Pubblichiamo di seguito una lettera di Giuseppe Palatrasio per la sua amica Roberta.
La lettera descrive purtroppo una situazione che ora, a un anno dalla pandemia, è andata anche peggiorando. Ora, negli ospedali, nelle rsa e nelle cliniche private non si può neanche entrare a trovare amici, familiari e pazienti, per dar loro un aiuto affettivo, un sostegno psicologico, per vedere realmente come stanno. Hanno riaperto ristoranti e locali, ma non gli ospedali. Il personale rimasto, ora finalmente in ferie, non viene integrato con personale specializzato assunto con contratti stabili. Quei pochi, precari e precarie, per lo più somministrati per fronteggiare l'emergenza sanitaria, sono stati ributtati in mezzo a una strada, mentre invece ciellini e provita entrano tranquillamente, nella sanità pubblica e privata, come parassiti legalizzati, come sanguisughe della libertà di scelta delle donne.
Ciao Roberta oggi sono tre anni da quando hai perso la tua battaglia con il tumore più bastardo che ci sia. Verrebbe da dire - un po' retorici – che “sembra passato un secolo” ma la verità è che non passa giorno che io e le persone che ti hanno amato non sentano la tua mancanza e che non pensino che nel mondo si sia irrimediabilmente aperto un vuoto, che l'allegria non abbia più con chi conversare.
Tu hai affrontato la malattia in modo esemplare; anche in quello esempio di altruismo e positività per tutti, non hai permesso che oltre al cancro anche la disperazione, il risentimento e l'invidia ti mangiassero. Il tuo sorriso è stato l'ultimo ad andarsene e la tua risata risuonerà nell'aria ancora a lungo, chi ti ha conosciuta sa di cosa parlo.
Purtroppo però per noi persone normali risentimento e rabbia non si cancellano così facilmente. Il 26 giugno di un anno fa – in occasione del secondo anniversario della tua morte - ho scritto qualcosa che era pieno di questi sentimenti. Pensavo di pubblicarlo su FB ma poi per pudore o per scarsa convinzione non l'ho fatto. Mi sembrava che mettere anche la morte della mia amica “in politica” non fosse sufficientemente rispettoso. A distanza di un anno quello che ho scritto, mi sembra purtroppo ancora valido e dopo un anno in più di Covid, non sono più così convinto che la politica non c'entri. Stavolta lo condivido, senza farmi troppe domande e scusandomi in anticipo con chi eventualmente possa sentirsi offeso
Ciao Robi che il cielo ti sia lieve
26 giugno 2020
Due anni fa Roberta ci ha lasciato, due anni fa ho perso la mia migliore amica, quasi più di una sorella, compagna di viaggio e di sogni insieme al comune amico Antonio.
Roberta è morta per un tumore... se il 26 giugno dell'anno scorso prevaleva in me ancora l'incredulità, la tristezza e il desiderio di mantenere intatto il ricordo allegro, positivo, spensierato della mia amica... oggi prevale la rabbia, una gran rabbia e mi spiace non poter condividere qui pensieri e emozioni più rassicuranti.
Sarà per questo lungo periodo di lockdown che abbiamo vissuto (chissà Robi come l'avrebbe vissuto, probabilmente con tanta ironia e... qualche fuga clandestina), sarà l'esperienza di misurarsi con tanta forza con la paura della morte propria e dei propri cari, sarà lo tristezza di assistere alla tragedia delle tante morti avvenute intorno a noi, sarà anche la costernazione di assistere allo spettacolo quotidiano di quanta inefficienza e indifferenza mostra chi amministra la salute pubblica lombarda nei confronti di chi si ammala e verso il dolore dei familiari… insomma con lo scoppio della pandemia mi è sembrato di assistere su larga scala a quello che Roberta - e con lei la sua famiglia, il suo fidanzato, le sue amiche e amici - ha vissuto sulla sua pelle. La domanda che spesso mi sono fatto in questi mesi durante l'emergenza Covid - tutte queste morti erano evitabili? Me l’ero già fatta precedentemente due anni fa quando Roberta ha perso definitivamente la sua battaglia. La sua morte era evitabile?
