
“Alcuni credono che la
donna, nelle vecchie epoche quando l’umanità era ancora immersa nella barbarie,
era in una situazione peggiore di quella attuale, conduceva quasi una vita da
schiava. Questo è falso. Sarebbe errato credere che la liberazione della donna
dipenda dallo sviluppo della cultura e della scienza, che la libertà delle
donne dipenda dalla civilizzazione di un popolo. Solo i rappresentanti della
scienza borghese possono affermare cose del genere. Tuttavia, sappiamo che non
è né la cultura, né la scienza che possono affrancare le donne, ma un sistema
economico dove la donna svolga un lavoro utile e produttivo per la società. Il
comunismo è un sistema economico di questo tipo“.
(Dalle conferenze di Alessandra Kollontaj, 1921)
Una compagna di l'Aquila
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