di Antonello Mangano
In pochi giorni Aisha è svenuta per la fame e la sete in una barca alla deriva partita da Sfax; ha visto un balordo provare a stuprare la madre davanti ai suoi occhi; ha subito un colpo all’addome durante una violenta carica della polizia italiana. Vive in uno stato di paura costante che la porta a perdere i sensi. Adesso è il tempo del risarcimento. In questi giorni il suo caso arriva a Strasburgo presso la Corte europea dei diritti umani. Da un lato una bambina tunisina di otto anni e la madre. Dall’altro, il governo italiano.
“Eravamo in 40 su una barca e ci siamo persi”, racconta la madre. “Abbiamo incontrato un peschereccio. Gli abbiamo chiesto di riportarci in Tunisia. I pescatori hanno rifiutato”. Tre giorni senza mangiare e bere. Poi una luce in lontananza e altre nove ore per arrivare alla salvezza, cioè l’isola di Lampedusa. Sono le due di notte del 15 febbraio. Aisha sviene e viene portata via in ambulanza.
Squallido e trasandato
La famiglia vuole chiedere asilo. Ma non può. “Per tutto il tempo della permanenza non hanno ricevuto alcun documento attestante la ricezione della domanda di protezione”, dice Giulia Crescini, legale della famiglia.
Una donna e una bambina di otto anni sono sicuramente figure vulnerabili. Invece rimangono nell’hotspot. Insieme a tutti gli altri. Il “Garante nazionale dei diritti delle persone detenute” – una istituzione dello Stato – parla di un luogo “squallido e trasandato”. Ci sono poliziotti e cani lupo sciolti nel cortile, materassi di gommapiuma sporchi. L’acqua calda? Un’ora al giorno. E di notte nei bagni non c’è neanche quella fredda. Al mattino i liquami si accumulano nei bagni, “a pochi metri dalla stanza dei materassi”. Senza porte tra dormitori e gabinetti.
Tutti vogliono andare via. Alcuni per farlo ricorrono a mezzi estremi. Uno si cuce le braccia col filo spinato, un altro ingoia una lametta. Nel centro si parla ancora di W. Si è suicidato un mese prima. Trattenuto per due mesi, aveva ricevuto l’ordine surreale di lasciare l’Italia. Era affetto da disagio psichico, aveva bisogno di farmaci non disponibili sull’isola. Avrebbe meritato una protezione umanitaria.
Si può discutere di tutto, ma di certo non è un luogo adatto a una bambina che porta ancora i segni della traversata in mare. Invece madre e figlia dormono in un corridoio. Insieme agli uomini. Una notte, Aisha vede qualcuno che si avvicina alla madre. La molesta, poi prova a violentarla. Solo le urla della donna richiamano il compagno, che impedisce l’abuso. Non ci sono poliziotti. Aisha cade in preda a un attacco di panico. Sviene. Per due ore rimane priva di sensi.
L’incendio
“Un poliziotto spingeva e picchiava con il manganello chi era in fila per prendere il pasto, senza motivo”. Un gruppo, stanco, chiede di andare via. “Mentre questi parlavano con la sicurezza, tre migranti rimangono indietro e danno fuoco a una stanza”, raccontano gli attivisti della campagna “Lasciatecientrare”.
L’8 marzo tutto precipita. “Si è creato panico diffuso e gli addetti alla sicurezza hanno tenuto i manganelli in mano, contribuendo a diffondere ancor più panico tra la gente che ha iniziato a correre da tutte le parti, mentre la polizia, in assetto antisommossa, ha iniziato violente cariche. Alcuni sono riusciti ad uscire dal cancello principale, altri sono usciti da un buco presente nella recinzione. Altri ancora sono rimasti bloccati e schiacciati all’ingresso”.
“Le autorità di polizia hanno risposto con la forza picchiando indiscriminatamente uomini, donne, bambini”, denuncia Crescini. Un colpo di manganello raggiunge Aisha all’addome. La bambina finisce al pronto soccorso. Sul lettino, urla disperata. “Me lo dai questo video?”, dice qualcuno non identificato a chi sta riprendendo la scena.
Intanto le fiamme hanno definitivamente peggiorato le condizioni del centro rendendolo inagibile. Ma per Aisha e la famiglia c’è ancora una settimana da passare nel centro semi-incenerito.
Il morso
“Io sono stato picchiato tante volte dalla polizia e dagli altri maggiorenni. Anche un cane della polizia mi ha morso e i poliziotti ridevano mentre mi mordeva e non facevano nulla”. Ahmed è un minore intervistato dagli attivisti di Cidl, Asgi e Indiewatch, le associazioni che hanno prodotto un dossier su quello che è successo a Lampedusa in questi mesi.
“Sono quotidiani i pestaggi degli ospiti, le perquisizioni arbitrarie e le minacce”, dicono i legali. La storia è sempre la stessa da anni. Lampedusa è una pentola a pressione. Se si usa il centro come hub per le espulsioni, con trattenimenti a tempo indeterminato. Prima o poi esplode. I migranti dovrebbero rimanere al massimo 48 ore. Ma ci sono trattenimenti di mesi. È “reclusione senza reato”. E da quando è diventato un hotspot, secondo il modello europeo, tutto è peggiorato.
Gente che non ha diritto
Quando arrivano a Lampedusa, i tunisini non possono chiedere asilo, come vuole il diritto internazionale. Al massimo possono “manifestarne la volontà”. Compilare il modello C3 è praticamente impossibile. Vengono considerati “migranti economici”, gente da rispedire a casa. L’asilo ai tunisini romperebbe l’unica catena di montaggio che funziona, insieme a quella con l’Egitto. La catena delle espulsioni, di cui ogni governo ha voglia di vantarsi.
Sono i vecchi accordi stipulati con Ben Alì e Mubarak. Trattati non come dittatori sanguinari, ma interlocutori alla testa di paesi sicuri. Paesi in cui rispedire chiunque, in base alla nazionalità, senza considerare la storia individuale, senza ascoltare cosa ha da dire. Il caso di Aisha è esemplare. La madre si separa dal marito – situazione problematica in Tunisia – ha un nuovo compagno e vuole dare alla figlia un futuro migliore,. Denuncia l’ex marito per violenze e parte per l’Italia. Pensava di affrontare soltanto il mare, non una fortezza.
Chiuso-aperto
“Mi hanno dato un libretto dove c’erano scritti i miei diritti, ma secondo me è una barzelletta, perché te li fanno vedere, ma se chiedi i diritti ti picchiano”, dice ancora un tunisino. Nell’isola, in vista della stagione estiva, si alzano voci allarmate. I “clandestini” allontanano i turisti. Secondo “La Stampa”, ci sarebbe un patto per non allarmare Lampedusa alla vigilia della stagione turistica: i migranti sono stati “scoraggiati” a girare per le strade.
È un dibattito che si trascina sempre uguale da anni. Anche lo status “aperto/chiuso” è una costante. Il 13 marzo scorso il ministero dell’Interno aveva annunciato un “progressivo e veloce svuotamento” in vista dei lavori di ristrutturazione. Ma al prossimo sbarco, Lampedusa rischia di riproporre la solita galleria degli orrori. Perché non è e non sarà mai un’isola-prigione.
Le testimonianze sono state raccolte dalle associazioni Asgi, CILD, Indiewatch, Lasciatecientrare. I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità dei migranti.