Tutti siamo destinati alla morte e anche le persone giovani, con tanta voglia di vivere e piene di energia, di amicizia e di amore da dare possono ammalarsi e morire... fa parte del destino naturale dell'uomo. Tuttavia Roberta aveva 47 anni, secondo i protocolli medici non poteva ammalarsi di cancro al colon, le statistiche dicono che aveva bassissime probabilità essendo under 50. Probabilmente a livello scientifico è vero (anche se negli ultimi due anni altri due miei amici under 50 sono morti di tumore) ma questi protocolli (emanati nel 2013 dalla allora Ministra della Salute Beatrice Lorenzin nei Governi di centrosinistra di Letta e Renzi e recepiti immediatamente dalla Regione Lombardia governata da anni dal centrodestra) sono serviti per ridurre la spesa pubblica nella Sanità – fissazione di tutti i governi neoliberisti occidentali -e per limitare di tantissimo la libertà di azione dei medici di base (sulla base di un ferreo sistema di premialità e punizioni) nel fare check up e prevenzione e nel prescrivere esami diagnostici approfonditi di malattie gravi anche a chi non ha l’ “età giusta” per ammalarsi.
Può capitare quindi che - anche in presenza di sintomi gravi e rivelatori – il tuo medico di base – se sufficientemente pavido nei confronti dello Stato e delle conseguenze economiche ed amministrative a cui può andare in conto se lavora in maniera “non conforme” o se sufficientemente complice con le direttive ministeriali (per convinzione ideologica o per interesse personale) – ti dica di aspettare, ti liquidi con diagnosi rassicuranti da rivedere tra un paio di mesi, ti dia qualche farmaco comune per alleviare i sintomi più gravi e ti faccia sentire un pezzo di ipocondriaco i cui problemi principali sono l'ansia, l'eccesso di fantasia e la scarsa tolleranza al dolore. E tu paziente... impari ad avere pazienza... a convivere con i sintomi fin quando non si aggravano, ad aspettare quasi come si fosse in presenza di una gravidanza e non di un male che potrebbe crescerti dentro.
Roberta ha dovuto aspettare mesi per farsi riconoscere l’evidenza grave del suo cancro (visto che l’età... non l’aveva) e quindi farsi finalmente prescrivere un esame decisivo dal suo (spaventato o complice?) medico di base. Tuttavia nonostante la prescrizione (senza l'indicazione di “urgenza”), ha dovuto aspettare altri 3 mesi (dopo anni di tagli di medici e ospedali, il Sistema sanitario pubblico lombardo non è più così “per tutti e veloce” come una volta) per sottoporsi finalmente all'esame diagnostico e avere la prova dell'origine dei suoi disturbi. Sono così trascorsi 6 mesi e con un tumore si sa sono tanti, possono far la differenza in certi casi tra la vita e la morte… nel suo caso l’esame ha mostrato a uno stadio avanzato quello che già 6 mesi prima i sintomi ancora non così gravi potevano però far sospettare, a patto che si fossero fatti gli esami giusti malgrado età, protocolli, liste d'attesa ed esigenze di risparmio. Insomma nel suo caso non si è voluto applicare il principio di precauzione… com’è successo in questi tre mesi a molti ammalati Covid.
La sua morte era evitabile?
