02/01/19

Su assemblea del 25 e invito Fiom, considerazioni di una parte di NUDM Catania


Pubblichiamo il contributo delle compagne di Catania, che condividiamo integralmente:

Ciao a tutte,
scriviamo a poco più di un mese di distanza dall'assemblea nazionale di Roma, inserendoci nel solco delle riflessioni messe in circolo da Livorno, Firenze (10 dicembre), Milano (12 dic.), Mfpr (14 dic.) e dalla singola che ha scritto a ridosso del Mfpr (14 dic.). Teniamo anzitutto a ringraziare queste compagne per avere rotto il ghiaccio. Ciascuna di queste comunicazioni ha sollevato, a modo proprio, una serie di questioni di grande importanza. Al tempo stesso, dobbiamo constatare con rammarico che quelle sollecitazioni sono rimaste finora senza risposta: come se non interpellassero veramente nessuna di noi, o come se fermarsi a riflettere fosse uno spiacevole intralcio in un percorso a linea retta che non ammette ripensamenti e momenti di verifica.
Anche a Catania abbiamo avuto modo di confrontarci sulla due giorni romana, sulla connotazione politica della piazza, sull'andamento della discussione assembleare, sul modo in cui è stata presa la decisione di rispondere all'invito della Fiom e sull'esito dell'incontro in questione. Le valutazioni espresse nel corso dei nostri scambi non ci hanno portate a conclusioni condivise: si sono anzi riprodotte, su scala locale, tensioni analoghe a quelle che hanno attraversato l'incontro nazionale. A fronte delle differenze emerse, ci è sembrato che accanirci alla ricerca di una sintesi avrebbe voluto dire livellare i contenuti della discussione fino al punto di ridurla all'insignificanza.
Per questo motivo abbiamo deciso di assumerci la responsabilità politica di questo nostro contributo, che rispecchia soltanto una parte dell'assemblea di Nudm Catania e non la sua totalità, firmandolo con nomi e cognomi. Sappiamo di muoverci in controtendenza rispetto alla policy di questa ml. Il punto è che, rompendo con l'abitudine dell'anonimato e dell'auto-designazione geografica nelle comunicazioni interne, vogliamo segnalare un'esigenza più complessiva, dettata dalla necessità che avvertiamo di problematizzare la prassi vigente del "consenso", che rischia ormai di diventare una formula nebulosa da piegare alle convenienze del momento: delegittimando il conflitto tramite la produzione di sintesi fittizie, per esempio, o evitando di parlare troppo apertamente dell'esistenza di una "linea" che, nel corso degli appuntamenti nazionali, siamo chiamate a ratificare per acclamazione.
Vorremmo per altro essere chiare sulle ragioni più immediate che, a nostro avviso, rendono indispensabile un momento di verifica: un conto, infatti, è accogliere selettivamente alcune osservazioni critiche per farle confluire nel documento da leggere al congresso della Fiom. Un altro conto è ignorare le ragioni di chi non ha condiviso la scelta di partecipare al congresso e di chi, in relazione al modo in cui la decisione è maturata, ha lamentato l'esautoramento delle assemblee territoriali da parte dell'assemblea nazionale. Un conto è darsi strumenti affinché la mancanza di unanimità non si traduca regolarmente in paralisi generale. Un altro conto è la sufficienza con cui viene trattata la richiesta di rendere esplicite le differenze politiche. È precisamente a quest'altezza che vediamo riproporsi il problema di metodo evocato da chi ci ha precedute: metodo che, per come noi lo intendiamo, non è procedura astratta o espediente organizzativo, ma sostanza stessa della relazione politica.
Il metodo, d'altronde, non è disgiunto dal merito. A Roma è stato detto che il congresso della Fiom sarebbe stata un'occasione buona per far pesare la nostra forza, quella "potenza" ritualmente esaltata a ogni incontro nazionale e nei nostri comunicati, a prescindere dagli spostamenti reali che provoca nella coscienza e nella società. È accaduto il contrario, la marea non ha travolto alcunché. Non è la prima volta, d'altronde, che percepiamo una certa riluttanza a misurarsi con questioni che inevitabilmente ci obbligano a spostare la discussione dal piano immaginario a quello reale, vale a dire a parlare non della nostra "potenza", ma dei nostri limiti effettivi. Possiamo ben indovinare, e ce ne dispiace, che qualcuna recepirà tutto questo come un'espressione di disfattismo. Per noi, al contrario, smorzare i toni propagandistici, almeno quando è in gioco il confronto interno, è una condizione necessaria del fare politica femminista e della ricerca di un'azione efficace.
Qualcun'altra obietterà invece che questi rilievi non sono pertinenti perché Nudm è per definizione "orizzontale". Sfortunatamente, però, dichiararsi "orizzontali" non equivale a esserlo di fatto. E dobbiamo dircelo con franchezza. Ci sembra, infatti, che la situazione di cui stiamo discutendo rifletta la cristallizzazione di una direzione informale che accentra nelle mani di poche l'elaborazione strategica, lasciando alle molte il compito di rendere esecutive le decisioni che ne derivano. Non è un problema inedito nella storia dei movimenti femministi, come sappiamo. Non abbiamo ricette pronte per risolverlo, ma ci piacerebbe almeno affrontarlo insieme. Il primo passo potrebbe essere quello di non gettare la polvere sotto il tappeto.
Naturalmente, non ci sogniamo neanche per un istante di negare l'enorme impegno profuso nell'organizzazione di manifestazioni e assemblee nazionali, in questi ultimi due anni e più, da parte delle città che hanno maggiori forze numeriche e possibilità di investimento personale. Riconosciamo questa enorme mole di lavoro svolto e siamo grate alle compagne. Diciamo però che i "nodi territoriali" più piccoli e geopoliticamente periferici (non parliamo solo del sud, ma del sud a maggior ragione) non dovrebbero essere schiacciati su una linea nazionale in ragione della loro ridotta forza organizzativa. Alcune di noi hanno avuto la percezione di non poter fare altro che garantire in automatico il "consenso" o tacere, essendo messe di fronte a fatti compiuti, senza che si creassero gli spazi, i tempi e le condizioni sufficienti per esprimere posizioni diverse.
In nome del "consenso", in effetti, si sono prodotte le forzature sulla decisione relativa al congresso della Fiom (che si è ritenuto di poter prendere a prescindere dalla consultazione delle assemblee territoriali) e sulla redazione del report (da cui è stata esclusa persino la semplice segnalazione di una non-unanimità), su cui le compagne che hanno scritto prima di noi si sono già soffermate. Per parte nostra, non mettiamo in dubbio le buone intenzioni di chi ha partecipato al congresso della Fiom con l'obiettivo di parlare alle lavoratrici. Ma non possiamo evitare di chiederci quanto abbia influito il meccanismo del "consenso" su una valutazione della nostra capacità di "inchiodare i metalmeccanici alle loro responsabilità" rivelatasi, alla prova dei fatti, completamente irrealistica.
Ci chiediamo pure a che cosa effettivamente "acconsentiamo" quando permettiamo ad altre organizzazioni di stabilire per noi i nostri tempi, senza neanche prendere in considerazione la possibilità di non farsi trovare là dove si viene chiamate. Mettiamo da parte così facilmente l'adagio femminista secondo cui i tempi delle donne sono i tempi che le donne si danno? E ci chiediamo, infine, se il richiamo al "consenso" non sia un modo per scongiurare qualsiasi discussione sulla direzione imboccata da un movimento che ci pare sempre più orientato a supplire alle carenze di una sinistra in agonia, che non ad affermare una pratica femminista, a partire ovviamente dalla specificità dello sciopero dell'8 marzo.
Come faceva già notare qualcuna da Milano, con un'osservazione che forse è ancora più pertinente per il sud da cui scriviamo, le nostre esperienze come precarie, para-subordinate, disoccupate, pensionate, de-sindacalizzate ci mettono nelle condizioni di ridimensionare il peso che è stato accordato all'interlocuzione coi sindacati nel corso dell'assemblea romana. Forse suonerà come un'ovvietà, ma dobbiamo ribadirla perché è la nostra vita e non possiamo metterla tra parentesi: la quota di lavoro remunerato, contrattualizzato e sindacalmente inquadrato che eroghiamo è risibile rispetto a quella che effettivamente svolgiamo. E nemmeno si spiegherebbe la nostra posizione precaria sul mercato del lavoro salariato, senza tenere conto di questo iceberg sommerso che coinvolge tutte le donne. Non possiamo non partire da qui per pensare allo sciopero femminista e insistere su quello che distingue una battaglia concepita in chiave anti-eteropatriarcale da qualsiasi altra forma di vertenzialità sindacale. A meno di non volerci seriamente raccontare — come pure abbiamo letto nel report da Riccione — che "la violenza patriarcale contribuisce a intensificare la precarietà e lo sfruttamento di tutte e di tutti", rendendo di fatto irrilevante la linea del genere: come se tra "tutte" e "tutti" non esistesse un fossato di disuguaglianza, e come se l'etero-patriarcato non avesse una propria corposa dimensione sociale, ma esistesse soltanto come intensificatore ausiliario di altre forme di dominio.
