Lunedi 29 maggio, Ayşe Deniz Karacagil è caduta martire nell'operazione per liberare Raqqa. Ha combattuto nelle file del MLKP (Partito Comunista Marxista-Leninista di Turchia) e nel Battaglione Internazionale per la Libertà. I combattenti e le combattenti del QSD (Forze Democratiche Siriane) sono in fase di avvicinamento finale di Raqqa, la capitale autoproclamatosi dello Stato Islamico.
Da Osservatorio repressione
Da Istanbul a Raqqa. “Cappuccio Rosso”, in prima linea nel 2013 a Gezi Park contro il governo Erdogan, è morta in Siria: combatteva l’Isis con le Ypg kurde. La sua storia un filo che lega i mille spettri mediorientali
C’è un lungo cammino che lega parco Gezi
ad Istanbul alle piane attorno a Raqqa. Mentre nei giorni scorsi
centinaia di persone marciavano nelle strade della Turchia in ricordo
delle proteste di quattro anni fa, altri passi avevano condotto Ayse Deniz Karacagil, nome di battaglia Destan Temmuz, ben più lontano.
PRIMA IN CARCERE con
una condanna di 98 anni per associazione terroristica figlia della sua
partecipazione alle proteste, a cui era scampata grazie ad uno
scricchiolio nella macchina della repressione: scarcerata prima che la
condanna potesse essere definitiva. Quindi via tra le montagne di
Qandil, accolta nelle file del Pkk, unica fuga dal carcere a vita.
Infine era giunta alle porte di Raqqa,
“capitale” dello Stato Islamico, insieme ai volontari dello Ypg curdo.
In quelle piane il lungo cammino di Ayse si è fermato il 29 maggio,
ennesimo tributo di sangue versato nella guerra al Califfato.
La sua figura di giovane combattente è
stata immortalata da Zerocalcare nel libro Kobane Calling: la ragazza
dal cappuccio rosso, indossato mentre gridava nei megafoni dalle piazze
turche.
AYSE ERA STATA in prima
linea durante le proteste di Gezi, insieme a milioni di persone. Otto
di loro hanno lasciato la vita sui selciati cittadini e oggi sono
ricordati in minuti luoghi di memoria sparsi nei quartieri.
I loro nomi: Mehmet Ayvalitas, Abdullah
Comert, Ethem Sarisuluk, Ali Ismail Korkmaz, Ahmet Atakan, Berkin Elvan,
Burak Can Karamanoglu, Mehmet Istif, Elif Cermik. Gente scesa in piazza
per proteggere un’area verde nel cuore di Istanbul, minuta, ma
dall’enorme il valore simbolico.
PERCHÉ QUELLE PROTESTE,
inattese e veementi, avevano presto assunto significati che andavano
ben oltre la difesa di alberi: reclamavano diritti e libertà, sotto un
cielo al cui orizzonte già s’intravedevano addensarsi le nubi nere di
ciò che sarebbe giunto.
Molte parole sono state spese
sull’eredità di quei giorni che vibravano di speranza e aspettative di
cui oggi assistiamo ai sussulti, insopprimibili eppure fiacchi per una
repressione che, anno dopo anno, si è fatta sempre più soffocante.
Spesso ci si chiede se sia possibile una
nuova Gezi, una nuova ondata di sdegno ed energia che possa liberare il
paese dal pugno di ferro in cui il presidente Recep Tayyip Erdogan l’ha
serrato.
Probabilmente questo pugno di ferro è la
più indesiderata delle eredità di parco Gezi. I passi della rivolta
erano corsi veloci nelle strade, cogliendo impreparate le autorità che,
dopo giorni di inerzia, avevano infine reagito nel solo modo in cui il
potere sa rispondere: con la violenza.
LE PAROLE DELLA RIVOLTA
erano corse veloci sui social media, luogo allora pressoché inesplorato
dal potere e verso cui avrebbe presto puntato il dito. L’intolleranza
liberticida di oggi verso giornalisti, attivisti e cittadini, arrestati e
condannati per aver scritto o parlato fuori dalle grazie del capo, si
nutrono sì da una lunga tradizione nazionale di ostilità verso il libero
pensiero, ma sono state acuite dallo choc subito dal potere proprio in
quei giorni.
Uno choc che il governo non vuole si
ripeta e i 98 anni comminati ad Ayse ne sono lo specchio. Si è dotato di
leggi speciali, di uno stato di emergenza che assomiglia sempre più a
uno stato di diversa normalità; ha rivoltato lo Stato come un calzino
per rendere la macchina letale e obbediente; ha riscritto la
Costituzione a colpi di mercanteggiamenti in parlamento e schede
invalide nelle urne referendarie.
MA QUEL CHE È CAMBIATO,
soprattutto, è nella testa della gente comune. I sogni continuano a
vivere, ma la rivolta di parco Gezi allora correva sull’onda
dell’entusiasmo di chi vede il cambiamento a portata di mano, la allunga
per afferrarlo, convinta che i tempi siano maturi.
OGGI SERVE IL CORAGGIO
di ribattere colpo su colpo ad un potere che sfoggia disprezzo e solleva
nuovi minareti in piazza Taksim, insultando così la sua stessa
religione. Serve quel coraggio che, da parco Gezi, conduce fino alle
piane di Raqqa.
da il manifesto
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