Pubblichiamo il contributo delle compagne di Catania, che condividiamo integralmente:
Ciao
a tutte,
scriviamo
a poco più di un mese di distanza dall'assemblea nazionale di Roma,
inserendoci nel solco delle riflessioni messe in circolo da Livorno,
Firenze (10 dicembre), Milano (12 dic.), Mfpr (14 dic.) e dalla
singola che ha scritto a ridosso del Mfpr (14 dic.). Teniamo
anzitutto a ringraziare queste compagne per avere rotto il ghiaccio.
Ciascuna di queste comunicazioni ha sollevato, a modo proprio, una
serie di questioni di grande importanza. Al tempo stesso, dobbiamo
constatare con rammarico che quelle sollecitazioni sono rimaste
finora senza risposta: come se non interpellassero veramente nessuna
di noi, o come se fermarsi a riflettere fosse uno spiacevole
intralcio in un percorso a linea retta che non ammette ripensamenti e
momenti di verifica.
Anche
a Catania abbiamo avuto modo di confrontarci sulla due giorni romana,
sulla connotazione politica della piazza, sull'andamento della
discussione assembleare, sul modo in cui è stata presa la decisione
di rispondere all'invito della Fiom e sull'esito dell'incontro in
questione. Le valutazioni espresse nel corso dei nostri scambi non ci
hanno portate a conclusioni condivise: si sono anzi riprodotte, su
scala locale, tensioni analoghe a quelle che hanno attraversato
l'incontro nazionale. A fronte delle differenze emerse, ci è
sembrato che accanirci alla ricerca di una sintesi avrebbe voluto
dire livellare i contenuti della discussione fino al punto di ridurla
all'insignificanza.
Per
questo motivo abbiamo deciso di assumerci la responsabilità politica
di questo nostro contributo, che rispecchia soltanto una parte
dell'assemblea di Nudm Catania e non la sua totalità, firmandolo con
nomi e cognomi. Sappiamo di muoverci in controtendenza rispetto alla
policy di questa ml. Il punto è che, rompendo con l'abitudine
dell'anonimato e dell'auto-designazione geografica nelle
comunicazioni interne, vogliamo segnalare un'esigenza più
complessiva, dettata dalla necessità che avvertiamo di
problematizzare la prassi vigente del "consenso", che
rischia ormai di diventare una formula nebulosa da piegare alle
convenienze del momento: delegittimando il conflitto tramite la
produzione di sintesi fittizie, per esempio, o evitando di parlare
troppo apertamente dell'esistenza di una "linea" che, nel
corso degli appuntamenti nazionali, siamo chiamate a ratificare per
acclamazione.
Vorremmo
per altro essere chiare sulle ragioni più immediate che, a nostro
avviso, rendono indispensabile un momento di verifica: un conto,
infatti, è accogliere selettivamente alcune osservazioni critiche
per farle confluire nel documento da leggere al congresso della Fiom.
Un altro conto è ignorare le ragioni di chi non ha condiviso la
scelta di partecipare al congresso e di chi, in relazione al modo in
cui la decisione è maturata, ha lamentato l'esautoramento delle
assemblee territoriali da parte dell'assemblea nazionale. Un conto è
darsi strumenti affinché la mancanza di unanimità non si traduca
regolarmente in paralisi generale. Un altro conto è la sufficienza
con cui viene trattata la richiesta di rendere esplicite le
differenze politiche. È precisamente a quest'altezza che vediamo
riproporsi il problema di metodo evocato da chi ci ha precedute:
metodo che, per come noi lo intendiamo, non è procedura astratta o
espediente organizzativo, ma sostanza stessa della relazione
politica.
Il
metodo, d'altronde, non è disgiunto dal merito. A Roma è stato
detto che il congresso della Fiom sarebbe stata un'occasione buona
per far pesare la nostra forza, quella "potenza"
ritualmente esaltata a ogni incontro nazionale e nei nostri
comunicati, a prescindere dagli spostamenti reali che provoca nella
coscienza e nella società. È accaduto il contrario, la marea non ha
travolto alcunché. Non è la prima volta, d'altronde, che percepiamo
una certa riluttanza a misurarsi con questioni che inevitabilmente ci
obbligano a spostare la discussione dal piano immaginario a quello
reale, vale a dire a parlare non della nostra "potenza", ma
dei nostri limiti effettivi. Possiamo ben indovinare, e ce ne
dispiace, che qualcuna recepirà tutto questo come un'espressione di
disfattismo. Per noi, al contrario, smorzare i toni propagandistici,
almeno quando è in gioco il confronto interno, è una condizione
necessaria del fare politica femminista e della ricerca di un'azione
efficace.
