Giornata Mondiale contro la tortura - campagna contro il 41bis
Da Osservatorio Repressione, un articolo di Damiano Aliprandi e un comunicato di Giulio Petrilli, che ricorda la compagna Diana
su 131 detenuti sottoposti al regime duro, sette sono donne
Le loro celle si trovano alla fine di un
lungo tunnel sotterraneo, sono grandi due metri per due e si affacciano
sul nulla. Parliamo del carcere de L’Aquila destinato al 41 bis nel
quale su 131 detenuti sottoposti al regime duro, sette sono donne.
Tra di loro c’è l’unica detenuta al 41
bis non appartenente alla criminalità organizzata. Parliamo di Nadia
Desdemona Lioce, la leader delle ex nuove Brigate Rosse – Partito
Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi,
commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e
Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Parliamo di
una organizzazione brigatista che è stata completamente smantellata nel
2003 con gli arresti.
Ed è dal 2005 che il 41 Bis venne
applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente
condannati per appartenenza alle Nuove Brigate Rosse. Nadia Lioce
detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi
detenuto a Terni.
Il 29 novembre 2014, il personale di
Polizia penitenziaria della casa circondariale dell’Aquila, sottrasse
alla disponibilità di Nadia Lioce materiale di cancelleria, libri e
quaderni, condannandola al silenzio, a una condizione d’isolamento
totale e perenne, all’inaccettabile limitazione della naturale
estrinsecazione della personalità umana, con conseguente cancellazione
dei più basilari e inviolabili diritti umani. La Lioce, di proroga in
proroga, è condannata a rimanere al regime duro. Se ufficialmente la
finalità del 41 bis sarebbe quella di recidere i rapporti con le
organizzazioni di appartenenza, non si capisce che senso abbia la
carcerazione dura nei suoi confronti visto che le cosiddette Nuove
Brigate Rosse sono state smantellate nel 2003. Il ministero di
Giustizia, che aveva rinnovato il regime del 41 bis sulla base di
vecchie sentenze, giustificò la sua decisione spiegando che “non ha
mutato posizioni ideologiche, mantiene la leadership dell’organizzazione
terroristica e c’è il pericolo concreto che riprenda contatti con altri
militanti che potrebbero avere la disponibilità dell’arsenale
dell’organizzazione, non ancora localizzato”.
Per gli esperti dell’Ucigos – l’Ufficio
centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali –
Nadia Lioce, se detenuta in regime ordinario, potrebbe riallacciare i
rapporti non solo col cosiddetto fronte carcerario, cioè con gli altri
terroristi in prigione, ma anche con i brigatisti non ancora individuati
e tutt’ora a piede libero.
Erano di diverso avviso, invece, i
giudici del tribunale di Sorveglianza di Roma e de l’Aquila che
criticarono il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la
“lesione di diritti inviolabili” e “l’inaccettabile sacrificio della
dignità umana”.
Per l’avvocato Carla Serra sono in gioco
alcuni diritti fondamentali, compressi da un provvedimento il 41bis
che dovrebbe essere transitorio che invece “mira ad annientare
l’identità stessa dell’individuo detenuto”.
L’altra detenuta a cui è stato applicato
il 41 bis per parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni
di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma
le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse.
In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio del 2009, in cui si
susseguono frasi deliranti di ogni tipo, la Blefari diceva: «Se vogliono
che mi cucia la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto
quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so
proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà. Basta,
basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi
ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne
posso più». Gli inquirenti – spinti probabilmente da quel retropensiero
che si insinua pericolosamente in ogni dove – hanno interpretato queste
parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti
che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In
realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico- attestato dalle
perizie mediche- meditava altro. Infatti si suicidò il 31 ottobre del
2009 nel carcere di Rebibbia.
Damiano Aliprandi da Il Dubbio
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Giulio Petrilli ricorda Diana Blefari
Conobbi Diana Blefari quando visitai per la prima volta il carcere speciale de L’ Aquila nel 2006 e stava male, molto male.
Non reagiva a nulla.
Sdraiata nel suo letto non ascoltava nessuno.
Questa donna detenuta, era accusata di far parte delle nuove Brigate Rosse.
Facemmo una raccolta firme e tante iniziative per toglierla dal 41 bis.
Non ci riuscimmo.
In pochi, ma ci provammo in tutti i modi a salvarla.
Andammo anche a Roma Rebibbia a trovarla.
Allora ero segretario provinciale di Rifondazione e francamente
feci del tutto per questa battaglia, noncurante di essere accusato da un
lato di essere filo terrorista e dall’altro di essere un umanitarista
asservito alla delegittimazione dell’identita’ rivoluzionaria della
Blefari.
Ma tra queste due accuse, andammo avanti per la terza via e cercammo in tutti i modi di strapparla alla morte.
Ma non ci riuscimmo.
Diana Blefari si suicido’ il 31 ottobre del 2009, nel carcere di Rebibbia.
Il 13 maggio del 2009 in una lettera diceva “Se vogliono che mi cucia la bocca, me la cucio.
Se vogliono che parlo, diro’ tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso piu’ stare cosi’.
Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pieta’.
Basta, basta, basta!
Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco a mi ammazzo e vi
libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso piu’.”
Queste parole descrivono completamente e intensamente cosa e’ il 41 bis.
Giulio Petrilli
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