Poi Roberta è stata ricoverata e operata all’Ospedale San Raffaele, un grande ospedale privato (ma che incassa tanti rimborsi statali e regionali) costruito da Comunione e Liberazione perla della famosa Efficienza Sanitaria Lombarda,. Lì vanno a farsi curare Berlusconi e i calciatori del Milan, lì lavorano dei luminari della medicina, lì respiri il fatto che la Salute oltre ad essere un'esigenza per tutti e anche un gran bell'affare per pochi. Lì io ho avuto l’impressione – nelle innumerevoli visite fatte a Roberta - che se sei una persona normale vieni operato da medici “normali”, ti assistono degli specializzandi in medicina (anche in oncologia), i posti letto sono sempre pochi e puoi facilmente finire in stanze condivise con altri pazienti anche se, secondo protocollo, dovresti stare in isolamento per evitare infezioni. Inoltre essendo un ospedale privato, il principio che lo governa è lo stesso di qualsiasi azienda privata cioè la triade “efficienza, economicità e rapidità”. Sarà per questo che Roberta è stata operata in endoscopia (sistema più rapido, con poco impiego di personale ma con minor possibilità di intervenire in presenza di complicazioni durante l’intervento) nonostante per quel tipo di intervento sia considerata di gran lunga preferibile dalla comunità scientifica, la modalità tradizionale (che allunga i tempi di operazione e di degenza , richiede un impiego maggiore di personale e un chirurgo esperto ma che è più sicura nell'evitare effetti indesiderati)? La risposta è sì e non lo dico io, lo ha detto a Roberta un altro medico, un vero luminare, di un altro ospedale ma purtroppo quando l’operazione era già bella che fatta. E dopo solo un mese se ne sono viste le conseguenze
La sua morte era evitabile?
Non è successo anche durante questa epidemia che in Lombardia sono stati fatti interventi sbagliati – basati solo sull’emergenza, che diventa a volte fretta e superficialità - perchè negli ospedali pubblici manca personale, posti letto e strumenti? Quante vite si potevano salvare?
Ritardi nella diagnosi + operazione “inopportuna” a quel punto probabilmente la “diagnosi sfavorevole” era per Roberta definitiva. Ma almeno avrebbe potuto passare quel che le restava da vivere con meno sofferenza e più dignità? La mia impressione che anche allo stadio terminale il nostro sistema sanitario (pubblico e privato) non ha i mezzi e la volontà per garantire una qualità della vita sufficiente a noi cittadini. Tante piccole trascuratezze (l'Ospedale San Raffaele che di fatto non l'assiste più), piccoli errori, sentirsi trattati come un numero e non come una persona, a quello stadio della malattia dover sempre ricorrere a ospedali sovraffollati, spersonalizzanti, spesso non adeguatamente igienizzati, senza stanze e personale sufficienti per tutti, perchè per i malati oncologici (ma per tutti noi) mancano ambulatori più piccoli disseminati nei quartieri, l'assistenza domiciliare è garantita solo dal privato e allo stadio terminale, i sempre meno medici di base (il 60% è andato o sta andando in pensione e la maggior parte non viene sostituito) hanno ormai così tanti pazienti da non riuscire a seguirne decentemente nessuno.
I suoi ultimi mesi di vita erano migliorabili?
Tanti medici generici o specialisti, da qualche anno a questa parte, mi sembrano più motivati a non far spendere soldi all'Amministrazione pubblica (come fossero dei ragionieri qualsiasi) che a prevenire malattie, salvare vite, alleviare sofferenze, mettendo questo al di sopra di tutto, soprattutto se nel tuo studio o nel tuo reparto arrivano pazienti giovani che avrebbero ancora tanto da vivere e da dare.
Molti medici e scienziati di buona volontà, invece, durante il lockdown suggerivano contro il Covid altri metodi basati più sull’assistenza domiciliare, sull’intervento tempestivo al comparire dei primi sintomi e su una visione d’insieme e multilivello della malattia. Insomma su un’altra organizzazione del sistema sanitario e su un diverso approccio alle malattie, che non vuole ottenere risultati tutti e subito e non basato solo sull’emergenza e sul sintomo. Sono rimasti inascoltati.
Quante migliaia di morti erano evitabili?
Giuseppe Palatrasio
Da una denuncia all'AGI
Come stanno i soccorritori del 118? Il racconto di un milanese
Mille euro al mese di stipendio per turni anche di più di dieci ore, nessuna postazione dove lavarsi, mangiare, andare in bagno. "Credevo che la piccola notorietà raggiunta come eroi ci avrebbe aiutato a farci trattare come veri lavoratori, ma così non è stato”.
“Ciao, sono un soccorritore milanese e volevo farvi sapere che stiamo male”.
Comincia così il post su Facebook diventato virale di Francesco Nucera, 42 anni, da 19 dipendente di un’associazione che si occupa del primo soccorso ai cittadini. Contattato dall’AGI, spiega di averlo scritto “per far conoscere la realtà di chi, un anno fa in pieno Covid, veniva considerato indispensabile, ma oggi si trova nelle condizioni di prima, se non peggio. Credevo che la piccola notorietà raggiunta come eroi ci avrebbe aiutato a star meglio, a farci trattare da veri lavoratori, ma così non è stato”.
"1.000 euro al mese, non bevo perché la pipì è un lusso"
Nucera, che è anche delegato sindacale, si riferisce alle condizioni di stipendio, la media è di mille euro, ma anche al modo di lavorare che non prevede postazioni fisse, né luoghi per cambiarsi o ristorarsi. Un ‘on the road' incessante che rende tutto molto faticoso, a volte ai limiti della resistenza, come testimoniano le condivisioni dei colleghi al suo post.
Fa l’esempio di una giornata tipo: “Turno di 13 ore, sveglia alle 5 e poi via fino alle 19. Sempre che dalla Centrale non arrivi un servizio all’ultimo minuto. Ultimamente sento il peso del caldo. Forse per colpa dei camici che uso per il Covid, o più semplicemente perché sto invecchiando. Non ho un tetto che mi permetta di schivare l'afa e neppure un bagno per sciacquare la faccia. Devo scegliere se tenere l'ambulanza accesa per avere l'aria condizionata o morire di caldo. Vorrei rispettare l'ambiente, e spegnere il motore, ma fa troppo caldo: le ascelle pezzano, il sudore scivola lungo la schiena e bagna la polo dell'associazione. Devo tirare sera e non ho modo di cambiarla. Quindi: 'scusa natura, ma io ho bisogno dell'aria condizionata'"
"Non bevo da inizio turno - prosegue - fare la pipì è un lusso che non posso permettermi. Non ho voglia di farmi dieci caffé al giorno per 'scroccare' il bagno al bar e non ho nemmeno voglia di spendere più di dieci euro per farlo. I due caffé giornalieri li prendo alle macchinette, decisamente più adatto alle tasche di chi fa questo mestiere. Solo due caffé al giorno perché è il limite che mi permette la gastrite. Negli anni ci sono rimasto male, pare che ingoiare il cibo a orari improponibili, spesso in piedi, non sia il massimo per il nostro apparato digerente. Ma d'altronde noi la pausa pranzo non l'abbiamo. Le persone non smettono di star male a mezzogiorno e nessuno ha mai pensato di trovare una soluzione. E poi, i vestiti: non possiamo avere una lavanderia come qualsiasi lavoratore normale? Laviamo le divise a casa, anche quando sono sporche di sangue e molto altro.”.
"L'ambulanza ora si chiama anche per la febbre"
A Milano, spiega Nucera, “le Odv (organizzazioni di volontariato della Croce Rossa) hanno a disposizione delle piazze, in alcune non c’è nemmeno un parcheggio per noi e stiamo in seconda fila. Sarebbe bello che ci dessero delle strutture dove stare, mangiare, rinfrescarci, ma nell’attesa si potrebbero studiare delle soluzioni, per esempio metterci a disposizione delle Asl, almeno per il bagno”.
Nei suoi 19 anni di servizio ha visto le condizioni di lavoro peggiorare. “Questo perché prima c’era l’educazione a chiamare le ambulanze solo se necessario, ora, in base alle nuove leggi, anche chi sta male in ufficio o a scuola ci chiama e, in generale, come dimostrato dal Covid, la sanità lombarda è incentrata sugli ospedali. Così anche solo per una febbre fanno intervenire noi”. "Stiamo cercando di dialogare con Areu, l’Agenzia regionale per l’emergenza - conclude - anche se i nostri datori di lavoro sono le Odv. Non so cosa riusciremo a ottenere. In fondo, anche quando ci consideravano eroi, in cuor nostro sapevamo di non contare nulla”.
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