Qualcun'altra
obietterà invece che questi rilievi non sono pertinenti perché Nudm
è per definizione "orizzontale".
Sfortunatamente, però, dichiararsi "orizzontali" non
equivale a esserlo di fatto. E dobbiamo dircelo con franchezza. Ci
sembra, infatti, che la situazione di cui stiamo discutendo rifletta
la cristallizzazione di una direzione informale che accentra nelle
mani di poche l'elaborazione strategica, lasciando alle molte il
compito di rendere esecutive le decisioni che ne derivano. Non è un
problema inedito nella storia dei movimenti femministi, come
sappiamo. Non abbiamo ricette pronte per risolverlo, ma ci piacerebbe
almeno affrontarlo insieme. Il primo passo potrebbe essere quello di
non gettare la polvere sotto il tappeto.
Naturalmente,
non ci sogniamo neanche per un istante di negare l'enorme impegno
profuso nell'organizzazione di manifestazioni e assemblee nazionali,
in questi ultimi due anni e più, da parte delle città che hanno
maggiori forze numeriche e possibilità di investimento personale.
Riconosciamo questa enorme mole di lavoro svolto e siamo grate alle
compagne. Diciamo però che i "nodi territoriali" più
piccoli e geopoliticamente periferici (non parliamo solo del sud, ma
del sud a maggior ragione) non dovrebbero essere schiacciati su una
linea nazionale in ragione della loro ridotta forza organizzativa.
Alcune di noi hanno avuto la percezione di non poter fare altro che
garantire in automatico il "consenso" o tacere, essendo
messe di fronte a fatti compiuti, senza che si creassero gli spazi, i
tempi e le condizioni sufficienti per esprimere posizioni diverse.
In
nome del "consenso", in effetti, si sono prodotte le
forzature sulla decisione relativa al congresso della Fiom (che si è
ritenuto di poter prendere a prescindere dalla consultazione delle
assemblee territoriali) e sulla redazione del report (da cui è stata
esclusa persino la semplice segnalazione di una non-unanimità), su
cui le compagne che hanno scritto prima di noi si sono già
soffermate. Per parte nostra, non mettiamo in dubbio le buone
intenzioni di chi ha partecipato al congresso della Fiom con
l'obiettivo di parlare alle lavoratrici. Ma non possiamo evitare di
chiederci quanto abbia influito il meccanismo del "consenso"
su una valutazione della nostra capacità di "inchiodare i
metalmeccanici alle loro responsabilità" rivelatasi, alla prova
dei fatti, completamente irrealistica.
Ci
chiediamo pure a che cosa effettivamente "acconsentiamo"
quando permettiamo ad altre organizzazioni di stabilire per noi i
nostri tempi, senza neanche prendere in considerazione la
possibilità di non farsi trovare là dove si viene chiamate.
Mettiamo da parte così facilmente l'adagio femminista secondo cui i
tempi delle donne sono i tempi che le donne si danno? E ci
chiediamo, infine, se il richiamo al "consenso" non sia un
modo per scongiurare qualsiasi discussione sulla direzione imboccata
da un movimento che ci pare sempre più orientato a supplire alle
carenze di una sinistra in agonia, che non ad affermare una pratica
femminista, a partire ovviamente dalla specificità dello sciopero
dell'8 marzo.
Come
faceva già notare qualcuna da Milano, con un'osservazione che forse
è ancora più pertinente per il sud da cui scriviamo, le nostre
esperienze come precarie, para-subordinate, disoccupate, pensionate,
de-sindacalizzate ci mettono nelle condizioni di ridimensionare il
peso che è stato accordato all'interlocuzione coi sindacati nel
corso dell'assemblea romana. Forse suonerà come un'ovvietà, ma
dobbiamo ribadirla perché è la nostra vita e non possiamo metterla
tra parentesi: la quota di lavoro remunerato, contrattualizzato e
sindacalmente inquadrato che eroghiamo è risibile rispetto a quella
che effettivamente svolgiamo. E nemmeno si spiegherebbe la nostra
posizione precaria sul mercato del lavoro salariato, senza tenere
conto di questo iceberg sommerso che coinvolge tutte le donne. Non
possiamo non partire da qui per pensare allo sciopero femminista e
insistere su quello che distingue una battaglia concepita in chiave
anti-eteropatriarcale da qualsiasi altra forma di vertenzialità
sindacale. A meno di non volerci seriamente raccontare — come pure
abbiamo letto nel report da Riccione — che "la violenza
patriarcale contribuisce a intensificare la precarietà e lo
sfruttamento di tutte e di tutti", rendendo di fatto
irrilevante la linea del genere: come se tra "tutte" e
"tutti" non esistesse un fossato di disuguaglianza, e come
se l'etero-patriarcato non avesse una propria corposa dimensione
sociale, ma esistesse soltanto come intensificatore ausiliario di
altre forme di dominio.
No,
la violenza etero-patriarcale non è una generica piaga culturale che
avvelena indistintamente la vita di tutte e tutti: non è una
conclusione che possiamo accettare, a maggior ragione in vista di uno
sciopero femminista globale, quando la stragrande maggioranza del
lavoro gratuito che si svolge nel mondo pesa sulle spalle delle
donne. Non è una conclusione che possiamo accettare, quando parliamo
di molestie, di violenza sessuale, con una scia di femminicidi che
prosegue indisturbata. Non è una conclusione che possiamo accettare,
quando le sorelle argentine ci insegnano che non è necessario
aspettare l'8 marzo per scioperare contro l'in/giustizia patriarcale.
Anche
per questo motivo, non possiamo permetterci il lusso di sprecare un
solo momento a stupirci per la risposta negativa della Fiom alla
richiesta di indire lo sciopero. Stupefacente sarebbe stato se
l'apparato dei metalmeccanici, folgorato sulla via di Damasco, si
fosse reso conto delle ragioni sociali che motivano l'organizzazione
autonoma di donne e lesbiche, o se avesse in qualche modo recepito le
analisi sottese alla nostra rivendicazione relativa al reddito di
autodeterminazione: richiesta a cui l'intero arco della Fiom, inclusa
la sua ala sinistra (pur disponibile all'agitazione per l'8 marzo
sulla base di una piattaforma anti-governativa riassunta in un odg
bocciato dalla maggioranza congressuale), si è per
altro sempre mostrato ostile. Sulla base di quali
premesse, allora, pensavamo di "aprire contraddizioni", in
assenza di una massa critica sufficiente?
Qualcuna
ci ha fatto notare che non potevamo lasciare inascoltato il grido
d'aiuto indirizzato dalle lavoratrici di fabbrica a Nudm. Bene: lo si
raccolga, quel grido, dove effettivamente esiste e dove ce ne sono le
condizioni. Ma se la composizione sociale che gravita intorno alle
nostre assemblee non si esaurisce nelle figure canoniche del "lavoro
produttivo"; se le parole d'ordine abitualmente usate per
mobilitare il "lavoro produttivo" rispondono a una
definizione di classe che non tiene conto dell'esistenza di classi di
sesso; se il "lavoro produttivo" convenzionalmente inteso
ricopre solo una minima parte delle nostre esperienze di
espropriazione, cancellazione e sfruttamento — se tutto questo è
vero, cerchiamo altre strade per portare lo sciopero fuori dalla
dimensione puramente simbolica.
Anche
perché, care compagne, ieri è stata la segreteria della Fiom a
interpellarci per poi rispondere picche, domani potrebbe essere
qualcun altro: ci metteremo sempre a disposizione con l'intento di
educarli, incassando condiscendenza, barattando i nostri contenuti in
cambio...? In cambio di che cosa? Qualcuna a Roma ha detto, tra gli
applausi di molte delle convenute, che "Nudm non deve
essere un movimento di donne per le donne, ma il movimento
alternativo". Significa forse che, in spirito di servizio,
dobbiamo scordarci in fretta delle ragioni per cui è nata Non Una Di
Meno e ripulirci della "macchia" infamante della parzialità
femminista? Quando abbiamo stabilito, esattamente, che quella
parzialità è una "macchia" da riscattare? Ci permettiamo
sommessamente di ricordare, visto che l'esempio forse ha qualcosa da
insegnarci, che lo slogan lanciato lo scorso anno dalla Comisión
8M che ha lavorato sullo sciopero con le reti femministe
sparse per la Spagna, era: «se si fermano le donne, si ferma il
mondo».
Stefania
Arcara
Deborah
Ardilli
Sara
Catania Fichera del Collettivo femminista RIVOLTAPagina
Mariagiovanna
Chiavaro Scardino del Collettivo femminista RIVOLTAPagina
Marica
Longo
Concetta
Palermo Puglisi
Valentina
Salpietro
Marinzia
Sciuto
Giulia
Strano
Collettiva
femminista CanaglieCatanesi
Centro
Antiviolenza Thamaia
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