No, la violenza etero-patriarcale non è una generica piaga culturale che avvelena indistintamente la vita di tutte e tutti: non è una conclusione che possiamo accettare, a maggior ragione in vista di uno sciopero femminista globale, quando la stragrande maggioranza del lavoro gratuito che si svolge nel mondo pesa sulle spalle delle donne. Non è una conclusione che possiamo accettare, quando parliamo di molestie, di violenza sessuale, con una scia di femminicidi che prosegue indisturbata. Non è una conclusione che possiamo accettare, quando le sorelle argentine ci insegnano che non è necessario aspettare l'8 marzo per scioperare contro l'in/giustizia patriarcale.
Anche per questo motivo, non possiamo permetterci il lusso di sprecare un solo momento a stupirci per la risposta negativa della Fiom alla richiesta di indire lo sciopero. Stupefacente sarebbe stato se l'apparato dei metalmeccanici, folgorato sulla via di Damasco, si fosse reso conto delle ragioni sociali che motivano l'organizzazione autonoma di donne e lesbiche, o se avesse in qualche modo recepito le analisi sottese alla nostra rivendicazione relativa al reddito di autodeterminazione: richiesta a cui l'intero arco della Fiom, inclusa la sua ala sinistra (pur disponibile all'agitazione per l'8 marzo sulla base di una piattaforma anti-governativa riassunta in un odg bocciato dalla maggioranza congressuale), si è per altro sempre mostrato ostile. Sulla base di quali premesse, allora, pensavamo di "aprire contraddizioni", in assenza di una massa critica sufficiente?
Qualcuna ci ha fatto notare che non potevamo lasciare inascoltato il grido d'aiuto indirizzato dalle lavoratrici di fabbrica a Nudm. Bene: lo si raccolga, quel grido, dove effettivamente esiste e dove ce ne sono le condizioni. Ma se la composizione sociale che gravita intorno alle nostre assemblee non si esaurisce nelle figure canoniche del "lavoro produttivo"; se le parole d'ordine abitualmente usate per mobilitare il "lavoro produttivo" rispondono a una definizione di classe che non tiene conto dell'esistenza di classi di sesso; se il "lavoro produttivo" convenzionalmente inteso ricopre solo una minima parte delle nostre esperienze di espropriazione, cancellazione e sfruttamento — se tutto questo è vero, cerchiamo altre strade per portare lo sciopero fuori dalla dimensione puramente simbolica.
Anche perché, care compagne, ieri è stata la segreteria della Fiom a interpellarci per poi rispondere picche, domani potrebbe essere qualcun altro: ci metteremo sempre a disposizione con l'intento di educarli, incassando condiscendenza, barattando i nostri contenuti in cambio...? In cambio di che cosa? Qualcuna a Roma ha detto, tra gli applausi di molte delle convenute, che "Nudm non deve essere un movimento di donne per le donne, ma il movimento alternativo". Significa forse che, in spirito di servizio, dobbiamo scordarci in fretta delle ragioni per cui è nata Non Una Di Meno e ripulirci della "macchia" infamante della parzialità femminista? Quando abbiamo stabilito, esattamente, che quella parzialità è una "macchia" da riscattare? Ci permettiamo sommessamente di ricordare, visto che l'esempio forse ha qualcosa da insegnarci, che lo slogan lanciato lo scorso anno dalla Comisión 8M che ha lavorato sullo sciopero con le reti femministe sparse per la Spagna, era: «se si fermano le donne, si ferma il mondo».
 

Stefania Arcara
Deborah Ardilli
Sara Catania Fichera del Collettivo femminista RIVOLTAPagina
Mariagiovanna Chiavaro Scardino del Collettivo femminista RIVOLTAPagina
Marica Longo
Concetta Palermo Puglisi
Valentina Salpietro
Marinzia Sciuto
Giulia Strano
Collettiva femminista CanaglieCatanesi
Centro Antiviolenza Thamaia


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