Fuori dall’ombra. 64 ore settimanali
è in media l’orario delle lavoratrici domestiche nel Golfo e nel
Levante. Le migranti guadagnano tra il 20-30% in meno del salario minimo
locale
Il dato potrebbe stupire: il Medio
Oriente è la regione al mondo con la più alta percentuale di lavoratrici
domestiche. Quasi tutte migranti. Tra Golfo e Levante l’Organizzazione
Mondiale del Lavoro ne conta 1,6 milioni, quasi il doppio (2,5 milioni)
secondo l’International Trade Union Confederation.
NUMERI ELEVATISSIMI,
contestualizzati dal sito di monitoraggio Migrant Rights: il 90% dei
cittadini del Kuwait ha alle proprie dipendenze una lavoratrice
domestica straniera; il 36,6% della forza lavoro femminile in Bahrain è
impiegata in case private; il 99,6% degli immigrati economici in Arabia
Saudita è un lavoratore domestico. L’altro lato della medaglia è
l’assenza totale di diritti: lavorano in media 64 ore a settimana e
guadagnano tra il 20% e il 30% in meno del salario minimo nazionale (147
dollari al mese in Kuwait, 100 in Arabia Saudita).
E sono vittime di una forma di schiavitù moderna, invisibile. A monte sta il sistema della kafala, o dello sponsor: l’ingresso di lavoratori stranieri nei paesi del Golfo e in Libano, la residenza e la successiva uscita sono permessi sulla base della sponsorizzazione da parte di un cittadino o di un’impresa privata. Che nella pratica diventano «proprietari» di un essere umano.
E sono vittime di una forma di schiavitù moderna, invisibile. A monte sta il sistema della kafala, o dello sponsor: l’ingresso di lavoratori stranieri nei paesi del Golfo e in Libano, la residenza e la successiva uscita sono permessi sulla base della sponsorizzazione da parte di un cittadino o di un’impresa privata. Che nella pratica diventano «proprietari» di un essere umano.
PASSAPORTI CONFISCATI,
impossibilità di cercarsi un lavoro più dignitoso o meglio remunerato,
condizioni di lavoro disumane, violenze fisiche e verbali, suicidi sono
le dirette conseguenze per buona parte delle lavoratrici domestiche
straniere, tutte provenienti da Sud est asiatico e Africa sub-sahariana.
Un quadro reso peggiore dalla mancanza di una regolamentazione statale del lavoro domestico, escluso dalle leggi sul lavoro apparentemente per non violare privacy e «sacralità» della casa privata.
Un quadro reso peggiore dalla mancanza di una regolamentazione statale del lavoro domestico, escluso dalle leggi sul lavoro apparentemente per non violare privacy e «sacralità» della casa privata.
Le lavoratrici domestiche finiscono così
in un limbo di invisibilità, divise tra loro e incapaci di accedere ai
propri consolati, costrette alla schiavitù pena l’arresto e
l’espulsione. Dietro, un vero e proprio traffico di esseri umani, con
agenzie specializzate che traggono profitto dalla «vendita» di donne
migranti entrate illegalmente.
Le prime forme di organizzazione
sindacale iniziano però ad emergere: se nelle petromonarchie del Golfo
sindacati e scioperi sono fuorilegge, in Libano sono radicati. Nel 2015 è
così nato il primo sindacato di lavoratori domestici, sotto l’ombrello
della più ampia Federazione delle unioni dei lavoratori. Da allora ha
firmato accordi con i sindacati nei paesi di origine e lanciato campagne
per vedersi riconosciuto come soggetto legittimo da Beirut, sostenuto
da cento ong locali.
LE DIFFICOLTÀ non
mancano, figlie della scarsa capacità di raggiungere la singola
lavoratrice, per ragioni di lingua, isolamento, bassi stipendi che
limitano il movimento, timore della deportazione e ora una nuova guerra
tra poveri, scatenata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati
siriani disposti a lavorare per salari ancora più infimi. Ad
organizzarsi, però, è anche la stessa società civile libanese e i
movimenti anti-razzisti che hanno fatto delle condizioni delle
lavoratrici domestiche (250mila stimate nel Paese dei Cedri) una
bandiera.
Se già dal 2011 è stato aperto nella
capitale il Migrants Community Center, il primo maggio 2017 le strade di
Beirut sono state attraversate dalla parata dei lavoratori migranti,
sotto lo slogan «La kafala uccide». Solo pochi mesi prima, nel novembre
2016, il Libano deportava Sujana Rana e Roja Limbu, lavoratrici
domestiche leader del sindacato nato due anni fa e tuttora illegale agli
occhi di Beirut.
È INVECE OBLIO TOTALE
nel Golfo, dove la narrativa su cui si fondano le petromonarchie sunnite
– un misto di wahhabismo, interpretazione medievale dell’Islam e
soffocamento delle istanze di ogni gruppo «minoritario» inteso come
minaccia alla tenuta del regime (dalle donne agli immigrati, dalla
comunità sciita alle opposizioni politiche) – crea intorno alle migranti
una gabbia che prima che fisica è mentale.
LO SFRUTTAMENTO delle
lavoratrici tra le mura domestiche è un fenomeno radicato e diffuso,
affatto trattato dai media e marginalizzato dalle autorità che non
puniscono mai i responsabili di reati nei rarissimi casi denunciati
dalle vittime.
Così si spiegano le drammatiche
statistiche dell’intelligence libanese riportate dall’agenzia dell’Onu
Irin: in Libano ogni settimana due lavoratrici domestiche muoiono per
cause non naturali. Per i pestaggi, per suicidio o per essersi lanciate
dal balcone nel tentativo di fuggire.
da il manifesto
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