02/06/21

Aumentare la natalità? Sì, ma solo se resti a casa. La storia di Elisa, discriminata sul lavoro perché mamma


Donne e lavoro: discriminata perché mamma, altro che pari opportunità
Le mamme lavoratrici continuano ad essere discriminate, umiliate e lasciate ai margini. Elisa ha deciso di non accettare i soprusi. Ecco la sua storia, arrivata fino in Cassazione
di Lorenza Pleuteri, su Osservatorio Diritti
«Hai voluto avere un figlio? Resta a casa. Se rimani incinta, ti devi dimettere. Scegli: o la famiglia o l’impiego». Quante donne si sono sentire dire e si sentiranno dire queste parole? Quante subiranno in silenzio? E quante invece non abbasseranno la testa e faranno valere i loro diritti?
Elisa D.P., una commessa-mamma in faticoso equilibrio tra casa e lavoro, ha deciso di non accettare un trattamento umiliante. E di combattere per affermare i suoi diritti. Ostacolata e pressata, da un’altra donna, ha promosso e portato avanti una azione civile antidiscriminazione. Dieci anni di vita, spese, rinunce, scoramento, ansia, tentazione di mollare, batoste. «Ma ho resistito, grazie anche all’aiuto di mio marito. E rifarei tutto»

In lotta contro la discriminazione di genere: dalla sconfitta alla vittoria finale
Il giudice del lavoro di Firenze inizialmente le aveva dato torto, al primo ricorso. Lei non si è scoraggiata. È andata in appello. Alla fine è riuscita ad avere dignità e giustizia. L’azienda commerciale da cui dipendeva e la superiore gerarchica, la compagna del proprietario, in secondo grado sono state riconosciute responsabili di atti discriminazione legati al genere e condannate a pagarle 10 mila euro di danni morali, esistenziali, psicologici (contro i 50 mila richiesti).
Inoltre dovranno rifondere le spese da lei sostenute e i soldi sborsati dopo il primo grado. La Cassazione ha chiuso definitivamente il caso a suo favore, con l’ordinanza 11.113 pubblicata a fine aprile 2021, respingendo il ricorso delle controparti.

Donne e soprusi sul lavoro in Italia: «Bisogna reagire»
«Spero che la mia esperienza – dice Elisa a Osservatorio Diritti – serva per convincere altre donne discriminate a non subire passivamente situazioni ingiuste. Bisogna reagire. È una questione di dignità e di rispetto».
A raccontare la storia è lei stessa, la commessa-mamma. «Sono del ’73, toscana. Lavoravo da qualche anno in un negozio di abbigliamento all’interno di un centro commerciale tra Firenze e Prato. Grazie a pesanti trattamenti – rivela – nel 2009 sono riuscita a restare incinta. Due gemelli, un maschio e una femmina. Dopo il parto, e i mesi di congedo, ho deciso di rientrare al lavoro. Con un mutuo sulle spalle – continua – lo stipendio di mio marito non bastava. Il posto da commessa era a tempo indeterminato, sicuro, solido. I soldi ci servivano».

Ostacoli, problemi, difficoltà: storia di Elisa, mamma lavoratrice
«La mia referente, la compagna del proprietario, ha cercato di convincermi a stare a casa. Ho scelto diversamente, consapevole che non sarebbe stato facile. Ho ricominciato a lavorare in negozio – riscostruisce sempre Elisa – e con l’orario ridotto per l’allattamento. Sono iniziate le difficoltà, le pressioni per indurmi a mollare, il far pesare le agevolazioni previste dalla legge per le mamme. Un esempio? Lei mi metteva spesso nei turni serali, più di quello che sarebbe stato giusto. Ho cercato di adattarmi, con mio marito che pensava ai bimbi mentre io ero di servizio».
«Poi, quando i piccoli hanno compiuto un anno, sono passata al tempo pieno. Il giorno dopo ho avuto una necessità urgente per mia figlia, per un problema di salute. La coordinatrice doveva organizzare la sostituzione.  Capisco che per lei era una complicazione. Ma ha passato il limite, con telefonate inaccettabili, frasi irripetibili. Mi ha rinfacciato il percorso che ho dovuto affrontare per diventare madre».

Discriminazione di genere sul lavoro: disprezzo e linguaggio triviale
Attacchi verbali «dal tenore palesemente discriminatorio», sintetizzano i giudici di Cassazione. Frasi colme di «disprezzo personale». Linguaggio «da trivio». L’emergenza legata alla salute della bimba è diventata un pretesto per insulti e minacce, il turno da coprire una colpa.
La sentenza di secondo grado riporta i contenuti delle chiamate.  «Ti ho assunto – si è sentita dire Elisa – perché pensavo fossi sterile. Ed è solo per le terapie del c… che me lo hai tirato in c…».
Altro passaggio: «Se non vieni al lavoro alle 15.30 ti faccio il c…., mi sono rotta i c…. di te e dei tuoi figli. Non me ne frega un c… se tua figlia sta male, procurati una fottuta baby sitter… Ricordati che io ho i soldi, il potere e le conoscenze per rovinarti».
Altro ancora: «Quel poveruomo del tuo uomo dopo dieci ore di lavoro non può badare a due neonati: devi stare a casa a fare la mamma, sei una calcolatrice e approfittatrice del c…».

Richiesta di giustizia e dimissioni: il tema del rientro al lavoro
Elisa ha deciso di promuovere un ricorso per comportamento discriminatorio, chiedendo un risarcimento per i danni non patrimoniali. «Il sindacato mi ha delusa, è rimasto fuori. Ho avuto l’appoggio della consigliera regionale di parità e ho assunto gli avvocati di uno studio specializzato. Mi hanno spiegato che sarebbe stata una causa lunga e piena di ostacoli, senza la certezza di un risultato positivo. Ho corso il rischio. Mio marito è stato al mio fianco dall’inizio e mi ha sempre spalleggiata. Mi ha detto: andiamo avanti e insieme, a costo di vendere la casa per pagare le parcelle e le spese».
La mamma-commessa è rimasta incinta della terza figlia, nel 2010. «Non ho avuto il coraggio di rientrare al lavoro. Non ce l’ho fatta. Avrei trovato un ambiente ostile. Avevo paura. Così mi sono dimessa e dedicata ai figli. Con uno stipendio in meno abbiamo affrontato rinunce e sacrifici».

«Stare zitte non porta a niente»: il diritto al lavoro va rivendicato
«Non mi sono mai pentita della scelta di denunciare la discriminazione, nemmeno dopo la prima decisione del tribunale, che fu mio sfavore. Ho creato un precedente, ho messo un piccolo mattoncino. In quel negozio non credo che altre donne madri passeranno quello che è toccato a me».
«Purtroppo – ricorda Elisa – negli ambienti di lavoro le vittime sono sempre tante, tantissime. Stare zitte non porta niente. Si deve reagire, anche se si devono mettere in conto tempi lunghi e costi non indifferenti. Mi sarebbe bastato avere delle scuse dalla mia referente. Le avrei accettate, avrei ritirato il ricorso.  E invece non c’è stata alcuna parola di pentimento».

Donne e lavoro in Italia: «Manca la cultura del risarcimento»
L’avvocato Francesco Rusconi, che ha seguito la commessa assieme al padre Fabio, sottolinea: «Il nostro ordinamento ha strumenti processuali all’avanguardia, contro le discriminazioni di genere e lavorative. Ma non è in grado di offrire un congruo ristoro a chi le subisce. Alla nostra assistita sono stati riconosciuti 10 mila euro, una cifra alla portata della controparte, facilmente assorbibile. Manca una cultura del risarcimento, manca l’idea che il pagamento dei danni debba avere anche un effetto dissuasivo. Alzando gli importi – sostiene – si scoraggerebbero i comportamenti illegali».

Donne e lavoro nell’era Covid
Per Elisa la strada da percorrere è ancora impervia. Prima della pandemia, coi figli grandicelli, ha cercato di rientrare nel mondo del lavoro. «Ma alla mia età nessuno mi vuole, anche se ho esperienza».
E l’emergenza Covid ha reso tutto ancora più complicato, in particolare per le donne e per le mamme.

Lavoratrici oggi sempre più penalizzate
Un recente dossier di Save the Children, dedicato a “Le equilibriste”, dà le dimensioni della penalizzazione delle lavoratrici, con e senza figli. «Nel 2020, a causa della pandemia, sono evaporati 456 mila posti di lavoro», con effetti negativi più marcati per le donne. «Per loro il calo è di 249 mila unità (- 2,5%) contro i 207 mila uomini (- 1,5%)».
Tra aprile e settembre 2020 il decremento delle lavoratrici ha doppiato la media europea (il 4,1% delle 15-64enni, a fronte del 2,1 % Ue)». Peggio dell’Italia ha fatto solo la Spagna.
«Ma anche quando le donne accedono al lavoro – evidenzia il rapporto – la loro condizione occupazionale continua ad essere caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato, rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi». Senza contare che la situazione peggiorerà con lo sblocco dei licenziamenti.

Il gap occupazionale tra madri e padri
«Il divario di genere nei tassi di occupazione tra i genitori di figli minorenni – ricapitola il dossier – nel 2020 è aumentato di mezzo punto, con i papà occupati all’87,8% e le mamme al 57,1 per cento. Non solo le madri tendono ad essere molto meno presenti nel mondo del lavoro rispetto ai padri. Il loro coinvolgimento – altro aspetto messo in evidenza – tende a diminuire al crescere del numero di figli, al contrario di quella dei padri».

Sempre più donne inattive
Il peggioramento riguarda anche le donne inattive. «La variazione più marcata si è registrata tra quelle con figli in età prescolare (l’anno scorso 59 mila inattive in più rispetto al 2019), a seguire quelle con figli 6-10enni (+ 14 mila), quindi quelle con figli 11- 14enni (+ 9 mila) ed infine le madri con figli adolescenti (15-17enni, loro con un incremento di 2 mila unità). Guardando al numero dei figli, risalta come il tasso di inattività delle madri con un figlio sia cresciuto dal 29,8% registrato nel 2019 al 32,4% del 2020. Per le madri di tre o più figli l’incremento è di circa due punti. Più contenuta la progressione per le madri con due figli, passata dal 36,4% al 37,8 per cento».
Le donne continuano inoltre a rappresentare la grande maggioranza delle persone con un impiego part-time. Le mamme con figli minorenni fanno un orario ridotto nel 38,1% dei casi, i padri nelle stesse situazioni familiari sono fermi 5,6 per cento.

Nessun commento: